Saggi critici/Delle opere drammatiche di Federico Schiller

Delle opere drammatiche di Federico Schiller

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Delle opere drammatiche di Federico Schiller
«Epistolario» di Giacomo Leopardi «Beatrice Cenci». Storia del secolo XVI, di F.D. Guerrazzi
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DELLE «OPERE DRAMMATICHE»

di Federico Schiller.


Chi scioglierá l’enigma de’ nostri tempi? Quando gli uomini si riposano in ima comune credenza, l’enigma della vita è sciolto, ed ei si abbandonano con ardore alle passioni e agl’interessi del mondo. Nello scetticismo moderno, come in vasto pelago, scomparve la storia, la tradizione e la scienza de’ secoli. I nostri padri, spensierati dell’avvenire, irrisero a’ caduti con l’arme dell’ironia e dello scherno, ma il tempo del riso è passato: l’uomo è fatto serio e pensoso. La vita ritorna un enigma; ed il sapiente si trova tanto ignorante quanto il semplice pastore, secondo l’alto concetto di un nostro sommo poeta. Qual è il destinato delle umane generazioni? e il significato della vita sará pur sempre un enigma? Ecco la formidabile interrogazione che travaglia la scienza e l’arte moderna. Al sensismo succede il criticismo, siccome alla poesia fuggitiva e volteriana succede la poesia del dolore e del nulla: le forme mutano; il dubbio resta. Il criticismo è l’ultima forma dell’individualismo spirante. È un panteismo dello spirito: tutto è lui, e l’universo non è che la sua apparenza. L’ideale poetico diviene una veritá filosofica. Innanzi al poeta il corso della natura è danza e armonia; il suo suono è canto e parola; il rombo, il mormorio, il susurro è voce di sdegno e di amore: ella parla, ella pensa, ella ama. La beltá ch’egli adora è creatura della sua fantasia; la veritá che contempla è figlia del suo pensiero; e la bontá che ammira è specchio [p. 9 modifica]del suo medesimo cuore. Nell’individualismo ogni nostra conoscenza è ideale: Aspasia è il nostro pensiero. E la realtá rimane un enigma, ed Iside invitta stassi taciturna e velata dinanzi all’umana ragione. Cosi la coscienza individuale, restata sola in cospetto del nulla, innalza altari a sé stessa: l’universo non è: ella lo crea!... Uomo orgoglioso! ma tu non sai quante lacrime costa il tuo orgoglio. Quando tu non basti a te stesso, quando vai cercando fuori di te qualche cosa, in che si riposi e quieti il tuo animo, vanamente ti guarderai d’intorno, tu non vi troverai che te stesso. Tale è il lato doloroso dell’individualismo: la vita interiore è la febbre che ci consuma. Ritirati in noi stessi, ci rodiamo miserabilmente in pensieri sterili e vôti: e la nostra compagnia ci pesa, e guardiamo sospirando fuori di noi. Di qui la poesia del dolore e del nulla, canto funebre dell’universo, e pietosa elegia dello spirito che lamenta le illusioni perdute, e ridomanda ciò ch’egli stesso ha distrutto, ed incolpa la natura dell’opera della sua ragione. Ivi il cuore sanguina innanzi al dubbio, ed il poeta con contraddizione sublime palpita ed ama e corre pur dietro a quella realtá che innanzi alla mente è illusione ed errore. E che importa? quella illusione ha virtú di fargli battere il cuore, e quell’errore rallegra di care beltá la sua fantasia. O, se vogliamo lasciar queste magre distinzioni di mente, di fantasia e di cuore, ivi è lo spirito stesso inquieto della sua solitaria grandezza, e sospirante appresso alla realtá che ha distrutto. La vanitá infinita del tutto è cosa che a solo pensare ci addolora e ci spaura: l’uomo ha bisogno dell’universo: l’uomo solo non è che una corda spezzata che non rende piú suono.

L’individualismo è presso al suo termine; tutte le vie per le quali ei si è messo ci conducono inevitabilmente negli affanni del dubbio. Noi assistiamo ansiosi a’ suoi ultimi e funesti effetti nella scienza, nell’arte, nella politica, nella economia, ne’ costumi: scetticismo nella scienza, subbi etti vismo nell’arte, anarchia in politica, pauperismo in economia, egoismo ne’ costumi: ecco i suoi amari frutti. Giá si grande un tempo egli ha rilevata l’umana dignitá; egli ha innalzata la fronte dello schiavo e del [p. 10 modifica]plebeo, e li ha collocati con orgoglio accanto a’ potenti ed a’ grandi del mondo: egli ha abolito privilegi, classi e fattizie grandezze: ed alla nobilissima parola antica romanus sum ha sostituito una parola piú nobile ancora: homo sum. Adorato, ubbidito, adulato per sedici secoli sotto il nome di Barbaro, Cavaliere errante, Barone, Re, Pontefice e Imperatore, potentissimo di volontá e pieno di fede in sé stesso ne’ primi tempi, quale ce lo dipingono Dante e Shakespeare, ora virtuoso, ora colpevole, sempre grande; nell’etá moderna fa dell’ego sum il verbo della scienza, sostituisce la coscienza individuale alla tradizione, all’autoritá, alla fede; dichiara i suoi diritti in cospetto delle prostrate grandezze, e, fattosi popolo, li consacra col sangue; annulla l’universo, e lo crea ad immagine sua; e muore lasciandoci un passato distrutto, un presente tristo ed un oscuro avvenire: lo scetticismo e l’anarchia nelle menti, il dolore e la disperazione ne’ cuori.

L’individualismo è la filosofia di Federico Schiller: Kant fu il suo maestro. L’universo per lui è il teatro delle nostre azioni; e gli avvenimenti non sono che lo effetto inevitabile de’ nostri caratteri e delle nostre passioni. Pure egli non avea piena fede nel suo pensiero, né gli applausi de’ suoi cittadini bastarono ad ispirargli fidanza; tu lo vedi quasi ad ogni nuovo dramma mutar forma e disegno, scontento del giá fatto, poco sicuro di ciò che tenta; e talora viene quasi in disperazione del suo ingegno, ed esclama tristamente: — io non sono nato poeta! — A molti critici è piaciuto di esaminare i suoi drammi sotto quest’ultimo aspetto e, seguendo il poeta ne’ varii casi della vita e nelle ardenti contraddizioni di un’anima tumultuosa e inquieta, ci hanno mostrato qui l’imitazione di Shakespeare, lá il dramma borghese, e dove il fantastico cristiano e dove il fatalismo greco. Vero. Ma sotto le mutate forme vi è qualche cosa che permane: la libertá umana suprema spiegazione de’ fatti, e l’azione invitta della Provvidenza quasi di solo nome. Quando egli cominciò a scrivere i suoi drammi, si era in sul piú vivo del contrasto tra l’antico ed il nuovo; sensismo e criticismo, classicismo e romanticismo, francesismo e nazionalismo, dispotismo e libertá: ecco [p. 11 modifica]i nomi diversi di due sole idee che agitavano allora i nostri padri, la passione de’ loro scritti, delle loro scuole, delle loro battaglie. L’istinto dei giovani è infallibile: non guasti da interessi o da preconcette opinioni, essi indovinano sicuramente nella viva contraddizione delle idee, quella del progresso e dell’avvenire: quella sieguono, quella amano, a quella consacrano l’intelligenza e la vita. Federico Schiller non dubitò punto: la sua filosofia fu il criticismo, la sua arte il romanticismo, il suo amore la patria e la libertá. Donde il concetto sostanziale de’ suoi drammi: l’uomo essere libero e morale vi apparisce con le sue credenze, col suo carattere, con le sue passioni, centro, principio e fine di tutti gli avvenimenti. È l’individualismo rilevato dal fango in cui l’aveano gittato i sensisti: è l’ideale, cioè a dire la stessa poesia, restituito in vita: è la libertá e moralitá umana rinnnalzata e glorificata.

L’individualismo è il concetto del dramma moderno: gli antichi rappresentavano la vita sotto altro aspetto. La vita è per essi un gran miracolo che adorano, compresi di religioso terrore, senza intendere, e senza pur cercare d’intendere: a modo che il semplice volgo trema della sinistra luce del lampo, di cui non sa né cura di saper la natura. Colpiti da quelle subite catastrofi che involvono nella stessa rovina innocenti e rei, e rammentano all’uomo il suo nulla, la vita è da loro significata sotto l’influenza irresistibile di una forza cieca incontro a cui non vale innocenza o fortezza, non Edipo, non Prometeo. Di che la semplicitá del dramma antico, e il breve giro dello spazio e del tempo: ché di niuna preparazione o antecedenti è mestieri all’azione fatale: è la folgore che scoppia ed uccide ad un tempo. All’uomo è dato cadere con dignitá, pati fortia; ma indarno ripugna alla onnipotente ira, onde spesso dall’altissimo grado di felicitá e di possanza ove lo colloca il poeta, ei cade precipite con immensa rovina: spettacolo di pietá e di terrore della greca tragedia. Il senso della vita si comincia a rivelare in Shakespeare: il miracolo scomparisce: il Fato è l’uomo. Egli non è piú il Dio degli Dei, ma sceso nell’ordine inferiore delle potenze soprannaturali col nome di strega, perde quella vita sua propria [p. 12 modifica]che avea presso i Greci, e diviene un fantasma dell’anima, creato da’ terrori e da’ rimorsi della coscienza. È l’uomo che da persona a’ suoi desiderii e ai suoi timori; di che è consapevole lo stesso poeta, il quale non ha alcuna fede nella realtá de’ suoi fantasmi, e lascia pur talora intravedere la subbiettivitá della loro natura. Nel dramma inglese è l’uomo che grandeggia in tutto l’ardore delle sue passioni e in tutta la possanza della sua volontá: donde quelle sue proporzioni larghissime, come è richiesto all’azione umana: improvvisa, spontanea e irrazionale innanzi al volgo maravigliato, ma innanzi all’acuto sguardo del savio preparata lentamente da remote cagioni. Nella tragedia francese ed italiana il concetto è lo stesso, anzi vi è esagerato. Il Fato scomparisce del tutto, e il senso della vita diviene puramente umano: il qual concetto vi è cosí assoluto, ch’è quasi l’antitesi del concetto greco, quantunque le due scuole si rassomiglino per la forma: il che parrá chiaro a chi voglia porre a riscontro la Fedra greca con la francese, e l’Oreste di Sofocle con quello di Voltaire e di Alfieri. Il protagonista del dramma moderno è dunque l’uomo; né altro è il concetto che domina, sotto la diversitá delle forme, ne’ drammi di Schiller.

Il Faust è un lavoro potentissimo, creazione dantesca, dove un ardito pennello dipinge sicuramente gli affannosi dubbii e i pensieri di una intera generazione intorno al tremendo mistero della vita. Né Schiller senti meno l’amarezza del dubbio. Confidente dapprima nella sua ragione, ei l’interroga con ardore e con passione: e per dodici anni si travaglia invano intorno al crudele enigma: «Che mi hai tu dato, ei dice alla sua ragione, se io non ho tutto? nella veritá vi è forse il piú o il meno? uon è ella unica ed indivisibile? togli un suono alla cetra, togli al raggio luminoso un colore, e ciò che resta non è piú niente: l’armonia è spenta, la luce è distrutta». Ed ei si riposa nel tempio della fede, e rassegnato adora ciò ch’ei non comprende. «Anime nobili, egli esclama, allontanatevi dalla ragione, e raffermatevi nella Fede celeste: ciò che l’orecchio non ode, ciò che l’occhio non vede, ecco ciò ch’è bello, ciò ch’è vero». Quindi, lasciando le regioni soprannaturali, dove levò sí alto volo [p. 13 modifica]l’ingegno di Goethe, ei non ritrae della vita che il solo suo lato visibile ed umano. Il che forse era consentaneo non solo alla sua filosofia, ma piú ancora alla natura del suo ingegno. Egli ha piú suavitá che forza, piú giudizio che audacia, piú gusto che genio; o, per dir meglio, il suo genio è nel suo cuore si caldo di affetto, dove trovi ad un tempo la candidezza di un fanciullo e l’ardore di un giovine. Molti poeti si ammirano: Schiller si ama. Egli ha la chiave del nostro cuore, e muovelo a suo talento; ma care sono le lagrime che egli ti trae dagli occhi, e nel piú profondo dolore vi è sempre alcun che di delicato, che allontana lo strazio e ti lascia dolcemente malinconico. I giovani di Schiller sono i personaggi dai quali move principalmente l’affetto. Il giovine è il suo idolo, il suo prediletto: sembra quasi che in quelle vergini e schiette nature ei si compiaccia a dipinger sé stesso. Collocato nel mondo moderno, l’ingenuo giovane vi sta come straniero, guardato con compassione e con disprezzo da quelli che si chiamano uomini. La sua generositá è stravaganza, la sua dignitá è superbia, la sua fede è utopia, la sua bontá è inesperienza: ei non conosce il mondo, e glielo insegna un Ottavio! Nel mondo moderno l’ideale è rappresentato dal giovane: ecco il suo significato ne’ drammi di Schiller: vivente solo co’ suoi sogni e col suo cuore, incompreso e deriso, ei muore vittima incontaminata de’ bassi intrighi e delle codarde passioni altrui. Carlo Moor, Ferdinando, Don Carlo, Massimiano, Amalia, Luisa, Tecla, tale fu il vostro destino! La vostra colpa innanzi a quelli che vi uccisero fu la vostra bontá; voi avevate un’anima, e ricusaste di farvi istrumento in mano de’ nostri carnefici. Il mondo non ha per voi che una fredda ironia; ma quei pochi, ai quali la dignitá umana non è vana parola, il mondo calpestano e voi invidiano e adorano. Né io posso pensare a voi senza lagrime: la compagnia dei giovani è stata il mio universo, la luce della mia anima. Quanto li ho amati! Come parea bella la vita in mezzo a loro! quanti sogni, quante speranze! eravamo tanto contenti! i nostri giorni scorreano in una celeste armonia!... Schiller serbò fino all’ultimo la gioventú del suo cuore, dono prezioso e quasi divino: i suoi giovani sono il riverbero della [p. 14 modifica]sua anima. Donde nasce in loro una certa uniformitá, e talora alcun che di subbiettivo e di astratto ed anche di rettorico: del qual difetto però appena qualche vestigio è in Tecla e nel figliuolo di Piccolomini. Ne’ primi suoi drammi questo difetto è ancora in tutt’i personaggi; ci si vede una giovinezza ardita e impaziente, inesperta delle cose e degli uomini. Venuto il suo ingegno a maturitá, il poeta, nello studio della storia e nell’uso del mondo, acquista quel senso del concreto e del reale, senza di cui non è vero ideale: ed i suoi personaggi sono ritratti con quelle gradazioni, con quelle contraddizioni, con quel misto di bene e di male, di debole e di grande, che ne fa non tipi astratti ed assoluti, ma uomini vivi in mezzo alle credenze, ai costumi, e alle passioni dei loro tempi. Per questa parte Schiller si allontana dalla scuola francese, dove talora è a biasimare «la pompa oratoria delle parole, e l’esagerazione fattizia de’ caratteri», ed emula Shakespeare, che avanza ancora nella esattezza dei particolari. L’uno è il pittore de’ mezzi tempi; l’altro del mondo moderno. A quella violenza di passioni, a quella pertinacia di volontá, a quella colossale grandezza degli uomini di Shakespeare, succede l’ipocrisia, la mediocritá, la fiacchezza; la coscienza alla spontaneitá, la parola- all’azione. Il vigore e la forza dell’uno è pari alla sagacia e penetrazione dell’altro. Pochi come Schiller sanno mostrarci ad un tempo gli uomini come sono e come si sforzano di parere: e perfette creazioni in questo genere sono Filippo, Wallenstein, Elisabetta, Ottavio, Domingo, il Duca d’Alba, Leicester, Cecilio. Wallenstein fra questi è un carattere generoso: pure egli è giá scaduto della sua prisca grandezza: il suo desiderio è ardito, la sua volontá è fiacca. Egli si crede un Cesare; ma egli esita lungo tempo innanzi al Rubicone, e quando vuol passarlo, è giá troppo tardi. Ne’ suoi pensieri niente è di serio: sembra ch’ei si trastulli con essi, come giovane che si compiaccia nelle fole e ne’ sogni della sua fantasia. Dice Macbeth: la parola uccide l’azione: e Wallenstein fantastica, medita, dubita; ed incalzato dagli avvenimenti non è piú in sua balia la scelta, e giunge tardo e lento all’azione, quasi trasportato e costretto da una forza esteriore. Io spiego. [p. 15 modifica]non biasimo: Schiller ha profondamente compreso e ritratto con grande veritá questo personaggio moderno. In questa Specie di caratteri è la grandezza di Schiller: e che cosa vi ha di piú vero che il suo Filippo? Sotto il tiranno vi è l’uomo. Nella Vergine d’Orléans egli ha dipinto caratteri dei mezzi tempi: ma quella giovane e robusta barbarie ha avuto giá il suo poeta: Shakespeare non torna. E che altro sono La Hire, Dunois, Lionello, se non immagini squallide dell’antica energia? Vedete Isabella: la sua ferocia è nelle sue parole: e chi non pensa a Margherita, quella creazione paurosa e sublime del poeta inglese? Talbot è un nobile carattere; pure è in lui qualche cosa di riposato e di composto e quasi di pensato, che mal si affá a quella disordinata violenza di tempi: testa greca in tempio gotico. Nel Guglielmo Tell vi è altra sorta di caratteri. Schiller ha voluto ivi ritrarre un popolo nella naturalezza ed. innocenza de’ suoi ingenui costumi: e quando io penso a quella nobiltá e delicatezza di sentimenti, a quella grave semplicitá di maniere, a quella solennitá e temperanza di affetti, a quella costante serenitá dello stile, che ti lascia in tanta violenza d’azione soavemente commosso; quando, nello stupendo carattere di Tell, io penso a quella dignitá senza orgoglio, a quel coraggio senza ostentazione, a quella umiltá senza bassezza; io dico: in questo mondo ideale di Schiller, ch’ei chiama la Svizzera, vi è un’armonia celeste; e penso all’etá dell’oro, alla innocenza pastorale, o a quei sogni dorati, a quelle estasi beatrici, a quel riso dell’universo, che brilla, immagine fuggitiva, innanzi al rapito poeta. Forse in tanta ideale perfezione è alcun che di troppo assoluto. Tu abiti nella Svizzera; tu stai in mezzo ai suoi laghi; tu contempli i suoi monti; ma forse nella nobile semplicitá di quegli uomini tu vorresti alcuna cosa più di violento e di rozzo, che ritragga un popolo buono, ma barbaro, ed una certa apparenza di disordine, che esprima il procedere spontaneo, tumultuoso e fortuito delle cose umane. Tutto ivi è preconcetto e preordinato; e il disegno perfettissimo traspare da tutte le parti: di che fa fede e l’ordine visibilmente artificioso de’ fatti, e quel quinto atto rispondente più ad un concetto astratto, che [p. 16 modifica]alla natura dell’azione. È lo scultore che doma la rozza materia, e v’imprime la maestá di Giove o la bellezza di Apollo; o, per dire piú propriamente, è il Poeta sapiente innamorato del suo pensiero, che meditando crea: qualitá distintiva della moderna poesia, nella quale l’ispirazione move dalla piú alta metafisica, e la coscienza accompagna col suo sguardo tranquillo l’accesa fantasia dell’Artista. La barbarie è raggentilita dal pensiero. Ma perché dovrei farne biasimo a Schiller? Se vi manca la veritá storica, vi è la veritá eterna. Ermengarda, perché difforme dai tempi in cui l’ha collocata il poeta, è forse meno una delle piú delicate e gentili creature della nostra poesia? Il Guglielmo Tell rimarrá monumento immortale d’artistica perfezione; o consideri la sapienza del disegno, o l’armonia dei caratteri, delicate gradazioni di un solo carattere, o il popolo svizzero vero protagonista del dramma, o la rapiditá dell’azione non impedita da’ lunghi discorsi e dall’analisi rettorica de’ sentimenti, o la maravigliosa pittura de’ luoghi e de’ costumi, o la veritá del dialogo, o la nobile semplicitá del linguaggio, o la infinita diligenza in ogni piú menomo particolare: esemplare stupendo di correzione e di buon gusto di un ingegno maturo. L’anacronismo invero è quasi inevitabile nella condizione de’ nostri tempi. Senza tradizioni e senza patria il nostro dramma non è che un mero lavoro di fantasia, separato dalla realtá della nostra vita. Vi assistiamo a diletto; né l’idea può potentemente agitare gli spettatori, se non quando è divenuta costume, sentimento, popolo: l’idea nuda, solitaria, contemplazione di pochi magnanimi, esser può argomento solo di nobilissima lirica. Nel dramma il poeta è costretto o a farne un tipo generale e astratto, nudo di ogni colorito locale, come in Vittorio Alfieri, solitario amante di un popolo futuro; o, volendo rimanere nei termini della realtá, dee mal suo grado trasportarsi in tempi diversi, e contemplare altre idee ed altri costumi. Immensa opera di fantasia! Ma il presente incalza il poeta, e inconsapevolmente si mesce ai suoi personaggi: il marchese di Posa parlerá il nostro linguaggio innanzi a Filippo II. Date alla idea una patria, e l’anacronismo cesserá, ed il dramma sará nazionale. Bene [p. 17 modifica]ingiusti invero que’ critici tedeschi che avrebbero desiderato un dramma nazionale da Schiller: sono essi una nazione?

Rispetto alla forma, parrai che Schiller sia rimaso in parte ne’ confini delle tragedie francesi. Due sono le forme possibili del dramma, corrispondenti alle due specie possibili di situazione. Il poeta si rinchiude in alcune date determinazioni di tempo, di luogo, di azione, piú o meno larghe, quando le passioni ed i caratteri sono giunti nell’ultimo lor punto, e l’azione che ne siegue è cosí prossima alla catastrofe, che si può dire una lunga catastrofe. Ma se il poeta ha in animo di ritrarci i caratteri e le passioni in tutte le loro gradazioni, e mostrarci il significato della vita ne’ suoi varii accidenti, se col vasto intelletto egli abbraccia tutta quella lunga serie di cause e di effetti, che fanno di piú azioni, innanzi al volgo slegate e diverse, una sola situazione; allora gli spariscono innanzi le ordinarie proporzioni di luogo e di tempo, e l’unita di azione si risolve in una superiore unita, l’unitá di situazione. Vi è una qualitá dell’ingegno che tiene del divino, e ch’io chiamerei quasi l’immensitá! Dante, Shakespeare, Ariosto, Goethe sono uomini onnipotenti che vivono colla fantasia in ispazio infinito, che noi spaura, e che essi comprendono con lo sguardo sicuro, quasi ancora non pago, e desideroso di più largo orizzonte. Federico Schiller non è di questa tempera. Le situazioni de’ suoi drammi son tutte della prima specie, quantunque le proporzioni sieno piú larghe di quelle in che è rinchiusa la tragedia francese. Ma che la durata del tempo sia di ventiquattr’ore o di piú giorni, che il luogo dell’azione si muti di frequente rimanendo ristretto in uno spazio determinato; che l’azione sia larga di episodi senza scapito della sua unitá; non mi paiono questi mutamenti sostanziali: è sempre quella forma e quella situazione; è la regola di Aristotile tolta dalle mani de’ pedanti, e interpietata largamente e liberamente. La Maria Stuarda è una tragedia, a cui massimamente conviene questa situazione e questa forma. Se il poeta ha in essa voluto significare la colpa purificata dall’infortunio, egli vi è mirabilmente riuscito. Gli antecedenti vi sono adombrati come rimembranze lontane e dolorose che si cerca scacciare dalla [p. 18 modifica]coscienza: e solo ci sta innanzi l’altezza d’animo della illustre colpevole, la sua rassegnazione, il suo infortunio. La tragedia è un lungo martirio, una espiazione, una catastrofe prolungata: l’amore di Mortimer e Leicester sono incidenti di un significato profondo. I deliranti abbracciamenti di Mortimer rammentano il bacio scolpito sulla fronte di Marion de Lorme: parte di martirio a Maria sono i desideri! che desta la sua infortunata bellezza, e l’audacia che ispira in quel supremo momento la sua passata fragilitá. Leicester è l’ombra del suo passato: l’ardore non è spento al tutto nel suo debole cuore, e noi assistiamo agli ultimi teneri moti di un’anima passionata che vanno ad estinguersi con l’ultima speranza di vita. La solennitá della ultima ora sgombra dalla mesta ogni pensiero terreno, e la colpa si allontana dal patibolo, e va a posarsi sul trono di Elisabetta. Ecco situazione propria della scuola francese: donde la magnifica unitá e semplicitá onde ella è condotta. Posso dire il simile del Don Carlo, quantunque per lo spazio angusto del tempo i fatti vi sieno troppo cumulati ed intrigati, e la parte politica si trovi meno nell’azione che nel facondo parlare del marchese di Posa. Nel primo suo dramma il giovane Schiller tentò d’imitare quella miracolosa larghezza di forme, che fa del dramma di Shakespeare un piccolo universo: né mi pare con successo. Di che non dirò altro; non volendo tener dietro a quei critici che parlano con severitá tanto importuna di un lavoro giovanile giudicato sapientemente dallo stesso autore. Piacemi invece di arrestarmi alquanto sul Wallenstein, parendo a prima giunta, se è lecito argomentarlo dalle ampie proporzioni, che in questo l’autore abbia mirato a piú vasto concetto. Pure dirò liberamente il mio avviso. Se il Poeta avesse compreso l’intero concetto del Wallenstein in tre stadii distinti della sua vita e in ampia tela rappresentato questo personaggio: prima da umili principii salire ad altissimo grado di potenza e di gloria, ubbidito, adulato; poi mirare ancora piú alto, tanto acquistando di ambizione quanto perde di grandezza e di forza, invidiato, insidiato; e da ultimo giacere per propria colpa e per quella forza delle cose che diciamo fortuna, traditore e tradito, oh! allora io intenderei questa sua trilogia, come [p. 19 modifica]la intendo nell’Edipo, nel Prometeo e nell’Orestiade. Che se almeno avesse voluto abbracciare in tutta la sua pienezza l’ultimo stadio della vita procellosa di quest’uomo straordinario, cominciando dal punto in che ad un tempo i primi sospetti entrano nella corte, e i primi pensieri di ambizione germogliano nel suo animo, io intenderei tanta larghezza di forme, come la intendo nel Macbeth, nel Re Lear, nel Riccardo III e nella Morte di Cesare. Ma no: qui Wallenstein è ritratto negli ultimi giorni del suo destino; i caratteri e gli affetti sono giá pervenuti nella ultima loro determinazione, e l’azione che dá principio al lavoro, è giá tale che una catastrofe prossima è inevitabile. Poche scene aggiunte o modificate basterebbero alla piena intelligenza del terzo dramma, il quale da sé solo ha il suo significato compiuto: perché dunque ha voluto Schiller dilargare in tre drammi una situazione si semplice? Egli medesimo nel suo bellissimo prologo ha dichiarata la sua intenzione. Egli ha voluto rendei familiari gli uditori con quei tempi, e metter loro dinanzi i caratteri dei personaggi prima ancora di farli entrare nell’azione principale. L’azione nel primo e secondo dramma non ha alcuna importanza di per sé stessa: ella serve a dar lume e rischiarare bene i personaggi che debbono appresso operare. Ma l’arte è sintesi: e, come il pittore ritrae l’anima nel volto, il poeta mostrar dee i caratteri nello stesso movimento dell’azione drammatica. Ben so che alcuni moderni han creduto di ritrarre i caratteri con maggior profonditá, separandoli dall’azione, e immaginando non so quale distinzione fra dramma di carattere e dramma di azione. Ben può il Filosofo analizzare l’azione ne’ suoi elementi come divide l’anima nelle sue facoltá, e il raziocinio e il giudizio nelle sue parti. Innanzi al Poeta, come innanzi al popolo, la vita non è altro che azione, espressione viva e parlante di tutto l’uomo. Sicché, quantunque niuno piú di me ammiri principalmente il primo dramma, cosí animato e pittoresco, pure io son di credere che in quelle forme sia alcun che di cercato e di artificioso che mostra meglio il lavoro della mente, che la spontaneitá dell’arte. E se lecito mi è di opporre Schiller a Schiller, io addurrò in esempio il Guglielmo Tell, la cui forma derivata [p. 20 modifica]dalla stessa natura del soggetto è perfettissima, e dove gli affetti e i caratteri traspariscono naturalmente e senza sforzo veruno da’ fatti: spesso un tratto solo dipinge l’animo assai meglio che non fanno i piú lunghi discorsi. «Vedete questi bastioni, si dice a Tell; sembrano edificati per l’eternitá.» — Ciò che la mano dell’uomo costruisce — risponde Guglielmo — la mano dell’uomo può abbattere. Dio ci ha dato la fortezza della libertá — ei soggiunge mostrando la montagna. — Vi è mestieri di altro a dipingere Tell? Melchthal dice: «Se alcuno non mi vuol seguire, se tremanti per le vostre capanne e per le vostre greggi voi v’inchinate sotto il giogo della tirannia, io chiamerò i pastori della montagna, lá sotto la libera volta del cielo, lá ove il pensiero non è ancora alterato, ove il cuore è ancor puro». E chi non discerne, nel modo diverso di dire la stessa cosa, l’ardenza impetuosa del giovane Melchthal dalla grave e severa natura di Guglielmo Tell? «Che cerchi in Uri?» domanda Walter Furst a Stauffacher. — «Gli antichi tempi e l’antica Svizzera.» — «Tu li porti con te.» Queste poche parole non sono esse un ritratto?

L’individualismo non concede a Schiller di comprendere la vita in tutto il suo significato: vi è l’uomo, ma appena è qualche vestigio di quell’azione misteriosa ed invisibile che chiamasi Fato. Vi è una specie di fatalismo ch’io direi umano; nascere in tal luogo ed in tal tempo, ricevere tale educazione, vivere accanto a tali uomini, ecco condizioni fatali che traggono seco l’avvenire di un uomo; un grande colpevole non è talora che un grande infelice. «Un’azione malvagia, dice Massimiano, ne trae seco un’altra, alla quale è legata da una stretta catena. Ma come noi che non siamo colpevoli, come siamo stati noi tratti in questo cerchio di calamitá e di delitti? Perché le colpe e gl’intrighi dei nostri padri ci avvincono come nodi di serpi?» — «Io ho sovente udito, dice Beatrice, parlar con orrore di quest’odio mortale de’ due fratelli, ed ora uno spaventevole destino gitta me infelice, me derelitta nel turbine di quest’odio, di questa fatalitá.» Nei Masnadieri per queste condizioni fatali [p. 21 modifica]Carlo Moor, nato per essere un Bruto, diviene un Catilina, secondo l’espressione da scuola del giovine Schiller. Questa sorta di fatalismo è stata da lui rappresentata con molta veritá, e costituisce ciò che ci ha di vero e di profondo nel concetto dei Masnadieri. Vi è un’altra maniera di fatalismo che chiamiamo il caso. Ecco un giovane. La sua vita non è stata che un sogno! Sognava gloria e grandezza, e quando ei giá si rivela a sé stesso; quando nell’ammirazione de’ suoi amici ei pregusta la gloria, ed osa credere al suo avvenire; quando, idolo de’ suoi compagni, ei può dir loro senza farli sorridere: — nella mia anima vi è qualche cosa, io mi sento nato immortale — , una mano mercenaria va a colpir lui tra mille, ed il suo nome sará dimenticato per sempre!1 Simile destino fu di Desaix, di Andrea Chénier: una palla coglie il guerriero, quando l’immagine della gloria gli sorride dinanzi, e la mannaia interrompe il canto malinconico all’infortunato poeta. Ma il caso non ha potere alcuno sull’ordine delle cose, e se può affrettare o indugiare, non può a lungo contendere con la natura di una situazione. «Che importa, esclama agli ateniesi Demostene, che Filippo sia morto? Voi ne fareste sorgere un altro.» Il popolo romano chiamato a libertá non sa esprimere a Bruto la sua gratitudine, se non col grido servile: — facciamolo Cesare. — Roma ed Atene erano giá serve: caso o uomo non vi potea piú niente. Il caso in Schiller è mostrato sotto quest’ultimo aspetto. La cagione apparente della morte di Wallenstein è il caso. «Oh perché gli ho io aperto questa fortezza!» dice dolorosamente il dabbene Gordon. Ecco la risposta di Buttler: «Non è il luogo, è il destino che cagiona la sua morte». Ma Buttler medesimo s’illude. Traditore e assassino, con quei sofismi onde il reo cerca sottrarsi al rimprovero della sua coscienza, ei si fa un istrumento del Fato per nobilitare a’ suoi occhi il suo fallo. Guglielmo Tell passa per caso dinanzi al cappello di Gessler: il caso ha affrettato, il caso potea ritardare ancora alcun poco il nobile riscatto; ma dopo di aver [p. 22 modifica]conosciuto quegli uomini noi sentiamo che non è dato al caso né a forza alcuna di togliere la libertá a chi n’è degno. Ecco il significato che Schiller ha dato al caso: ultima forma che serba il destino ancora nella tragedia francese. Nella Sposa di Messina e nella Vergine d’Orléans, Schiller ha tentato di rappresentare quella forza arcana che soprasta alle cose umane: glielo consentiva lo scetticismo de’ tempii Bene egli vi si adopera con alta possanza di fantasia: ma lo stesso abbagliante splendore de’ colori e delle immagini ben mostra che la veritá non vi è sotto. La fede è ingenua, la veritá è semplice: ella richiede il candore di un fanciullo, ella risplende di una luce sua propria, le basta annunziarsi, perché tutti le s’inginocchino innanzi. Gl’iddii di Virgilio sono dipinti con maggior finezza di gusto che gli dei di Omero: ma essi non sono più dei. In questi due drammi l’interesse è tutto nell’uomo. Non è il destino, è la straziante dipintura degli affetti con tanta altezza lirica rappresati, che ci commove e c’innalza ad un tempo nella Sposa di Messina. Non è il soprannaturale che ci rende si commovente Giovanna; e, per dire pure alcuna cosa dell’astrologia nel Wallenstein, cosí angusta di proporzioni, cosí povera d’impressioni, non è ella al certo, che dá un si profondo significato a quella trilogia. Pure in questi tentativi si può scorgere quasi un passaggio al dramma de’ nostri tempi.

L’Uomo non ci basta piú: lo scetticismo ci rode e ci umilia. I principii che fecero palpitare i nostri padri giacciono vano suono, e si prostituiscono e mercanteggiano: la scienza è separata dalla vita. Il pensiero, la parola e l’azione sono quasi una triade dell’anima, tre forme della sua unitá: e la sua unitá è distrutta, e la sua armonia è spenta: il pensiero non è piú la parola, la parola non è piú l’azione. Oh! noi abbiamo bisogno di fede che tolga l’ariditá al nostro cuore, il vacuo alla nostra ragione, l’ipocrisia ai nostri atti. E giá l’enigma comincia a rivelarsi: il Fato antico ritorna, ma egli non è piú cieco: la greca benda gli è caduta dagli occhi: ai misteri eleusini succede la Scienza Nuova, al Destino la Provvidenza. I contrari si toccano: [p. 23 modifica]so bene che alcuni da un estremo individualismo vorrebbero condurci ad un fatalismo estremo. L’individuo è tutto, l’individuo è niente. Pur troppo è questa la storia dell’umano pensiero: percorsa la prima metá di un cerchio, ei dee farsi da capo e percorrer l’altra metá prima di giungere al centro, dove maravigliato si accorge che quei due giri opposti sono parti del medesimo circolo. L’individuo è niente! Ma senza la umana libertá, non che il dramma, la poesia è distrutta: e giá questa scuola dottrinaria comincia a produrre i suoi mah frutti, e se dee lungamente regnare, ben temo che non giunga a prostrare affatto quel po’ di vigore ch’è ancora rimasto ne’ nostri mezzi caratteri e nelle nostre mezze passioni. Il Fato è onnipossente sul corso generale delle cose umane; ma egli ha lasciato in rriano dell’individuo il suo destino. — La vita è il bivio innanzi ad Ercole: uomo, tu sei libero, tu puoi scegliere: tu puoi argomentarti a tua posta, e incrudelire, e iscellerare, mutando abito senza mutar cuore, ipocrita quando tremi, violento quando calpesti; vogli o non vogli, l’Umanitá non ti bada, e segue serena il suo corso — . Ivi è il significato del dramma. Prima mistero, poi uomo, ora è idea. Né intendo che, come per ritrarre meglio il cuore umano si è caduto da alcuni in un rettorico sentimentalismo, si cada ora in un rettorico filosofismo. L’idea non è pensiero, né la poesia è ragione cantata, come piacque definirla ad un poeta moderno: l’idea è ad un tempo necessitá e libertá, ragione e passione: e la sua forma perfetta nel dramma è l’azione. Date moto a diversi istrumenti, e da quei vari e contrari suoni nasce un suono unico, divina armonia. Tale è la vita: interessi, passioni, credenze, caratteri, accidenti, credulitá di plebe, fanatismo di classi, entusiasmo di giovani, e illusioni generose e disinganni amari, e stolte speranze e disperazioni piú stolte, e creduti trionfi e credute sconfitte: ed al di sopra di questa scena mobile l’immagine calma e serena dell’umano destino. Tale è la vita; e dal contrasto di questi cozzanti elementi, giunta la pienezza de’ tempi, nasce l’armonia e l’accordo. Ma la mia temeritá comincia a divenir pedantesca: io pretendo mostrar la via [p. 24 modifica]all’ispirazione. Adorerò nel mio cuore l’immagine santa che vi sta scolpita, e rinchiuso in me stesso vi troverò quel conforto che non può darmi il mondo.

Castel dell’Ovo, giugno i850 [ma Cosenza, marzo-giugno i850. Prefazione alle Opere Drammatiche di F. Schiller, tradotte da Andrea Maffei, Napoli, Fibreno, i850, e con la stessa data, Firenze, Le Monnier.]

  1. Alludevo a Luigi Lavista, ucciso dagli Svizzeri il 15 maggio.