Roma e lo Stato del Papa/Prefazione

Prefazione

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Capitolo I
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N
on deve parere strano, se una delle maggiori difficoltà, che io abbia trovato, dopo avere scritto questo libro, sia stata la scelta del titolo; nè potrei asserire di esserne pienamente soddisfatto. Lo Stato del Papa, dopo i casi del 1859 e 1860, fu ridotto alla presente provincia romana; tanto che la «dominante», priva del suo miglior territorio, fu paragonata dal cardinale Antonelli ad una testa senza corpo. Amici chiari ed illustri mi consigliavano intitolarlo: La fine di un altro Regno, o Un’altra fine di Regno, in ricordo della mia precedente opera sugli ultimi anni del Regno di Napoli; però mi repugnava di essere creduto il necroforo delle vecchie Signorie italiane; nè, d’altronde, si chiamava Regno lo Stato del Papa.

Ho tuttavia voluto seguire il metodo adoperato in quel libro, al quale metodo si deve forse attribuire la fortuna sua, ma confesso che, per la recente vita di Roma, la difficoltà delle ricerche, sia pure per un periodo di venti anni, era più grave. Lo Stato non aveva nulla di omogeneo, e sostanzialmente diversa era la condizione storica delle provincie, di qua e di là dell’Appennino, nè la Santa Sede aveva l’abitudine di pubblicare i suoi documenti diplomatici. Gli ecclesiastici, inoltre, sono, com’è noto, più cauti dei laici nel fare rivelazioni e confessioni.

Per esporre il periodo interessante e drammatico dello Stato del Papa, che comincia col ritorno di Pio IX, e si chiude con [p. vi modifica]la fine del potere temporale, occorreva rendersi conto, innanzi tutto, delle pubblicazioni fatte, che sono una selva; e poi frugare negli archivi privati, e singolarmente negli epistolarii, interrogare i superstiti, ma ben vagliarne le affermazioni e i ricordi. Più volte m’assalsero tali sgomenti, che fui tentato di non farne più nulla. Solo la grande passione dell’indagine potè sorreggermi in un lavoro, che, spesso indiscreto, non doveva parerlo, e che sovente riusciva penoso, perchè veniva a distruggere una leggenda, ad urtare un pregiudizio, od a sfrondare un romanzo. Mi dava coraggio il desiderio di perpetuare la memoria, e, se non fosse presunzione, di fare la fotografia morale di ciò che fu lo Stato del Papa, in quegli anni, ma soprattutto di ciò che fu Roma, senz’avere la pretesa di scoprir la città, e assai meno di adularla: questa città, che visitai la prima volta quarant’anni or sono, abito dal 1871, ed amo senza tenerumi convenzionali.


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Roma ha subito, dal XX settembre sino ad oggi, tali mutazioni, da rendere ardua la ricostituzione del suo passato, il quale rispondeva ad un complesso di circostanze storiche, ed era il risultato della sua geografia: città non veramente nel mezzo d’Italia; capitale politica di un piccolo Stato italiano, e religiosa [p. vii modifica]del mondo cattolico; cinta dal deserto e dalla maremma; quasi presso il mare, ma non marittima; soggetta allo sfibrante scirocco; chiusa nelle sue mura, che per due terzi circondavano ville, vigne, orti, canneti malarici e resti di rovine. Eppure la trasformazione edilizia, ch’è stata tanto grande, che la vecchia città quasi più non si ritrova, è nulla rispetto alla rivoluzione morale, che vi sì è compiuta. La piramide si è capovolta. Il laicato, che doveva essere tollerato per la clemenza degli ecclesiastici, si è sovrapposto ad essi: laicato, buono e cattivo, non romano o romanesco, ma nazionale. E con questa nuova forza s’imposero nuovi sistemi e nuove finalità, condannate o sconosciute; e nacquero bisogni, da sembrare persino impossibile che non si fossero sentiti sino al giorno, in cui Roma divenne capitale d’Italia. La vecchia generazione, che può fare ancora dei confronti, va scomparendo; e quando sarà sparita, nessuno saprà più che cosa fosse un tempo questo paese nella sua intimità, nelle sue classi sociali, nella sua economia pubblica e privata, nel suo governo, nelle sue gerarchie, nei suoi rapporti col mondo, nelle cospirazioni politiche, e negl’intrighi; nella confusione, infine, delle due potestà, larga fonte di quei mali religiosi e politici, che avevano sì un’impronta caratteristica, ma che non erano maggiori di quelli delle altre Signorie italiane.

[p. viii modifica]È anche opportuno osservare che su Roma cadono, da secoli, i giudizi più disparati, quali non sono caduti mai su altra città del mondo. Viaggiatori e diplomatici, letterati ed archeologi, novellatori e pubblicisti, donne sentimentali ed erudite, d’ogni parte del mondo, hanno creato, ognuno per sè, una Roma convenzionale od unilaterale, con un corredo di esagerazioni, di pregiudizi e anche di critiche, qualche volta giuste, in omaggio alla cultura e alla tradizione.


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Occorreva risuscitare, nella sua realtà, questo mondo scomparso da quasi mezzo secolo, per cogliere le vere cause di avvenimenti, i quali, osservati con apriorismi settarii o dottrinali, non sono stati giudicati secondo verità; anzi, spesso, a rovescio. La più rigorosa indagine doveva mirare all’uomo, perchè l’eterna materia della storia è lui: l’uomo, laico o sacerdote, nel suo tempo; con le sue passioni, nobili o volgari; co’ suoi ideali di grandezza morale, o con le miserie del piccolo egoismo. Il fenomeno storico, se non diventa realtà nelle sue varie manifestazioni, anche in quelle, che sembrano più trascurabili, è difficile che balzi fuori in tutta la sua sincerità; e ancor più difficile, quando si tratti di storia contemporanea, e di vicende straordinarie, per le quali si formò l’unità politica di un Paese, che [p. ix modifica]non fu mai unito, ed ebbe termine un potere millenario, che pareva non dovesse finir mai.

Questo libro è in gran parte vita vissuta, così per le memorie mie, come per le altrui. I miei collaboratori sono stati tanti, che non sarebbe possibile indicarli tutti; non pochi sono spariti dal mondo, ed altri son vecchi; ed a costoro il passato torna come un grande ideale, sognato nella giovinezza e raggiunto, o deluso innanzi ad una realtà non preveduta. Le pubblicazioni del tempo, se difettano spesso di precisione e di obbiettività, hanno però la virtù di rivelare le passioni e le esagerazioni del momento. Di questi scritti ho dovuto tener conto, come punto di partenza, per proseguire l’indagine, sempre diretta al fine di riprodurre quel mondo pontificio, sul quale si veniva ingrossando la procella politica, e i cui segni precursori appariscono sin quasi dal giorno che Pio IX ritorna nella sua capitale. Gli avvenimenti, che si compirono nei venti anni, sembrano la conseguenza naturale di quelle leggi storiche, alle quali il papato politico s’illudeva di potersi sottrarre.


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Se alla caduta dello Stato del Papa manca la nota tragica, che ebbe quella del Regno di Napoli, non vi manca la nota drammatica; e l’importanza storica dell’avvenimento è maggiore; è, [p. x modifica]anzi, mondiale, per la doppia qualità del Sovrano, che, venendo a un po’ per volta spodestato dei suoi dominii temporali, rimaneva nella sua capitale religiosa, con la sua corte e i dicasteri, e che nessuno desiderava espulso, anzi tutti eran d’accordo nel volerlo in Roma stessa, garantito e onorato da armi e leggi italiane, a capo della cattolicità. Lo Stato finiva sotto il pontificato dell’uomo più sentimentale e più impulsivo, che abbia avuto la Chiesa, e dopo che questo Papa aveva adoperato, per sorreggerlo, tutte le armi, spirituali e temporali, niuna esclusa; nè mancò di coraggio la sua resistenza fino all’ultimo. Il potere temporale morì, perchè da un pezzo la necessità sua era esulata dalla coscienza dei cattolici, persuasi che, sciolte dal potere politico, la indipendenza del Pontefice e la libertà della Chiesa sarebbero meglio garantite.

Vengono alla luce molti fatti e documenti nuovi, che non si riferiscono solo allo Stato del Papa, ma alla politica italiana. Sono rivelazioni, che, dopo tanti anni, possono farsi senza indiscrezione; che lumeggiano alcuni punti essenziali della nostra storia civile, e correggono non pochi errori. Ho forse lasciata larga parte all’aneddoto, ch’è tentatore. Ma pur ritenendo che esso illustri e ravvivi i fatti, e umanizzi meglio le persone, e molte volte sia anch’esso un documento, riconosco che non bisogna abusarne, per non far degenerare la storia in [p. xi modifica]cronache e frivolezze. E però ho cercato di contener l’aneddoto in giusti limiti, resistendo a tentazioni, spesso molto forti.

Si dirà forse che io non ho voluto trascurare alcune piccole cose. Lo riconosco, e non mi pento. L’epoca della storia convenzionale è passata: della vecchia storia ridotta alle guerre, alle ambasciate, agl’intrighi della diplomazia e alla vita delle corti, e narrata in periodi pomposi e rettorici. Oggi la storia è chiamata a riprodurre tutte le manifestazioni umane, tutta la vita sociale nella forma più semplice. Anche il documento dev’essere trasfuso nella narrazione, anzi transustanziato, come si direbbe in linguaggio ecclesiastico, e non mai abbandonato a sè stesso, e materialmente riprodotto sol per mostrare di averlo rinvenuto.


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Se il solo annunzio di questo libro ha bastato a risuscitare una letteratura aneddotica1, ben vedo che la pubblicazione di esso solleverà una rifioritura di memorie e di ricordi intimi, e sarà un bene, perchè io non pretendo di aver detto tutto. A me basta, come già fu per la Fine di un Regno, aver [p. xii modifica]tracciato il solco profondo in un vasto campo, il quale, coltivato più intensamente, può dare frutti maggiori per la più intima conoscenza dei tempi.

Non voglio chiudere questa avvertenza, senza inviare una parola riconoscente a quanti, vivi o scomparsi, mi hanno reso più agevole questo lavoro, aiutandomi nelle ricerche, cedendo alle mie insistenze, e accettando in pace le mie persecuzioni. Ricordo, a preferenza di tutti, due uomini, i nomi dei quali sono congiunti strettamente alla storia d’Italia, al periodo più glorioso di essa, il marchese Emilio Visconti Venosta e il conte Costantino Nigra.

Roma, Natale del 1906.

R. de Cesare.



Note

  1. L’ha iniziata l’amico Federico Fabbri (vedi Messaggero del 15 dicembre 1906), con una lettera che si riferisce alla parte, che egli ebbe, giovanissimo, nei casi di quei giorni, nei quali Ravenna scosse il dominio pontificio.