Rime (Andreini)/Egloga VI

Egloga VI

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CLORI EGLOGA VI.


Argomento.


Essendo Mopso Pastore innamorato d’una Ninfa chiamata Clori, laquale similmente amò lui d’ardentissimo amore un tempo, si duole, perch’ella senza suo difetto l’habbia lasciato; e toccando egli le proprie lodi le dice esser amico delle Muse, il che può renderla per fama immortale, solo per farle conoscere quanto sia meglio amar la bellezza congiunta con la virtù, che sola. Ed ultimamente dopo haverla assai pregata, la minaccia se non torna à’ tralasciati amori; e dice voler manifestarla per Donna priva di giudizio, e di fede.


Mopso Pastore.


M
Opso de’ Monti, e de le selve honore,

E di sdegno, e d’amor l’alma infiammato
     Vinto dal gran dolor chiamando Clori
     Incostante, e ’nfedel così dicèa.
O mobil più, che lieve fronda al vento
     Clori, ch’ardendo un tempo
     Fosti amante, hor gelando
     Mi se’ fiera nemica,
     Per te sola in un punto
     Mi si discopre Amore e brutto, e bello.
     Mentre, ch’io lo vagheggio
     Ne’ tuoi begli occhi, in cui
     Egli se stesso abbella
     Non sò veder di lui cosa più bella;
     Ma mentre nel mio seno

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     Da mille piaghe aperto
     Lo veggio, i’ non saprei
     Imaginarmi un mostro
     Di lui più brutto, e più deforme in terra.
     Ohime qual fera stella
     Mi costringe ad amarti
     Ingrata Clori, quando
     Pur odiar ti devrei?
     Ah, che s’io fossi accorto
     O sprezzar disprezzato deverei,
     Overo usar la forza.
     Ma che parl’io di forza, ò di disprezzo?
     Ah, che sprezzar non puote
     Colui, che troppo ammira
     Ohime, ch’odiar non puote
     Colui, ch’è tutto amore;
     E non può chi molt’ama
     Usar atto villano;
     E poco ardisce amante
     Quando molto nel cor foco nutrisce.
     Dunque sperar non deggio
     Altro poter, altro voler amando,
     Che voler, che poter mai sempre amare.
O care amiche piante
     Misero à voi piangendo
     Dico le mie sventure;
     A voi, che mi porgeste
     Soàue, e fresca l’ombra,
     Quando dal collo amato
     Pendèa de la mia Clori
     Con egual gioia alhor de’ nostri cori.
Oh voglia il Ciel s’alcuno

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     Hor degni del tu’ amor Ninfa incostante,
     Ch’egli in se stesso in breve
     Provi le mie sventure, e le mie pene,
     Ed habbia nel suo mal pietà del mio;
     Meco pur sospirando si quereli,
     E meco i boschi, e l’ora
     De l’incostanza tua risuonar faccia;
     Si ch’altri mai non sia folle cotanto,
     Ch’al tuo leggiero amor l’animo inchini.
     Ma tù, che splendi ne la terza sfera
     Vaga amorosa Dèa,
     Se ’l tuo bel Nume altero,
     Che sù nel quinto Ciel la spada stringe
     Ogn’hor sia teco, à me benigna arridi.
     Per le vittime offerte,
     Che ancor fumanti stanno
     Sopra gli altari tuoi, per quegli incensi,
     Che spiran’ anco odor, per quelle, ch’io
     Verso lagrime amare
     Habbi di me pietade;
     Di me, che le saette del tuo figlio
     Troppo pungenti, e troppo ardenti provo.
O più d’ogn’altra Dèa bella, e gentile
     Se vedi, che ’l mio mal non è mia colpa,
     Perche non mi consoli?
     Sì grave è ’l dolor mio,
     Che ben dura è quell’alma,
     Che m’ode lamentar con ciglio asciutto.
     Sol la mia fera Clori,
     C’hà di diamante il petto;
     E di diaspro il core,
     O pur com’io mi creda

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     E senza core, al mio martìr non crede,
     Nè presta (iniqua) fede à la mia fede;
     Ma conceder non puote
     Quel, ch’ella non possiede.
     O Ninfa ingannatrice, e lusinghiera
     Vuol dunque Amor, che ’l tuo difetto sia
     Lasso, la doglia mia?
     Deh dolcissima Clori, deh mia vita
     Ne l’amorosa mia fiera tempesta
     Sia l’una, e l’altra luce
     Del tuo bel volto e Castore, e Polluce,
     E ’l tuo candido sen porto tranquillo.
Sai pur (ne punge ambizione il core)
     Quant’io sia grato à le canore Dive,
     Che del gorgoneo Fonte guardan l’acque,
     Anzi tù pur sai quanto caro i’ sia
     A lui, che Dafne invan fera seguìo;
     Ch’anzi in Thessaglia volle
     Far di sue belle membra il primo alloro,
     Che darle in dono à sì possente Dio;
     Ma perche ’l canto mio
     Clori à te narro? à te, che mille, e mille
     Volte il lodasti? e mentre, ch’io scioglièa
     Le parole, e la voce
     De la mia cetra al suono,
     Tù da la gioia vinta,
     E le parole, e ’l canto
     M’interrompevi con soavi baci.
     Ma tù come di Mopso
     La memoria perdesti,
     Così d’ogni piacer, ch’Amor concedè
     Non ti rammenti; ed io

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     Ogni piacer andato hò sempre in mente;
     Che le passate gioie
     Non si scorda giamai fedel Amante.
Ecco l’altr’hier m’assisi
     Sopra la molle herbetta,
     Che di fiori ingemmata
     Rende più vago il fonte,
     Che da la sua chiarezza il nome prende;
     E quivi tutti quasi innanzi à gli occhi
     Mi ridussi i piaceri,
     Ch’io v’hebbi teco, e quivi
     Altrottanto infelice
     Quanto felice fui.
     In mestissimo suon versi cantai.
     Mesto, ma però grato
     A le selvagge Dee,
     A i boscarecci Fauni,
     A gli hirsuti Silvani,
     A i Satiri lascivi, e ’n somma à quanti
     Habitan boschi, monti, grotte, e valli;
     Che tutti à i lagrimosi
     Miei carmi ratti accorsero pietosi.
     Ma tù benche i’ sia tale,
     Che cantando, e scrivendo alzar io possa
     Di Clori il nome à le dorate stelle
     Non mi stimi; anzi cruda hor godi, poi
     Che non m’inspiran più versi leggiadri
     Le antiche Muse; ch’albergar non ponno
     Trà tanti affanni; e già la stanca lira
     Negletta pende, e le scordate corde
     A l’ingiurie avanzate di Fortuna,
     Mentre piangendo le miserie mie

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     Con lor sospiro, de’ sospiri à l’aura
     Rendono un suono doloroso, e basso
     Quasi mostrin pietà del mio tormento,
     E quasi voglian dir; deh quando fia
     Quel giorno ò caro Mopso,
     Che tù n’accordi, e faccia
     Con le tue dita, e con l’usato plettro
     Di noi quell’armonìa sì grata à i boschi?
     Ma questo solo ò mia vezzosa Clori
     Fia quando tornerai
     A’ primi nostri amori.
Torna, deh torna homai leggiadra Ninfa
     Al tuo Mopso fedele,
     Che più ti brama assai,
     Che l’herba già vicina à restar secca
     La pioggia. vieni homai
     Acciò con versi d’allegrezza pieni
     Di novo à i Monti insegni, ed à le Valli
     A risuonar le tue bellezze, e ’l nome.
Vieni se non ti giuro
     Sdegnato al fin di ripigliar la cetra;
     E ’n vece di cantar versi amorosi,
     E nota far dal nostro al Polo opposto
     La tua rara bellezza
     Nota far la fierezza,
     E la macchiata fede.
     Ti chiamerò crudele,
     E roza sì, ch’ogni virtù disprezzi,
     Nè gradisci in altrui fede, od amore.
     Come in te no’l ricevi;
     O se pur ardi, ed ami
     Geli à un punto, e disami;

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     E ’n somma Ninfa ingrata
     Per colpa sol del tuo ’ncostante ingegno
     Quanto direi d’amor dirò di sdegno.