Rime (Andreini)/Egloga V
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NIGELLA EGLOGA V.
Argomento.
Coridone Pastore.
Coridone pensoso,
Ed à l’erranti fere, à i cavi sassi
Dicea privo di speme
In un languido suon queste parole.
A le cui meste voci
S’udian sovente risuonar le selve.
Amata quanto bella,
Ma fugace Nigella
Non selva, Monte, ò Valle
Hebbe Leon giamai, Cinghiale, od orso
Sì spietato, sì rigido, ò sì fiero
Come rigida, fiera, e dispietata
Se’ tù Nigella ingrata;
Che da gli huomini fuggi
Per seguitar le belve.
Ma se con tanta tua fatica, e rischio
Le fere vai seguendo
Per farne preda, lascia,
Lascia homai di seguirle,
Ch’io già tua preda sono.
Ma come preda son se mi rifiuti?
Scemar potess’io almeno
I miei penosi affanni;
O volesse fortuna,
Che tu Ninfa crudele
Gli conoscessi in parte.
Ma nè scemar i miei martiri io spero,
Nè sperar posso ancora,
Che tù mai gli conosca
Non c’haverne pietade;
Che chi non prova amore,
In altrui men non lo conosce, ò crede.
Dunque ben fù mia stella
Misero amante, ch’à l’incendio solo
Nascessi, al pianto, al duolo;
E che sol degno io fossi
D’amare, e di penar non di gioire.
Ma se Nigella mia
Non vuol pietosa del mio duol dolersi
Per minor male almeno
Se n’allegrasse cruda.
Ma per non esser pìa nega pietate;
E per esser più cruda:
Nega ancor crudeltate.
Per te la Greggia mia cruda Nigella
E più di me felice.
Quella di verde herbetta
Lietamente si pasce,
Io di tormento carco
Di secca speme il mio dolor nudrisco.
Per te quasi due Fere
Van guerreggiando insieme
Crudeltate, ed Amore.
Crudeltà per te pugna,
Amor per me combatte,
Dove Fortuna voglia
Destinar la vittoria
Dir non saprei; sò ben che la Fortuna
E compagna d’Amore:
Ma che dich’io compagna?
Ahi, ch’ella è per me sol d’Amor nemica;
O s’ella è pur amica
Per gradir ad Amor m’afflige anch’essa.
Lasso ben pugna, e per me pugna Amore,
Ma pugna nel mio core.
Quì, quì tutte le fiamme,
Quì le saette tutte
Il dispietato hà poste;
Nè contento di questo:
Nel cor, nel sangue, e ne le fibre hà posto
Il suo velen viè più di quel possente,
Che da la spuma del tartareo Cane
Già nacque al mondo; e perche ogn’hor i colpi
Senta di morte, non m’uccide. ah s’egli
M’havesse una sol parte
Di questo corpo infetta,
Io con tagliente ferro
Farei di crudel colpo atto pietoso;
Ma perche vana sia
Ogni cura mortale
L’interne parti avvelenate io porto.
Pien di finta humiltade,
E d’inganni veraci
Le saette celando, e l’empie faci,
Supplichevole in atto
A me comparve da principio Amore,
E quasi lagrimando albergo chiese;
Hor chi di se medesmo esser potèa
Custode tanto vigilante, e scaltro,
Che non fosse da lui restato colto,
E volontario non havesse offerto
Ad un fanciullo supplicante albergo?
E qual saria Nocchier cotanto esperto
Ch’al più dolce soffiar d’aura benigna,
Al più tranquillo Mare ei non credesse
Da la riva sciogliendo
Il suo concavo Pino
Giunger securo al desiato porto?
Amabile, gentil, cortese, e bello
Pieno di dolci, e graziosi detti
Mi promise costui
Fortunato successo à’ miei desiri;
Ma non sì tosto ei fù ne l’alma accolto,
Che le dolci promesse
In effetti amarissimi, e crudeli
Misero si cangiaro.
Non così tosto questi sensi infermi
Riceveron di lui le ’ngiuste leggi,
Ch’egli mutò sembiante, e femmi accorto,
Che poco saggio è chi nel proprio albergo
Cortese accoglie un, ch’è di lui maggiore.
Pose in eterna guerra
Questi dolenti spirti,
Fece di questo petto
Un novello Vulcano,
E di quest’occhi duo fonti di pianto,
La bocca un’antro di sospir cocenti;
Da me l’empio scacciò la gioia, e ’l riso,
E gli allegri pensier n’andaro in bando,
Nè cosa vid’io più che mi piacesse
Fuor che di lei la desiata Imago.
Pensoso io venni, e solitario in tutto
Con gli occhi molli, e chini,
E con la fronte sparsa
D’un pallore mestissimo di morte.
Questo Tiranno ingiusto
Opra in me, che ’l suo foco
Non arda, e mi consumi
Acciò non habbia fin l’aspra mia sorte .
Mantien (nè sò dir come)
Nel mio pianto la face,
Ond’ardo, e non hò pace.
M’hà formate di cera due grand’ali,
Con le quali à sua voglia alto mi leva,
Perche distrutte poi
Da’ raggi del mio Sole
Repente io caggia nel profondo Abisso
De le mie gravi pene;
Se poi levarmi io tento,
Egli con fiera mano
A ricader di novo mi costringe,
Onde invan m’affatico, e sudo invano
Per ritrovar salute.
Per lui cangio sovente
Color, ma (lasso me) non cangio mai
De l’ostinato core
L’empia ostinata voglia.
Ei vuol, ch’à meza notte io brami il giorno,
E come appar nel Cielo
La rosseggiante Aurora,
Da le Cimerie grotte
Vuol, ch’io chiami la notte;
Poscia egualmente vuol, che notte, e giorno
Mi spiaccia, ed egualmente
Mi dia la notte, e ’l giorno angosce, e guai.
Ma tù potresti ben trarmi di pene
O mia Nigella amata
Col mostrarmiti grata.
Deh piega il cor altero
A gli honesti miei preghi.
Ahi dispietata Ninfa
Per te sospiro, ma sospiro invano.
Lasso me la mia doglia
Potria destar pietate
Nei sassi, ne le piante, e ne le Fere,
E destar non la puote in cor di Donna?
Meno amar, anzi odiar quel, che più langue
E, che più fido amando, e serve e tace
E peccato in amor grave, ed enorme.
Ma invan mi lagno, e doglio,
Poic’hà di sordo, e d’indurato scoglio
La mia Ninfa crudel le orecchie, e ’l core.
Coridon che fai più? che badi, ò pensi?
Muori, deh muori homai,
Ch’è don dato dal Cielo, e don felice
Il terminar à tempo la sua vita.
Vedi misero te, che ’n tanti mali
Addolorato vivi,
Che sarà la tua morte
O ’l tuo bene maggiore, ò ’l minor male.
Moriam, moriamo dunque,
Nè si tardi al morire.
In questa acerba età matura morte
Mi sottragga a gli affanni.
Tragga la morte mia
Da que’ begli occhi il pianto,
Poiche l’aspra mia vita
Trar non potèo da l’anima gelata
Di lei d’honesto amor pura favilla.
Tutto al dolor mi lascio;
E pria, che ’l Sol nel mare
Chiuda con chiave d’or la propria luce
De’ miei gravi martìri
Troncherò con la morte il fertil seme;
E se ’l dolor sarà debile, e tardo
A trar da questa fascia l’alma afflitta,
Sarà ben questa man veloce, e forte
A levarmi dai vivi;
Se però nel mio petto
Non saran per pietà crude le Fere.
Fatt’esca de le belve,
O preda del dolore,
O segno de’ miei strali
Terminerò la vita, e ’n un la doglia;
Che non hà chiuse porte
La via, che guida à morte.
Ma (lasso me) non sò s’ancor morendo
Havran fin le mie pene;
Anzi misero temo
Ombra infelice di portarle meco
Per accrescer nel Regno
De la perpetua notte
Foco, horror, pianto, gemito, furore,
Urli, gridi, sospir, veleno, e rabbia.