Ricordi delle Alpi/Parte Seconda/XI
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XI.
Svolgimento della storia d’Enrico.
La sorte infelice toccata al padre di Enrico, vittima della vendetta austriaca, e i successivi disastri patiti ne’ suoi più vitali interessi domestici, logorarono sì fattamente la salute della madre, che, postasi a letto alcuni anni dopo la partenza del figlio, vi rimane tuttora in uno stato d’incurabile e penosissima infermità.
Donna di spiriti forti, di cuore caldo, di nobili e grandi intendimenti, ella fece viso al proprio destino con costante dignità; non si potrebbero trovare in madre italiana sentimenti più alti de’ suoi nella frequente e tenera corrispondenza con Enrico; nè credo siavi figlio che, più d’Enrico, abbia santiticato l’affetto di madre.
La sorella appartenne a quella classe di donne, in cui la virtù cristiana si manifesta in tutta la sua dignità: educata a’ severi principî dei genitori, di cui la sventura ricordava l’amore fortissimo al paese, legavasi ad uomo, che sortì egregie doti di spirito e, quel che più vale, di cuore. Felice nel suo affetto di moglie e di madre, pose ogni studio a mitigare con l’opra e col consiglio le tribolazioni della genitrice.
Quando si avvicinava il 1859 col sorriso delle speranze, si rassegnò nobilmente, come al più alto dei doveri, alla partenza del marito pel Piemonte; e montre il suo piccolo Arturo le si avvinghiava alle ginocchia piagnucoloso, ella porse la sua lattante bambina al giovane padre, che stampò l’ultimo bacio d’affetto sulle loro fronti per cadere poscia a San Fermo, soldato di Garibaldi.
Due volte sole fu dato ad Enrico di visitare la madre e la sorella: la prima, all’epoca del matrimonio di questa; la seconda, nel 1860, per mitigare la sventura della cruda sua vedovanza. Onde nella sua famiglia l’amore di patria, oltre la morte del padre nelle segrete di Josephstadt, causò la rovina degli interessi domestici, disfece la madre riducendola a lento e irremediabile malore di corpo, trasse la sciagura della sorella, e infine la morte stessa dell'amico.
Famiglia di martiri!
Prima ch’ei partisse pel campo, cacciatore delle Alpi, ci abbracciammo: — Ecco, mi disse, giunto il sospirato momento; dopo un decennio, un’ora di vera gioia, come questa, è pur sempre un gran bene di Dio. Finalmente anche tal giorno è arrivato, e io posso impugnare il moschetto per la libertà del paese.
Partì. Mi scrisse le prime prove dal Lago Maggiore; me le scrisse da Como, vincitore a San Fermo; e, segnatamente dopo Rezzate, le sue lettere erano care, carissime di descrizioni, di patrio entusiasmo, d’ ingenua e giovanile giovialità; la vivace fantasia del poeta mescevasi alla nobile fiducia del volontario; la guerra all’arte. Presente alla caduta del cognato a San Fermo, lo assistette negli ultimi momenti, e ti lascio immaginare con che cuore accogliesse le ultime raccomandazioni e gli estremi addii per la sorella; la descrizione di quella scena mi ha ripetutamente tratto copiose lagrime.
Dopo l’annessione della Toscana, entrato ufficiale nei bersaglieri, recavasi a combattere i masnadieri nelle provincie meridionali, dove die’ prove di singolare coraggio, meritandosi la croce al valore militare; ma, vinto da aspre e continue fatiche, assalito dalle febbri, dovette lasciare temporaneamente il servizio e trarsi a Genova, dove lo rividi con quella gioia che ti puoi immaginare. Essendo stato in Toscana, nella Lombardia, in Piemonte, e insomma avendo percorso tutta la Penisola, non faceva che parlare di quanto aveva veduto ed ammirato: ci aprimmo a vicenda il libro del cuore, le comuni speranze, le delusioni e le gioie: tutto fu tema dei nostri discorsi: Milano e Torino, Firenze e Bologna, Napoli e Palermo, Venezia e Roma; grandezze, miserie e libertà.
In quel tempo si strinse pure in fraterna amicizia con Riccardo, che conobbe in mia casa; e passammo in quell’autunno molti bei giorni nella Polcevera, deliziosissima valle fra quante ne siano non solo nel Genovesato, ma in Italia; e fu per l’appunto in quella circostanza ch’e’ si prese d’onesto amore per una fanciulla, passata poi a ricche nozze con un mercatante genovese, il quale amore non si potè più svellere dall’animo.
Lo scorso anno, quando mi separai da lui, aveva riacquistato salute e brio, e ogni giorno attendevasi a rientrare nella milizia: intanto si era rimesso agli studi e stava disegnando un lavoro sulle ultime vicende politico-militari della patria. Ci abbracciammo pieni di fede, ed e’ prometteva che sarebbe venuto fra qualche mese a Milano per passarvi alcuni giorni con gli amici, dove ci saremmo riveduti. Ma la Provvidenza avea disposto altrimenti, chè non ci dovevamo più incontrare in questo mondo!
Avevamo compito la discesa del monte: osservato l’orologio, la lancetta notava le cinque in punto. Passammo il torrente Livrio, più mesti che gai, volgendo a sinistra verso l’osteria di ser Mostacchetti.