Ricordi del 1870-71/L'inaugurazione della galleria delle Alpi
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L’INAUGURAZIONE
DELLA GALLERIA DELLE ALPI.
Lettere.
Torino, 16 settembre 1871.
Torno da un giro per la città: che movimento! che vita! Sono parecchi anni che Torino non vede una folla simile e una simile allegrezza. La stazione della strada ferrata è circondata da migliaia di persone; via Roma, via di Po, via Doragrossa, i portici, i viali sono un formicolaio. A ogni passo s’incontra un deputato, un senatore, un giornalista. Quanti antichi amici rivede Torino! La concorrenza dei forestieri è tale fin d’oggi, che negli alberghi difficilmente si trova posto. Ogni treno che arriva, versa sulla piazza Carlo Felice centinaia di persone. Ed è uno solo l’argomento dei discorsi di tanta gente: il traforo delle Alpi. E anche a non volerne parlare, non si può; a ogni passo c’è qualcosa che lo rammenta. Le case sono tappezzate di proclami del Sindaco, della Società delle strade ferrate, delle Società operaie. Le vetrine dei librai non hanno che vedute delle Alpi, ritratti degl’ingegneri, disegni di macchine. Si vendono piccole perforatrici, gallerie di cartone, tappeti ricamati che rappresentano il convoglio della strada ferrata sul punto di entrare nell’apertura del monte, paesaggi, carte topografiche, guide. Il popolo è animato di vero entusiasmo. Nessuna grande festa nazionale è mai stata così ben compresa e sentita nel suo vero senso, e in tutto il suo valore, come questa dell’inaugurazione della galleria. C’è più che dell’allegrezza sui volti, c’è un raggio d’orgoglio italiano!
L’illuminazione sotto i portici è splendidissima: migliaia di fiammelle, riflesse da migliaia di cristalli e di specchi, danno a tutto quel tratto che si estende da via Roma al caffè Londra, l’aspetto d’una sola lunghissima sala parata a festa. In ogni parte ferve il lavoro per le feste di domani.
È notte avanzata; dalla mia stanza sento ancora il grido lontano dei venditori di giornali: — Il traforo delle Alpi! — e penso che fra molti secoli, quando dell’èra nostra non si serberà più che una pallida memoria, quel grido si ripeterà ancora con un palpito d’ammirazione riconoscente.
Torino, 17 settembre.
Questa mattina, gl’invitati alla festa d’inaugurazione della galleria, partirono da Torino con tre treni successivi: il primo alle sei, il secondo alle sette, il terzo alle otto. Una folla numerosa assisteva alla partenza.
V’erano fra gli invitati quattro ministri italiani, i presidenti del Senato e della Camera, i sindaci di Torino, di Roma, di Milano, di Venezia, di Bologna, di Firenze, di Napoli, un gran numero di senatori, di deputati, di generali, di pubblicisti; e molte signore splendidamente vestite. Gli uomini erano tutti in abito nero.
Il viaggio parve breve, benchè ognuno fosse impaziente d’arrivare. Da Torino a Bardonecchia è tutto un seguito di vedute stupende, che preparano gradatamente l’animo alla grande emozione del passaggio delle Alpi. Prima le ridenti colline che circondano la pianura torinese, e lontano il Monviso e il Monte Rosa, e le mille cime dei monti minori; poi le ultime colline di Rivoli, e via via fino a Bussoleno, sempre monti altissimi, valli profonde, gole, villaggi, torrenti; e ogni cosa bella di una bellezza severa che sembra quasi una espressione di rispetto alla sovranità delle Alpi imminenti. Da Bussoleno, la strada ferrata si volge verso il colle di Fréjus, nel cui seno è scavata la galleria. Da questo punto, per arrivare a Chaumont, si attraversa un lungo tratto di paese svariato e difficile, nel quale la strada percorre gallerie, valica torrenti, passa per trincee profonde aperte nella roccia, s’appoggia a sostegni enormi di pietra: sale, discende, serpeggia. Poco prima d’arrivare a Chaumont s’entra in uno spazio di terreno ubertoso, popolato d’alberi fruttiferi e coperto di grandi vigneti. Dopo Chaumont, da capo monti, meglio, nodi di monti, intricati ed aspri, e nuove gallerie, e nuovi ponti; e a destra e a sinistra oscuri burroni, grandi boschi di pini, rupi scoscese, cascate altissime d’acqua, il forte d’Exilles, il forte di Serre-la-Garde, la stretta di Serre-de-la-Voûte; e finalmente la valle si allarga e la strada segue le falde della montagna fino alla grande galleria. Si passa dinanzi a Salberstrand e a Oulx, si entra nella valle di Bardonecchia, si valica il torrente, si attraversano ancora due gallerie, si vede il colle di Fréjus....
Ecco la bocca della galleria.
Appena quella buia apertura si presenta allo sguardo, un senso quasi di terrore stringe il cuore. Si pensa involontariamente all’enorme mole granitica che s’innalza al di sopra, e sembra che, sdegnosa dell’ingiuria fatta alla sua selvaggia maestà secolare, ci si voglia precipitar sul capo, e stritolar con noi il nostro orgoglio. Ma penetrato appena il convoglio nella vasta galleria, appena gettato lo sguardo sui muri di pietra e sulla volta robusta che sembra curvarsi fieramente per sostener il pondo enorme delle Alpi, appena visti i lumi e sentito che si respira liberamente e si corre con impeto facile e sicuro, il cuore si queta, la mente si espande in una maestosa idea di grandezza e di forza, e l’anima abbraccia tutto, con un palpito di meraviglia e di gratitudine, questo portento eterno del genio e del lavoro.
Quanti pensieri, quanti sensi nuovi e profondi ci assalgono confusamente in quel punto! Dodici anni di lavoro! Noi vi passiamo, finalmente, su questo terreno bagnato di tanti sudori! È questo il luogo dove per tanti anni gli uomini insigni che condussero a fine la grande impresa, studiarono, lavorarono, lottarono, ora oppressi da un dubbio doloroso, ora rianimati da una speranza possente, ora felici di una certezza lungamente sospirata! Si sentono in quel cupo strepito precipitoso del treno mille rumori che parlano all’anima: i colpi fitti, fulminei, rabbiosi della perforatrice che divora la roccia, il sibilo confuso delle cento ruote, lo scoppio tonante delle mine, la tempesta delle scheggie sulle pareti, sulle macchine, sugli assiti, il comando dei soprastanti, le grida, le risa degli operai, il suono vario e continuo dell’opera, l’eco di tutta quella vita sotterranea che si agitò per tanti anni nei vergini recessi del monte senza sorriso di sole, senz’alito d’aria salubre, senza altro spettacolo che sè stessa e la rupe, solitaria, misteriosa, solenne! E quante vittime nella lotta! E come le loro immagini si presentano alla mente nell’atto di dire: — Io pure lavorai e soffersi! Ricordate me pure! — Sono operai macilenti e pallidi che hanno speso gli anni più belli della vita nel laborioso cammino attraverso delle Alpi; sono vecchi che hanno perduto la luce degli occhi; sono giovani a cui le macchine e le mine hanno portato via le braccia e spezzata la testa! E in mezzo a questa folla d’invalidi, di mutilati e di morti che par che risollevino il capo per domandarvi la loro parte di affetto e di gloria, si alza la figura bella e venerabile del Sommeiller, a cui splende ancora negli occhi la gioia dell’ultimo colpo lanciato dalla perforatrice nel vuoto, al grido di: — Viva la Francia e viva l’Italia! —
E il treno va e va, e cresce nell’animo nostro, a misura che si procede, la commozione, e la fantasia lavora, lavora. Ora ci pare che non s’abbia più a uscire di là sotto; ci pare d’esserci sprofondati nelle viscere della terra e di precipitare verso una mèta arcana; ora pare che il treno, a un tratto, ritorni furiosamente addietro, come impaurito dall’ignoto verso cui si slanciava; ora si trema di giungere troppo presto all’uscita, e si vorrebbe che quel momento indugiasse ancora, per prolungare il sentimento di meraviglia fantastica che ci agita il cuore e la mente; ora ci piglia come una smania di aria, di luce, un desiderio impaziente dell’azzurro del cielo e del verde della campagna; ora si rimane come attoniti e smemorati, e ci vien fatto quasi di domandare a noi stessi: — Ove siamo? — Siamo già in Francia? — Siamo ancora in Italia? — Un tale guarda l’orologio ed esclama: — Siamo in Francia! — I cuori danno un balzo, gli occhi si cercano, le mani si stringono. — Siamo in Francia! — si ripete. È un senso di gioia inesprimibile; pare che in quel momento le due nazioni si siano strette e baciate, ed abbiano gridato insieme: — Abbiamo vinto! — Ma che! Già la luce del gas impallidisce! Si sente un soffio d’aria vivida e pura! Le pareti biancheggiano! Il vapore getta un lungo grido di trionfo! Ecco i monti! Il Sole! La Francia!
È un momento sublime.
Modane è subito lì sotto, e la strada ferrata ci arriva con una gran curva, che si percorre in pochi minuti.
Si discese alla stazione di Modane, dove si aspettò circa tre quarti d’ora prima di risalire sul convoglio per ritornare in Italia. Erano là, ad attendere, il ministro francese Le Franc, vari altri personaggi francesi, l’ambasciatore Nigra, i rappresentanti del governo svizzero. Parve ad alcuni che l’accoglienza fatta dai Francesi ai ministri italiani sia stata assai fredda. Ma forse quello che parve freddezza era invece un sentimento di mestizia che non poteva esser dissimulato da cittadini d’una nazione sventurata, in presenza dei rappresentanti di un’altra nazione, in cui la gioia del grande avvenimento non era turbata da alcuna memoria dolorosa.
Si risalì nel convoglio, e si tornò a Bardonecchia, dove stavano aspettando gli invitati della seconda e della terza partenza.
Accanto alla strada ferrata, a sinistra dell’apertura della galleria, è stato costrutto un monte, alto circa una trentina di metri, di forma rettangolare, sul quale si stende uno spazio piano di trecento metri di lunghezza e settanta di larghezza, poco più poco meno. Questo monte è composto interamente colla terra, coi sassi e colle altre materie estratte dal colle di Fréjus. Sovra il piano era stato innalzato un grandioso padiglione, ornato delle bandiere italiane e francesi, e sotto il padiglione erano state poste le mense: due lunghissime tavole parallele. Alle due pomeridiane tutti i convitati presero posto a propria scelta, ed ebbe principio il pranzo, che si protrasse fin quasi alle cinque, accompagnato da musiche ed evviva del popolo accorso in folla da tutte le terre circonvicine.
I convitati potevano essere un milleduecento.
La postura del monte in cui erano piantate le mense, il pittoresco paese che si stendeva all’intorno, la vista delle Alpi sovrastanti, quei mille convitati, quelle bandiere incrociate, quelle grida del popolo, quelle musiche, infine l’assieme di quello spettacolo era una cosa che meravigliava e esaltava.
S’alzò pel primo il ministro Visconti-Venosta; disse dei vantaggi che deriveranno ai due popoli dall’apertura delle Alpi, e terminò con un brindisi alla prosperità della Francia.
Parlò dopo di lui il ministro francese Le Franc. Il suo discorso era atteso da tutti con grande desiderio, e fu ascoltato con profondo silenzio. Disse della grandezza dell’opera, e accennò il vario merito di coloro che vi presero parte: Cavour, Paleocapa, Menabrea, Sismonda, Sommeiller, Grandis, Grattoni, Médail. Ricordò il re Carlo Alberto con parole affettuose e riverenti. Terminò esprimendo la sua profonda fede nella stabilità della pace e dell’amicizia tra Francia ed Italia. La sua voce era commossa, e il suo viso improntato dell’affetto che versava nel discorso; era il ministro della Francia, accusata di sensi ostili all’Italia, e parlava di fratellanza e di unione.... Uno scoppio di applausi e di grida altissime seguì le sue parole.
Il ministro De Vincenzi fece un brindisi a tutti coloro che cooperarono alla grande impresa.
Il Ceresole, rappresentante della Svizzera, parlò del traforo delle Alpi e del taglio dell’Istmo di Suez, le due più gigantesche e gloriose opere moderne della razza latina.
Il ministro Sella, rammentò il Sommeiller, parlò della nuova impresa del traforo del Gottardo, e del commercio avvenire tra la Francia e l’Italia.
L’ingegnere Lesseps propinò all’alleanza politica dei due paesi; e il Rorà all’incremento della loro prosperità commerciale.
L’Amilhau, direttore della Società delle strade ferrate dell’Alta Italia, presentò in nome della Società, medaglie d’oro ai governi d’Italia e di Francia, all’ingegnere Grattoni, al Grandis, alla memoria del Sommeiller.
Il Grattoni ringraziò tutti gl’Italiani e gli stranieri che prestarono l’opera loro al compimento dell’impresa, e ricordò con nobili e commoventi parole il suo illustre compagno Sommeiller, sventuratamente rapito ai vivi prima ch’ei vedesse il giorno che doveva compensare le sue fatiche e glorificare il suo nome.
Una parte dei convitati che rimasero a Bardonecchia durante la traversata della galleria ebbe agio di osservare una macchina perforatrice.
Si prova una strana sensazione alla vista di questa macchina tanto celebrata. Prima di averla veduta, s’inclina a immaginarla di mediocre grandezza: vedendola, pare enorme, ed ha veramente un aspetto imponente. Non ne saprei fare una descrizione: è una macchina complicata, di cui non si può dare un’idea senza scendere a molte particolarità. A un cenno, dato dal capo degli operai, vien data l’aria, le ruote si muovono, l’aria sibila, e la sbarra perforante s’immerge da centottanta a duecento volte in un minuto nella viva pietra, con un impeto prodigioso. Ad ogni colpo, l’aria si stende, e dopo aver dato la sua forza viva si rispande all’intorno con un soffio vigoroso. L’apparecchio produce uno strepito assordante; e questo strepito, e la rapidità del moto, e la rabbia, direi quasi, dei colpi, tutto il complesso, insomma, dello strumento e dell’azione ha qualche cosa di terribile; dà una scossa ai nervi ed al sangue, come se in qualche modo si partecipasse noi pure a quell’immane sforzo; il vigore, l’impeto della macchina diventa per un istante nostro; una parte di noi pare che si muova, si divincoli e frema in mezzo ai robusti ordigni del meraviglioso apparato. Gli operai spiano nel volto dei circostanti l’espressione della meraviglia, e guardano la macchina con occhio altero, e vi si appoggiano su con un atto di famigliarità rispettosa, come sopra una bella e superba fiera domata; e forse, in quel momento, molti degli uomini illustri che li contemplano, si senton piccini accanto a loro.
Verso le sette si ripartì per Torino.
Come nell’andare, così nel tornare, si vide a tutte le stazioni della strada ferrata una gran folla che sventolava bandiere e salutava il treno con fragorosi applausi.
Si arrivò a Torino poco dopo le otto. La stazione era illuminata con fuochi di bengala. Il grande atrio, dalla parte di via Nizza, era tutto fregiato di bandiere e di fiori. Le bande musicali suonavano. Le Società operaie ricevettero gli invitati con altissimi evviva, a cui fece eco una moltitudine immensa accalcata in piazza Carlo Felice. La grande facciata della stazione, presentava l’aspetto d’una parete continua di fuoco, a cui reggeva con fatica lo sguardo. Nel mezzo dell’arco centrale si vedeva un grandissimo quadro rappresentante l’Italia e la Francia, due figure gigantesche che si porgono la mano ai piedi delle Alpi. Il Corso del Re, illuminato a grandi archi successivi dalla piazza della stazione fino al Ponte di Ferro, con un apparato, all’imboccatura tra via Lagrange e via Nizza, rappresentante la facciata del Fréjus a Bardonecchia, offeriva l’immagine della galleria. Il giardino della piazza era anch’esso rischiarato da infiniti lumicini nascosti fra l’erba, lungo i sentieri, intorno al laghetto, da cui si alzava con altissimo zampillo la fontana. Era illuminata via Roma, piazza San Carlo, piazza Castello. Tutti gli archi dei portici che girano intorno a questa piazza, tutti gli spigoli dei pilastri, tutti i rilievi delle case scintillavano di fiammelle. Via di Po presentava un aspetto meraviglioso. Di due in due pilastri, a destra e a sinistra, si alzava un sottile tubo a gas, terminante in tre rami fiammeggianti, a forma di giglio. Più in alto pendeva una lunghissima fila di stelle luminose dal capo della strada fino a piazza Vittorio Emanuele. La folla era immensa; l’ordine, fino all’ora in cui scrivo, perfetto.
Così si chiuse questa giornata memorabile.
E ho bisogno di ripetere ancora io quelle parole che ho sentito dir tante volte dall’alba di questa mattina a quest’ora: — La barriera delle Alpi è caduta! — E pareva un disegno insensato! Paure di roccie ribelli ad ogni forza umana, timori di segrete scaturigini d’acqua, previsioni di calori eccessivi e di scarsezza di aria, incertezze, dubbi, sconforti, tutto è svanito; non è più che un ricordo, e un ricordo che par già molto lontano! Le due grandi imprese, il traforo delle Alpi e l’unificazione d’Italia, insieme iniziate e per lo spazio di dieci anni condotte insieme, si sono compiute a pochi giorni di distanza. L’esercito italiano entrava in Roma il 20 settembre del 1870, e il 25 dicembre dell’anno stesso scoppiava l’ultima mina nella galleria del colle di Fréjus! Quasi nel tempo istesso, l’Italia porgeva una mano alla sua antica madre e l’altra alla sua antica alleata; da un lato ella gridava: — Libertà! — dall’altro: — Pace! — E sarà veramente un tacito patto di pace fra i due popoli questa grandiosa vittoria comune, che oggi s’è celebrata; essi non si scambieranno per la nuova via che parole di fratellanza e utili commerci e disegni di nuove opere gloriose; non si comunicheranno che ciò che innalza, ingrandisce e purifica!