Rime (Andreini)/Egloga VII

Egloga VII

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NISA EGLOGA VII.


Argomento.


Fileno Pastore prega Nisa Ninfa ad esserli cortese; e quando vede, ch’egli per se stesso non è bastante à rimoverla dalla sua ostinazione, rivolto ad Amore lo prega d’aiuto; ma vedendo con lui ancora gettar il tempo, si risolve di tornar alla tralasciata cura del Gregge con pensiero di donarsi ad altra Ninfa.


Fileno Pastore.



P
Iangèa Filen sua miserabil sorte

Pregando Nisa invano
     A mostrarsegli pia,
     E ’n tali accenti la sua doglia aprìa.
Tu pur disprezzi ò Nisa
     Il tuo Filen, che più, che ’l gregge t’ama.
     Ohime tu pur mi fuggi, e Leon fero
     Già non son’io, che di terribil guardo
     Morte minacci. Angue non son, che cerchi
     Morder il tuo bel piede.
     Amante io son, che per amarti vegno
     Dietro a l’orme, che lasci
     A questi occhi dolenti
     Stanchi, e sazi del pianto,
     Ma de la cara vista
     Di tua beltà non mai stanchi, ne sazi.

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Io poiche l’Alba in oriente appare,
     E poiche ’l Mondo si ricopre d’ombra
     Non ho co’ miei martir pace, nè tregua.
     Giamai quest’alma non alleggia il peso
     De’ suoi noiosi incarchi;
     Nè per querele il core
     Sente farsi men grave il suo dolore.
     A le fredd’ombre de la notte oscura
     Ardo non men, che al chiaro, e caldo giorno.
     De le stelle il silenzio amico, e fido
     Porge ben (lasso) à gli animanti tutti
     E quiete, e riposo;
     Me richiama à i sospir, richiama al pianto.
     Tacciono gli altri, ed io
     Dico à i sassi gridando il dolor mio;
     E quanti affanni hò sostenuti il giorno
     Ne l’horror si raddoppian de la notte.
     Ahi ben è ver, che non m’è giorno il giorno;
     Poich’io non veggio cosa, che m’apporti
     Nè piacer, nè contento, nè speranza;
     Non m’è notte la notte, poscia ch’io
     Riposo unquà non trovo,
     Cosa non veggio mai, che mi prometta
     Men noiosa fortuna;
     Anzi mi par, che quanto
     Veggio, minacci à l’alma angosce, e pianto.
Ma tu, che ’l foco, e le saette porti
     Molle fanciullo in un lascivo, e forte,
     Tù, che ’nfiammi, e ferisci
     Dove soffia Aquilone, e Noto spira,
     E quanto vede il Sole,
     E nascendo, e morendo

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     Ninfa comporterai, ch’à te s’opponga?
Sentono pure i giovani robusti
     Per ogni vena il tuo vivace foco;
     Provano le fanciulle, e i vecchi imbelli
     La tua mirabil forza:
     Sol l’anima gelata di costei
     Le tue facelle spegne, e ’l duro core
     Rintuzza ad un, ad un gli strali tuoi.
Sopra le sfere ascendi
     Amor qualhor ti piace;
     E la tua pura face
     Fà, che lascian gli Dei del Ciel l’albergo
     Vaghi di mortal cosa.
     Ecco fatto pastore
     Guida Febo gli armenti
     De la Thessaglia; e giù ponendo il plettro
     Con le canne incerate, e diseguali
     Chiama suonando i più superbi Tori;
     E quel, che gli altri Dei
     Regge solo col cenno,
     E da legge à le nubi, à i venti, al Mare
     In quai forme neglette
     Non si chiuse, e nascose?
     Hora l’ali vestì di bianco cigno,
     Hora Toro nuotò per l’onde infide
     Del gran Nettuno, accorto amante usando
     Di remi in vece l’unghia bipartita;
     E sopra ’l dorso il desiato peso
     Condusse lieto à le bramate arene.
     Arse la Dèa, che ’n Cielo
     Notturno Sol fiammeggia;
     E con soavi baci

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     Destò più volte il suo pastor gentile;
     Per cui cangiò le stelle
     Ne l’aspra cima d’un sassoso monte.
     Lo Dio del fosco, e tenebroso mondo
     (Lasciate l’alme dei profondi Abissi
     A le continue pene, al pianto eterno)
     Co’ negri suoi destrieri à l’aria uscendo
     Di Cerere rapì l’amata figlia,
     Mentr’ella baldanzosa
     Per le piagge intesssèa fragole, e fiori,
     E del gran Regno suo Donna la fèo.
     D’Alcmena il figlio altero
     Del tuo gran foco acceso
     Lasciò in disparte l’arco
     Le saette, e la clava,
     E del Leon la spoglia,
     Ed al ruvido crin lasciò dar legge
     Sparso d’amomo, e ’n rete d’oro accolto;
     E con la man di mille palme adorna,
     E vincitrice di tant’alte imprese
     Da la conocchia trasse
     Lo stame; e con le forti
     Dita torcendo il fuso
     Spezzollo; indi à sua Donna il peso eguale
     Di quel, che dianzi havèa tolto per opra
     Quasi femina vil tremando rese;
     Gli homeri suoi possenti
     Già colonne del Cielo
     Per la sua bella Donna
     Coperti fur di lascivetta gonna;
     E ’ntanto Amor col pargoletto piede
     Con gli aspri, e duri velli

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     Del cuoio del Leone
     Scherzavi; e ’l forte Heroe
     Sorridendo miravi.
     E qual crediam, che fosse
     Il tuo diletto alhora,
     Che Iole per ischerno
     Di lui, trattò più volte
     Con la tenera mano
     L’armi, ond’ei vinse i più feroci mostri?
     Dentro gli humidi chiostri
     De le chiare, e fredd’onde
     Provano le Nereidi,
     E le Naiadi ancor tua fiamma ardente.
     I vaghi augelli trà le verdi fronde
     Con voci alte, e canore
     Spiegan note d’amore.
     Tinge di sangue il corno
     Per la Giovenca amata
     Il Toro non avezzo
     Al curvo giogo ancora.
     Per tema il core à l’Etiope adusto
     Trema, qualhora le macchiate Tigri
     D’amor piagato il petto
     Scorron de la negr’India i larghi campi.
     Nè men paventa l’Africa il superbo
     Leon, quando scotendo altier la chioma
     Vien con occhi di foco
     Ad incontrar ruggendo
     L’odioso rivale.
     Il terribil Cinghiale aguzza il dente
     Si che fulmine par dov’egli arriva
     Perche ’l nemico del suo ben non goda.

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     Dure, e sanguigne zuffe
     Gli orsi nei monti fanno
     Per te d’ogn’altro più potente Nume.
     E non pur gli animali
     Da la natura di più valid’armi
     E muniti, e coperti
     Mostrano Amor per te la forza loro:
     Ma i più timidi, e vili
     Divengon per te solo
     Valorosi, & arditi.
     Dunque se tanto puoi
     Potentissimo Amore,
     Perche non piaghi ancor quel duro core?
     Là vè bolle il terreno
     Sotto l’ardente Granchio,
     E sin là dove l’Orsa
     Horrida agghiaccia d’ogni intorno i campi
     Ogn’alma sente amor, solo costei
     Per eterno mio male
     Forza non prova d’amoroso strale.
     A che prego? à che piango? à che sospiro?
     Amor di Nisa altera
     Sordo, e crudo è non meno.
     Se ’nvan lagrime al pianto,
     E querele à i lamenti invano aggiungo
     Non sia più, che quest’occhi
     Piangano la mia sorte,
     Nè sia, che più dolente altri mi vegga
     Nè sia, che più d’amor ragioni, ò scriva.
     Sanerà del mio cor ragion le piaghe,
     E se non la ragione il tempo almeno.
     Vò sprezzar disprezzato,

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     E voglio odiar odiato.
     Piangerò per chi ride
     Lasso del pianto mio?
     Morirò per chi vive
     De l’acerba mia morte?
     Nò nò sciocco sarei.
     Poiche Nisa crudel mai non cangiasti
     Pensiero, io cangio vita.
     Di me stesso pietade, e del mio Gregge
     Amor di me, di lui
     Sol m’infiammino il petto.
     Nisa io ti lascio, à dio,
     A dio d’un lungo, e d’un’eterno à dio.