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«epistolario» di giacomo leopardi 3

s’incontra sempre col medesimo uomo, sé stesso, «suo spietatissimo carnefice».

Eccolo in Roma: eccogli innanzi altre cose, altri uomini. Leggete ora la prima lettera ch’egli scrive di Roma: «Delle gran cose ch’io vedo non provo il menomo piacere, perché conosco che sono maravigliose, ma non lo sento; e t’accerto che la moltitudine e la grandezza loro mi è venuta a noia dopo il primo giorno». — «Infin dal primo giorno, — dice altrove, — io sono in braccio di tale e tanta malinconia, che di nuovo non ho altro piacere se non il sonno;... non sento piú me stesso, e son fatto in tutto e per tutto una statua.» — «Domandami, — ei dice al fratello, — se in due settimane da che sono in Roma, io ho mai goduto pure un momento di piacere fuggitivo, di piacere rubato, preveduto o improvviso, interiore o esteriore, turbolento o pacifico, o vestito sotto qualunque forma. Io ti risponderò in buona coscienza e ti giurerò che, da quando io misi piede in questa cittá, mai una goccia di piacere non è caduta sull’animo mio.» Ma che giova seguire? Basterá solo ch’io dica, come dopo lunga peregrinazione l’infelicissimo desidera, ma era giá troppo tardi, quella terra natale, giá tanto odiata ed ora odiosa non piú che il resto del mondo. Vanamente dunque noi cercheremo in queste lettere descrizioni delle maraviglie della natura e de’ costumi degli uomini, che tanto ci allettano nelle scritture di quelli, la cui vita è tutta fuori di loro. Al Leopardi non è dato che rado affisarsi in alcuno spettacolo della natura; né il fa senza un subito ed angoscioso ritorno sopra sé stesso. Ché se fosse stato a lui conceduto di allontanare gli occhi dalla molesta ombra del suo pensiero, e riposarli in alcuna immagine esteriore, giá avrebbe egli conseguito quel sospirato oblio di sé stesso, che Manfredi, di cui il Byron sotto la piú fantastica forma scrisse una istoria si vera, indarno dimandò a tutte le forze occulte dell’universo.

Tale è il nodo principale di questa, direi quasi tragedia dell’uomo; gli episodii non sono men dolorosi, quasi malinconico suono che accompagni una mesta poesia. Fin dalle prime lettere noi sentiamo la stessa inquietudine del Giordani per la sua sa-