Ricordanze della mia vita/Parte prima/IX. Una cattedra
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Parte prima - VIII. La giovane Italia | Parte prima - X. Catanzaro | ► |
IX
Una cattedra.
La setta non impediva che io non attendessi alle mie faccende ed ai miei studi, né gli studi e le faccende m’impedivano di attendere a quella cara fanciulla che io adoravo. Un giorno per una via la incontrai che andava con una monaca e mi parve un’angeletta: e mi sparí dagli occhi, ma mi rimase nella mente e nel cuore. La rividi dopo un anno, e seppi che abitava non lungi da casa mia, e viveva ritiratissima, che la monaca era sua educatrice, e che i suoi genitori, persone modeste e tutti di chiesa, volevano consacrarla in un chiostro. Io me ne innamorai perdutamente, e non potevo altro che vederla in qualche chiesa e di lontano: e mi dissero che tra breve non l’avrei neppure veduta, perché la sua famiglia la chiudeva in un monastero. Oh questo non sará, dissi io; e un giorno mi presentai ai suoi genitori e la chiesi in moglie. Non mi ci volle poca fatica a vincere i loro scrupoli e a persuaderli, perché non volevano maritarla, ed ella stessa voleva far vita divota. Infine mi dissero che sí, ma quando sarei stato nominato professore. Cosí la prima volta la vidi da vicino e le parlai. Ella aveva nome Raffaela Luigia Faucitano; era un fiorellino di sedici anni, era timidissima, quella che poi divenuta donna doveva soffrire tanto e con tanto coraggio; e lavorava a’ suoi bellissimi ricami, ed anche parlando con me non ismetteva da’ suoi lavori, e di tanto in tanto alzava gli occhi e mi guardava con un sorriso che mi faceva tremare.
Io volevo ottenere la cattedra di rettorica e lingua greca vacante nel liceo di Catanzaro, perché in quella cittá era mio fratello Peppino, e ci era andato anche Giovanni, e con me erano rimasti gli altri due fratelli minori e la sorella, essendo giá morti i nostri nonni e l’ottimo zio Filippo Giuliani nostro tutore: e cosí io volevo riunire colá la sparsa famigliuola. Però mi preparavo al concorso, e studiavo chi vi può dire come e quanto? avevo dinanzi a me due premi bellissimi, una cattedra, e la mia Gigia. Talvolta mi veniva uno sgomento, e dicevo a lei: «Ma saro io professore?» «E di che temi? tu studii tanto!» «E se mi faranno un torto? e se nell’esame io mi confondo?» «Non te lo faranno, né ti confonderai se tu mi ami davvero». «Se ti amo?» «Ebbene, raccomandati ad Amore: esso è un santo che sa fare di grandi miracoli». Cosí ella mi rianimava e mi accendeva. Io non perdevo briciola di tempo, ed anche camminando per le vie leggevo Omero, e ne andavo ripetendo i versi: e poi a un tratto correvo col pensiero a lei, e mi scordavo d’Omero. Oh, chi mi ridona quegli anni, quegli studi, quei giorni d’amore e di speranza? Una sola volta in vita si studia bene, come una sola volta veramente si ama.
Rimpetto casa mia in via dell’Infrascata abitava un vecchio sopra settant’anni, a nome Agostino Pecchia, un esule del ’99, un uomo dotto, un patriarca d’una buona famiglia, della quale rimane un figliuolo Ottavio, buono quanto il padre e mio amico. Il vecchio mi prese a voler bene perché io avevo per lui grande riverenza, e mi propose a la duchessa di Campochiaro, donna assai colta, la quale non so se per grandigia o per malattia, non potendo leggere da sé, voleva uno che per due o tre ore al giorno le facesse una lettura in italiano o in francese, ed ella sdraiata sopra un seggiolone accanto ad uno specchio ascoltava. Aveva alta e nobile persona, era stata bella, e belli ancora aveva gli occhi e le mani; e piú di udire aveva bisogno di parlare. «Quanti anni avete?» «Ventidue». «Troppo giovane». «So che vorreste un uomo di trent’anni almeno». «Ma via, non importa: soltanto non dovete portare odori su la persona, che mi offendono». «Non ne ho portato mai». «Ebbene leggiamo». Questa signora aveva nome Isabella Coppola de’ duchi di Canzano, ed era moglie di Ottavio Mormile, duca di Campochiaro, giá ambasciatore a varie corti d’Europa, e a quella di Napoleone, e poi ministro, e allora ritirato. Ella dunque parlava spesso di re e di príncipi, e massime di Napoleone e de’ suoi marescialli da lei conosciuti quasi tutti, e mi narrava molti aneddoti curiosi. «Quando la prima volta andai a corte dell’imperatore, egli mi disse in italiano: ‘So che cantate molto bene, fateci sentire qualche cosa’. Io arrossii, mi confusi, mi scusai, dissi che ero indisposta; ed egli, come se avesse comandato ad un coscritto, mi addito il pianoforte dicendo, ‘Obéissez’ Ubbidii tremante, ma non potei cantare. ‘Asseyez-vous, madame la duchesse’ mi disse egli sorridendo con certa malizia e compiaciuto della mia confusione. Che birbone! era tiranno anche con le donne! quell’‘obéissez’ non glielo posso perdonare ancora». Ella poi parlava de’ miei studi come se fossero stati anche suoi, aveva letti tutti i classici latini e greci tradotti in francese; e una volta volle che io leggessi Orazio in latino e lo traducessi in italiano: io le dicevo che cotesto non si poteva far bene, ed ella sorridendo rispondeva: «Obéissez, come potete». Si ragionava un pezzo, poi io leggevo, ed ella o si mirava nello specchio o teneva gli occhi chiusi. E mentre io leggevo a un tratto ella mi domandava: «Dunque voi l’amate quella fanciulla?» «Oh assai, signora duchessa». «Ed e bella?». «A me pare bella, ed è anche buona». «Continuate». Io continuavo a leggere ed ella chiudeva gli occhi. Vi so dire che né ella né io in quel punto pensavamo a quello che io leggevo.
Venne il dì 18 agosto 1835, ed io mi presentai nell’universitá innanzi otto professori componenti la facoltá di letteratura e filosofia. Dei molti scritti al concorso non ci venne che un solo, il quale ne aveva fatto un altro e ottenuto il secondo luogo, e veniva a questo con una certa confidenza di ottenere la cattedra. Io temevo perché mi sentivo a un gran punto. Si aprirono i libri, e ci diedero le tesi: si aprí Omero, e avemmo a voltare in latino i primi dieci versi della seconda Iliade, e farvi su un comento filologico: si aprí Cicerone de Oratore, e avemmo a scrivere una dissertazione latina su l’azione oratoria; si aprí Orazio e avemmo a scrivere le lodi di Augusto in esametri latini ed in un’ode saffica italiana. Come udii le tesi respirai, e non tremai piú, anzi con una certa baldanza mi apparecchiai al duello col mio avversario. E l’arena di quel duello fu la sala del museo mineralogico, dove tredici anni dopo, nel 1848, fu la Camera dei deputati. Scrissi di forza, e scrissi il comento filologico tutto in greco, e questo fece un gran colpo: i professori mi credettero un ellenista valente, poco meno che un Errico Stefano, ed io non era altro che un pappagalletto ardito che ricordavo sino i punti e le virgole: ora tutto quel greco se n’è ito. Otto giorni dopo recitammo un discorso italiano per dar pruova come s’ha a parlare da la cattedra. La facoltá diede il suo giudizio, e lodato il mio avversario nominò me professore. E cosí per quattro scarabocchi latini e quattro greci mi diedero una cattedra di eloquenza, mentre avevo ventidue anni, sapevo tanto poco, e avevo bisogno di andare a scuola. Ci voleva la laurea, e senz’altro esame me la diedero, ma dovetti pagare, perché quando si tratta di quattrini non c’è greco ne latino che tenga, la facoltá di letteratura non intende di finanze, e bisogna pagare.
Subito andai da la mia fanciulla che mi accolse festosa, e mi diede il primo bacio. Sono vecchio di sessantadue anni, sono quarant’anni che ebbi quel bacio, e me ne ricordo come de la sola e vera dolcezza che ebbi nella vita mia: quel sacro bacio mi accese una luce che io ho tenuta e tengo sempre innanzi agli occhi miei, e la terrò sino all’ultimo dei miei giorni. Se il mio canonico ne fu lieto non ve lo dico. Monsignor Colangelo riferendo al ministro non obbliò di dire che io era quel desso giá proposto da lui: quell’eccellente uomo del Puoti mi abbracciò e mi diede molti suoi consigli di cui pur troppo abbisognavo; e la duchessa come mi rivide: «Vi saluto, professore: la sposerete ora». «Certamente». «E quando l’avrete sposata, ricordatevi che voglio vederla».
Il giorno 8 ottobre di quell’anno 1835 io tolsi in moglie la mia diletta la quale era nata il 12 febbraio 1818. I suoi vecchi e buoni genitori me la diedero piangendo e dicendo: «Noi vi diamo la consolazione e l’augurio della casa nostra. Iddio vi benedica tutti e due». Le nozze furono ben modeste: eravamo tutti e due giovani, e ci amavamo l’un l’altro, ed amore che era tutto per noi ci abbelliva e riempiva la vita.
Un mese dopo, nel novembre del 1835, mi messi in viaggio con la mia Gigia, coi miei fratelli e la sorella, avendo giá pronta la prolusione da recitare; e dopo nove giorni che ci vollero a percorrere in un carrozzone dugento cinquanta miglia, finalmente giungemmo in Catanzaro.