Rimatori siculo-toscani del Dugento/I - Rimatori pistoiesi/Nota
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NOTA
I
MEO ABBRACCIAVACCA
Meo di Abbracciavacca di Guidotto de’ Ranghiatici pare che appartenesse a una famiglia di cambiatori pistoiesi, perché tale fu suo padre, che fu console dei cambiatori nel 1237, e un suo figlio, Forese, fu nel 1304 nella banca degli Ammannati. Suo padre, e forse altri della sua famiglia, furono di parte ghibellina. Meo visse assai a lungo, perché era ancora vivo nel dicembre del 1300, quando, in un atto notarile di quell’anno un altro suo figlio, Iacopo, è detto: «Dominus Pucius (Iacobuccius) Bargomei (sic) Abraciavache de Pistorio» (vedi nei miei Rimatori pistoiesi, p. xliv e sgg., negli Studi e ricerche di antica storia letteraria pistoiese, nel Bull. stor. pist., xii, 38 sgg., e in Per la storia letteraria del sec. XIII nel Libro e la stampa, vi, 78-79).
È dunque un vero fossile della maniera guittoniana, perché forse poetava ancora dietro le orme del dittatore, quando giá in Pistoia si udivano le dolci note della poesia di Cino. È il piú arido e il piú oscuro dei rimatori del gruppo pistoiese. Egli si aggira sempre nel circolo delle idee della poesia cortigiana; riproduce, piú o meno fedelmente, concetti e forme provenzali, che abbiamo udite le mille volte in altri poeti del suo tempo o a lui di poco anteriori; adopera tutti gli artifizi della scuola, come le rimaLmezzo, le rime imperfette, spezzate, equivoche, i sonetti a dialogo, i sonetti con due sole rime ed altre consimili preziositá; e soprattutto è oscuro, pesantemente oscuro, tanto da rivaleggiare in questo col piú oscuro dei guittoniani. Panuccio del Bagno. Di questo rimatore specialmente e di fra Guittone d’Arezzo si mostra caldissimo ammiratore e imitatore: del primo infatti rimaneggiò una canzone: «Di sì alta valenza ha signoria», in quella sua: «Considerando l’altèra valenza»; col secondo tenzonò su vari argomenti, e a lui diresse tre epistole in prosa. Se mai qualche peculiaritá si voglia trovare in questo oscuro e faticoso rimatore, è, a mio parere, l’esagerazione dei difetti della scuola, e l’imitazione cosí pedissequa de’ provenzali, da non muovere un passo nelle canzoni, se non dietro le orme di quelli; cosicché si avvertono facilmente, or qua or lá, imitazioni da Bernardo di Ventadorn, da Peirol, da Gaucelm Faidit, da Peire Vidal, da Blacasset e da altri ancora.
Il testo delle poesie dell’A. è condotto sull’edizione che giá ne feci nel 1907 nei Rimatori pistoiesi, e quindi sul Laurenziano-Rediano 9 (L), e per la canz. iii anche sul Palatino 418 (P): l’ho migliorato in alcuni punti, giovandomi delle osservazioni che mi furono fatte da coloro che ebbero occasione di recensire il mio lavoro, e adattandolo alle norme stabilite per questa collezione.
E ciò s’intenda detto di tutta questa edizione dei Rimatori pistoiesi1.
Canz. I, v. 3. Veramente L ha «d’esto mondo»; ma mi sembra che qui «mondo» non significhi nulla. Credo che voglia dire: «Spesso ho pensato di tacere, abbandonando il proposito di parlarne in questo modo».
v. 28. L, veramente, ha «pena»; ma di questa lezione non riesco a persuadermi. Intendo: «Non è colpa intera d’amore, ma d’odio».
v. 31: «ad esso». Cosi credo debba sciogliersi «adesso» di L, riferendo «esso» a «piacere».
v. 31. Il Casini, nell’ediz. diplomatica che fece del Laurenziano-Rediano 9, lesse «fa legge»: ma, oltreché codesta frase non dá un senso soddisfacente, è proprio scritto «s’alegge».
v. 57. «Con so» manca in L; ma giustamente ve lo aggiunse il Casini.
v. 61. «dobblanza». Cosi correggo la mia edizione, poiché mi pare che in tal modo corra meglio il senso, e perchè anche nella seguente canzone al v. 35 si dice: «Dunque dobblanza tenete in sentire». Vuol dire: «Mi pesa anche il dubitare (dobblanza = dubitanza, dubbio) di ciò».
Canz. II, v. 11. «Prendendo» ha L; ma non dá alcun senso, quindi bene il Gaspary lesse «prendono».
v. 15. L ha «per servire»; ma, poiché ogni strofa incomincia riprendendo le ultime parole della strofa precedente, è certo che qui si deve leggere «star servidore».
v. 55. Il Nannucci volle leggere «torte», e intese che fosse un avverbio «a torto»; ma, oltreché codesta sarebbe una forma inconsueta, è da credersi che si debba sciogliere in «tort’è», anche perchè l’Abbracciavacca prediligeva queste rime imperfette.
v. 57. L ha «porea»; ma, poiché la strofe precedente termina con «poria», per la sopraddetta ragione deve leggersi «poria».
v. 65. Nella ediz. del 1907 scrissi «né voi»; ma deve correggersi, com’è in L, «né in voi».
Canz. Ili, v. 3. Il Biadene, che giá pubblicò questa canzone, unisce «penserò» con «piager» del v. 2 e ne forma un concetto solo, quello di «piacevole pensiero»: credo invece di dover togliere l’«e» dopo «beltate» e la virgola che avevo posta dopo «pensiero», e cosí piú facilmente si può intendere: «Lo pensiero soviemmi», cioè «mi torna in mente».
v. 19: «non deggi’». Ho aggiunto l’«i» per ragioni fonetiche.
v. 29: «ch’è». Io stesso nella mia vecchia edizione ed anche il Biadene abbiamo lasciato «che»; ma certo è meglio intendere cosí: «Poiché è provato, cioè si è visto, che sotto viso dolce si nasconde cuore amaro, allora non si cela piú...».
v. 39: «ragione». Così scrivo, seguendo il Biadene ed L, sebbene P abbia «rasone».
v. 42: «bassenza». Cosi correggo «bassansa» di P., seguendo, per ragioni di rima, L.
Son. I, v. 2: «e luxuria». Nella mia precedente edizione avevo creduto aggiungere un «è» innanzi a «luxuria»; ma la risposta di fra Guittone fa presupporre una triplice necessitá affermata dall’Abbracciavacca.
Lettera I a Fra Guittone. È in L.
Son. III, v. 4: «Ed eo». Cosi è in L, e non «ecco», come errando lesse il Bottari (Lettere di fra Guittone d’Arezzo, Roma, 1745, p. 76).
v. 7: «Regno»: non «segno», come avevo creduto di leggere, per aver un senso piú chiaro, nell’ediz. del 1907. «Regno» dice veramente L.
Lettera II a Fra Guittone. È in L, da cui la riproduco. Fu giá pubblicata dal Bottari (Lettere citt., p. 77).
Son. IV, prima terzina. Com’è in L, questa terzina non dá senso. L’ho rabberciata, sciogliendo il «che» in «ch’è» nel primo verso e aggiungendo la congiunzione «e» nel terzo. Il senso allora corre spedito: «Me ne scoraggio, perché anche la giustizia di Dio è senza difetto. Vorrei sapere come misericordia chiede contro di essa al vero Dio o mi dá la salvazione dell’anima».
Lettera a Bindo di Alessio Donati. È in L, da cui la traggo, correggendo l’ediz. cit. del Bottari.
Son. V, v. 8: «unde». Cosi ha L, non «onde», come lesse erroneamente il Bottari.
v. 12: Tolgo l’«e», che avevo creduto di aggiungere, ma che non è in L, e sciolgo il «perché» in «per che». Leggo quindi «per che è», giacché nel ms. è anche questo «è».
v. 13: «animai». Veramente L ha «animali»; ma in tal modo non tornerebbe piú il verso.
Son. VI, v. 12: «S’è per». Attenendomi ad L, correggo cosí la mia antica edizione, e il senso è chiaro: «Se è per colpa della fattura del corpo che contiene l’anima».
Lettera a Dotto Reali. È in L. La riproduco dall’edizione che ne ha data il Monaci nella Crestomazia del primo secolo della lingua, con lievissime modificazioni grafiche.
Son. VII, v. 4: «volere». L ha «voler»; ma, per necessitá di verso, ho aggiunta un «e» finale.
v. 8: «ten». Cosi ha L, e non «tien», come, rabberciando, lesse il Bottari.
v. 14: «di lod’agi’altura». Il Bottari: «di loda gialtura».
Son. VIII. Nell’altra mia ediz. ho invertito l’ordine dei vv. 11-2 e 13-4, perché lo schema di questo son. corrispondesse a quello di Monte Andrea: «Languisce il meo spirto», di cui è risposta a rime obbligate: ma le giuste osservazioni, che altri mi ha fatte, m’inducono a rimaner fedele a L, anche perché mi sembra che ci si guadagni di chiarezza.
v 13: «Monte». Mi pare che qui si tratti del vocativo di Monte Andrea.
Infatti non è presumibile che il rimatore abbia voluto far rimare con «monte» del v. i10 proprio la stessa parola nel medesimo significato. Intendo: «Ché non v’è buono che possa dire: — Io discendo a valle, perché sento, o Monte, che vi posso trovare luogo fermo. — Nè cavalieri, né baroni, né conti, né re possono dire ciò».
Son. IX, v. 10. Tolgo il «via», che avevo messo nella precedente ediz., perchè, oltre che non necessario pel senso, non è in L.
v. 14: «dará li cura». Non occorre allontanarsi da L, che ha «dara li cura», per render piú chiaro il senso e cambiare «li» in «la», come feci nell’ediz. del 1907. Ma, prendendo «li» come pleonasmo, il senso corre assai bene.
II
SI. GUI. DA PISTOIA
Nonostante le piú diligenti ricerche, non ho potuto rintracciare chi mai sia questo antico rimatore: forse è Simbuono o Siribuono giudice, da Pistoia, a cui qualche cod. attribuisce due canzoni; «Spesso di gioia nasce ed incomenza» e «S’eo per cantar potesse convertire?». Certo è che il nome di Siribuono non è raro nei documenti pistoiesi.
I due sonetti sono nel Laurenziano-Rediano 9.
Son. I, v. 2: «el me’ piace». Correggo la mia vecchia ediz., attenendomi ad L e intendendo: «Ciò che mi piace [il mio piacere] t’assegna me e il mio».
Son. II, v. 2. Mi attengo fedelmente ad L, correggendo la mia ediz.
w. 1-5. Anche qui credo che bisogni attenersi ad L, perché chiaro corre il senso: «Perché, Iddio, ti compiacesti di donarmi gioia con ogni bene?».III
LEMMO ORLANDI
Lemmo di Giovanni d’Orlando appartenne a famiglia popolana pistoiese derivata da Carmignano, castello che i pistoiesi avevano tolto ai fiorentini. Nacque da un Giovanni di Rolando di Oddo intorno al 1260. Nel 1283 condusse in moglie una certa Sobilia, da cui ebbe due figli, Vanni e Frosina. Fu, a quel che pare, a Bologna con alcuni mercanti, per la maggior parte toscani, nel 1284. Morí, poco piú che trentenne, non molto prima del 6 gennaio 1294 (v. i miei Rimatori, p. lv sgg. e Per la storia letter. del secolo XIII, nel Libro e la stampa, vi, fasc. iv e vi).
Assai meno oscuro e artificioso di Meo Abbracciavacca, egli, pur ritenendo ancora della scoria guittoniana, provenzaleggia talvolta; ma si fa piú chiaro, meno prezioso. Delle sue rime deve esser piaciuta assai a’ suoi tempi la cobbola «Lontana dimoranza», e ciò prova non solo il fatto che non son pochi i codici che la contengono, ma l’averla messa in musica Casella. Le due prime canzoni sono nel Laurenziano-Rediano 9, la terza è nel Vaticano 3214 e nel Riccardiano 2846.
Canz. I, vv. 2-4: «fa’» e «ha’». Cosí interpetro, poiché è certo che in tutta la strofa il poeta parla in seconda persona ad Amore.
v. 13: «e’». Ho aggiunto l’apostrofo, perché è qui molto naturale questo «e’» = «egli» pleonastico.
v. 20. Pongo un punto e virgola dopo «mei» e muto il «che» in «ché», perché è certo che il senso cosí corre meglio.
v. 34: «com’». Muto pel senso il «con» di L in «com’».
v. 39. Com’è in L, il verso è falso: «Movet’ormai a merzede».
v. 48: «fior’e di nobeltate». Cosí L, e, anche per cagione di senso, mi attengo a questo codice.
Canz. II, vv. 34-5. Ho adottata la punteggiatura del Valeriani, perché in tal modo il v. 34 spiega come «sua vista era cangiata» verso di lui.
v. 56: «n’ha dato lei». Cosí ha L, e cosí credo si debba leggere, e non «n’ha dato a me», come posi nella mia antica ediz., tratto in errore dal Valeriani, che aveva rabberciato il passo con un «m’ha dato».
v. 61: «Ché grave ’n lui». Pongo dinanzi a «lui» un «’n», che è in L e che avevo soppresso nella mia precedente edizione.
Canz. III, v. 10. Per questo verso adotto, sebbene non sia nei codici, la buona lezione data dal Nannucci nel suo Manuale.
v. 14: «dolere». Cosí deve certamente leggersi per necessitá di rima.IV
PAOLO LANFRANCHI
Un Paolo Lanfranchi da Pistoia, che è certamente il rimatore, perché nessun altro di questo nome apparisce in documenti pistoiesi, fu dal febbraio all’ottobre del 12S2 a Bologna; vi era ancora il 21 gennaio del 1283 (v. il mio art. cit. nel Libro e la stampa, p. 144). Di lá, molto probabilmente, visitò insieme con Guiraut Riquier e Folquet de Lunel la corte di Pietro III d’Aragona nel 1283 o nel 1284. Alla corte di quel re, e precisamente fra il 1283 e il 1285, anno in cui morì Pietro III, scrisse il sonetto in provenzale: Valentz segneur. Più tardi, dalla Spagna fece ritorno in Pistoia, donde fu bandito per violenze private nel 1291 (v. i miei citt. Studi e ricerche, estr. dal Bull. stor. pist., xii, 44). Pare che fosse ancora a Bologna nel 1295 (v. nel Libro e la stampa, nell’Appendice).
Appartenne a una famiglia di mercanti.
Degno di particolare attenzione è il suo sonetto provenzale, perché esso e i due di Dante da Maiano, sono i soli che si abbiano in quella língua.
Nelle poesie italiane rifugge dagli artifici, e fa versi facili e talvolta anche armoniosi. Nel son. «Un nobel e gentile imaginare» si sente sincero, sebbene crudo, il realismo della poesia popolare. Qualche sonetto è di argomento politico: pare che vi si alluda alla caduta della fortuna di Carlo d’Angiò: cosícché da questi suoi versi sembrerebbe che il Lanfranchi fosse stato di parte ghibellina.
Il sonetto provenzale è nel Laurenziano XLI, 42 (L), i sonetti italiani sono nel Barberiniano XLV, 47 (oggi Vaticano 3953) (B) e due nell’Estense X, B, 10 (E).
Son. II, v. 2: «gira e volge». Correggo cosí la mia antica ediz., mantenendomi fedele a B.
v. 5. Credo bene attenermi a B, abbandonando la lezione data dal Baudi de Vesme, che per il primo stampò questi sonetti: soltanto tolgo il «che» di B dinanzi a «tu ’l sai», e pongo «ora» e non «or» per necessitá di verso.
v. 7. Anche qui mi attengo a B, che dá un senso piú chiaro della lezione da me seguita nella precedente edizione.
Son. III, v. 8. Veramente B ha «fa de mio amore, eo»; ma credo che, dividendo opportunamente, si debba leggere «de mi, o amore», e, correggendo la forma veneta «de mi» in «di me», venga fuori la lezione semplice e chiara «fa’ di me, o Amor, ciò».
Son. IV, v. 10. Come è nel ms., il verso manca d’una sillaba: per compierlo v’aggiungo il «si» innanzi a «sta».
Son. VI, v. 2. Tolgo il «de», che avevo creduto di aggiungere in principio del verso, come non necessario.
v. 12: «con te». Veramente B ha «cum ti», che è forma veneta (si ricordi che quel codice fu scritto da Niccolò de Rossi trivigiano), la quale agevolmente si può correggere in «con te».
Son. VII, v. 3: «no el ghiaccio». Così mi permetto di correggere leggermente B, per ottenere la misura del verso.
v. 11: «transformormi». Così correggo, accettando la proposta fatta nella sua recensione alla mia ediz. dal De Geronimo; intendendo come egli dice: «Dio e la natura erano irati, quando mi crearono e mi fecer diverso da ogni creatura».
v. 12. Anche qui accetto ia spiegazione del De Geronimo: «Il rimatore, indispettito che Dio e la natura l’abbiano forse creato, in un momento d’ira — Il loro — ei dice — quel ch’essi poteano non gittarono in egual misura di quel ch’io possa gettar via, e l’anima, che mi dettero chiara e pura, non la riavranno essi giammai».—
Son. VIII, v. 4: «nota». Sospetto che debba dire «rota», cioè s’affatica seguendo il girare della ruota per arrivare al sommo di essa.
V
MEO DI BUGNO
Pare sia stato figlio di un Bugno di Napoleone, che nel 1284 fu bandito da Pistoia e che, tornato dall’esilio, fu nel 1287 del Consiglio del popolo per il quartiere di Porta S. Andrea; e credo sia proprio l’antico rimatore quel «Muccius (o Bartromuccius) filius Bugni Napoleonis», che il 21 manto 1282 fu condannato per essere entrato a viva forza in una casa in Ripalta (v. i Rimatori, pp. lxvi-lxviii e gli Studi e ricerche, pp. 40-41).
Il suo unico sonetto ha qualche sapore di poesia popolare: è un sonetto di «noia» e vi si lamenta delle sue disavventure. È nel Barber. XLV, 47, oggi Vaticano 3953 (B) e nel R. Archivio di Stato di Venezia, Deliberazioni del Maggior Consiglio, Comune I. Io mi sono attenuto a B., correggendo il testo dato dal Gualandi (Accenni alle origini della lingua e della prosa italiana, p. 17).
Note
- ↑ Mi corre l’obbligo di ringraziare vivamente il prof. Flaminio Pellegrini, che con la sua molta dottrina e con l’autorevole consiglio mi ha efficacemente aiutato in questa nuova edizione dei Rimatori pistoiesi e anche in quella dei Rimatori pisani.