Rime (Andreini)/Egloga IV
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AMARANTA EGLOGA IIII.
Argomento.
Uranio Pastore.
Uranio volto al Ciel così dicèa
Fatta la fronte sua fonte di pianto.
E forza pur dolce Amaranta, ch’io
E ’l dolor, e l’affanno
Essali fuor con queste
Voci languide, e meste.
Forse quest’aure amiche
Del mio dolor messagge
Ti porteran sù l’ali i miei lamenti;
E se non se’ viè più, che ghiaccio fredda
Forse qualche scintilla
De la mia fiamma ardente
Temprerà il ghiaccio, onde fai scudo al core.
Se tù leggiadra mia bella Amaranta
Donar ti devi ad uno
Per sangue al Mondo chiaro
(Il ver dirò ne mi s’apponga à vanto )
Non fia già, che di me ti rendi schiva.
Ramo non vile io son del nobil ceppo
De l’antico Damone,
Damon noto à le selve
Per virtute non men, che per ricchezza;
E Licori pudica honor di quante
Ninfe sien quì trà noi seco fù giunta
Per legge maritale.
Se per virtute poi,
Più gloria già non se ne porta Aminta,
Benche maestro accorto
Si mostri nel pugnar col duro cesto,
Ed agile nel salto, e ne la lotta,
Veloce, e snello al corso
Più che macchiato Pardo
E sagittario esperto,
Agricoltor perito,
E dotto sia poi tanto
A l’aurea cetra sua sposando il canto.
Se per ricchezza, i miei fecondi Armenti
Occhio ben sano annoverar non puote,
E cento, e cento fortunati campi
Fendon gli aratri miei;
Nè Cerere, ò Lièo mi mancan mai;
Onde le mie capanne abondan sempre
Di quanto altrui può dare il Ciel benigno.
Se per bellezza poi, vidi me stesso
Nel liquido del Mare alhor, che’n pace
Taceano i venti, ed ei giacea senz’onda;
E vidi pur, che di gentil aspetto
(Bench’io mi strugga, e mi consumi in pianto)
Non m’avanzan però gli altri Pastori.
Ma di tal vanto altero
Se n’ vada pur de le Donzelle il Coro.
Vero amor, vera fede
Sien le mie glorie, e i pregi.
Questo ti vinca; e ’l vincitor sia poi
De la sua bella vinta amante, e servo.
Lascia Amaranta mia, deh lascia homai
I selvatici alberghi; e vieni à quello,
Che sol te sola chiama.
Lascia, lascia cor mio le selve, ed ama.
E se piaga mi fosti
Siami Dittamo ancora.
Fuggi l’horror de’ boschi, e vieni al fine
A colui, che t’adora; e tue sien tutte.
Le mie capanne, il gregge, i boschi, e i campi,
E ’n somma quanto à me concede il Cielo;
Che ben sanno i Pastor, che tante, e tante
Son le ricchezze mie;
Che se vago d’honore
Lasciar volessi un dì le selve, e i colli
Habitar ben potrei le gran Cittadi;
Facendo l’ampie loggie,
E le piazze, e le strade
Meravigliar anch’io,
E sotto nobil tetto
Starmi posando; e cento
Haver servi d’intorno; e ben saprei
Come sogliono i grandi à bel destriero
Premer il dorso, e di pregiate spoglie
Ornarmi tutto, e di soavi odori
Carco porger à gli Indi
Invidia, ed à i Sabèi.
A te farei vestir porpora, ed oro;
E le tue bionde chiome
Neglette ad arte havrien di fiori in vece
Per ornamento bella schiera eletta
Di ricchi fregi; ambe le orecchie poi
De le conche orneria parto felice;
E del bel collo à l’animata neve
Risplenderia per molte gemme acceso
Ricco monile; ond’altri staria in forse
Qual fosse in lui maggior ricchezza, od arte.
Fiammeggiante rubin la bella mano
Ingemmeria; così pomposa altrui
Sembraresti più bella, che beltade
Cresce talhor per ornamento industre.
Di bellissime ancelle humil corona
A riverirti ogn’hor pronta vedresti;
Nè brameresti invano
E le pompe, e i diletti
Onde ne le Città vanno superbe
Le Donne illustri. musici stromenti,
Voci canore, quando unite, e quando
Disgiunte, quel piacer, che i grandi alletta
Darianti; ed haveresti in somma quanto
Ponno dar le Città più ricche in terra.
Nè vergognar ti dei
(Quando al mio ragionar l’animo pieghi)
D’habitar la Cittade,
Perche Pastor noi siamo; e qual è al Mondo
Re sì possente, che l’origin prima
Da qualche servo, ò da Pastor non habbia?
E qual è servo, ò Pastorel sì vile
Che ’n qualche tempo anch’egli
Del suo legnaggio antico
Non possa raccontar corone, e scettri?
Tutti siamo Amaranta
Frondi d’una sol pianta,
E tutti al fin cadiamo
Nel general Autunno de la morte.
Mentre ricchi saremo
Stimati ancor sarem nobili, e degni.
O quanti sono, ò quanti
In pregio sol per l’oro, à cui più tosto
Si converria voltar i duri campi
Col torto aratro, che vestir la seta.
Ed huomini gentili esser chiamati.
Hor poi, che tanto di ricchezze abondo
Potrò ben frà più degni andar anch’io.
Oltre che se virtù (quant’alcun dice)
Fà l’huom nobile tanto,
Per tal dote potrò da’ più prudenti
Esser accolto ancora.
Vieni dunque ò mio Sole,
E con amor gradisci
Chi con amor la tua bellezza inchina.
Di duo si faccia un core, e poi sia retto
Da pari voglia. vieni,
Vieni bella Amaranta,
E fà meravigliar col tuo sembiante
La Città non avezza
A veder un bel volto
Per natural beltade.
Vieni, e d’invidia fà, che muoian quelle
A cui più che Natura è l’Arte amica;
Però che dipingendo
E le guancie, e la fronte,
E la bocca, e le ciglia, e ’l collo, e ’l petto
Occultano il difetto
Di Natura, e del Tempo;
E son bugiarde, e finte
Nel sembiante, ne i detti, e più nel core.
Gradisci le mie voglie,
Nè render vane le speranze mie,
Poiche ’n te sola spero.
Eleggi qual più vuoi d’animo pronto
Offerta vera; e per pietà sia questo
Giorno in cui tutti i miei pender ti scopro
O de la vita, ò de la doglia il fine.
Ma più giusto saria,
Ch’ei fosse lieto fin del mio martìre,
E soàve principio al mio gioire.