Ricordanze della mia vita/Parte prima/VIII. La giovane Italia

VIII. La giovane Italia

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VIII

La giovane italia.

Quando io andavo a la scuola di leggi vi conobbi un giovane calabrese del Pizzo a nome Benedetto Musolino, di molto ingegno, ma pieno di strani disegni arditi. Ei non vedeva passare per via un reggimento o una compagnia di soldati, che imbaldanzito come un galletto, ei non mi dicesse: «Se io avessi centomila di quelle punte (e indicava le baionette) sarei liberatore del mondo». Rivedeva sempre i conti a Cesare, Alessandro, Maometto, Tamerlano, Napoleone. A narrarvi che castelli e come si rimpastava il mondo, e che bei sogni facevamo ad occhi aperti nelle nostre passeggiate, e le dispute che avevamo, saria lungo assai. Dopo alcun tempo ei pensando di fare gran cose e gran fortuna fra i turchi, navigò a Costantinopoli; e quivi propose al visir tali e tante riforme nelle milizie, nelle finanze e in tutto da rovesciar proprio sossopra l’impero ottomano. Voleva diventare pasciá e circoncidersi e chiamarsi Mohammed o Timur e piantare la mezzaluna a Pietroburgo. Ma avendo veduto che il visir stava a udirlo piacevolmente, ma del fare non voleva saper nulla, spesivi alquanti mesi e denari, tornossene senza effetto. Lo rividi in Napoli nel 1834; ed ei mi disse che in Malta aveva letto parecchi scritti della Giovane Italia, e non pure il giornale di questo nome, ma ancora il catechisino della setta che egli aveva portato seco e per prudenza lasciatolo nel suo paese, donde mi promise lo farebbe venire. Lettori miei, non v’accigliate a questo nome di giovane Italia, e statemi a udire.

Oggi non si vuol sapere di sétte, e va benissimo: ma una volta esse ci sono state, e per esservi dovevano avere la loro ragione. Non bisogna scandalezzarsene e biasimarle cosí a la [p. 60 modifica] cieca, ma considerare che in certi tempi e in certi popoli elle sono una necessitá, e moltissimi uomini di virtú e di senno credettero bene di appartenervi. Nei paesi liberi ci sono le parti, le quali sono pubbliche, e adoperano mezzi se non sempre onesti almeno d’un’apparenza legale. Nei paesi servi ci sono le sétte, che sono segrete, e che per ira e corruzione non badano troppo alla qualitá dei mezzi. Le sétte sono una necessitá della servitú, e cessano quando l’idea che le ha formate non è piú ne segreta né di pochi, ma pubblica e generale, e deve diffondersi e volare per tutto. Se volete la farfalla, dovete avere prima il verme. Allora non potevamo in altro modo intenderci, accordarci, tentare libertá, e spargere il seme di quelle idee che han prodotto il frutto che ora apparisce. Non abbiate dunque a male se io vi pario d’una setta.

Io aveva udito a parlare tanto della massoneria e della carboneria, e non avevo mai potuto saperne o leggerne qualcosa: desideravo però almeno di conoscere questa giovane Italia di cui si faceva allora un gran dire nei giornali; ed ero sempre intorno all’amico, e gli dimandavo se avesse avuto il catechismo. Egli fattomi aspettare un pezzo, infine mi diede un libro scritto di sua mano, dicendomi che lo aveva copiato da una stampa: ed io lo lessi con aviditá grande.

Lo scopo era niente meno che cacciare d’Italia non pure tutti i príncipi, e gli austriaci, e il papa, ma i francesi di Corsica e gl’inglesi di Malta, e formare una gran repubblica militare. Capo supremo un dittatore sedente in Roma: dieci consoli governare le dieci regioni in cui si divideva l’Italia: ogni provincia comandata da un colonnello, ogni municipio da un capitano. Ciascuno di questi uffiziali aveva un questore o tesoriere, uffiziale anche egli. V’erano poi gli apostoli, commessari dittatoriali o consolari, che avevano speciale incarico di stabilire, ordinare, regolare la setta. Non adunanze, non colloquii fra piú di due, il convertito comunicare col suo convertitore, e riceveva gli ordini, e li comunicava ad un altro, e si doveva ciecamente ubbidire. Il giuramento era di fiere parole, e doveva darsi sopra un teschio ed un pugnale. La [p. 61 modifica] bandiera un drappo nero su cui era un teschio bianco, e la scritta unitá, libertá, indipendenza. Nero il vestimento, simile a quello dei contadini calabresi: le armi una carabina con la baionetta, e un pugnale lungo un palmo. Dovere di tutti gli affiliati esercitarsi nelle armi, e correre tosto quando i capi li chiamavano, ed era giunto il fatal giorno dell’insurrezione, e il dittatore dava il primo tocco del vespro.

Questa gran macchina mi fece molto maravigliare. Pensavo tra me: «Se saremo molti, e uniti cosí, e d’un solo animo, lo faremo veramente un vespro e scoperemo príncipi papi e forestieri. È una grande impresa: un’Italia grande, libera, unita, indipendente non c’è italiano che non la voglia: tutto sta nell’unire insieme tanti voleri; e la setta è il caso, perchè questa con mezzi semplici e senza pericolo fa trovare uniti molti voleri ed ordinati ad un fine». Cosí ragionavo allora, e credevo di saperne quanto il Machiavelli. Lodai moltissimo il libro all’amico, il quale poi che m’ebbe fatto parlare lungamente, ed ebbe discusso meco varii punti, infine mi disse: «Ebbene, questo libro l’ho scritto io». «Tu? oh non è questa la giovane Italia fondata da Giuseppe Mazzini?» «No: io le ho dato quel nome giá conosciuto, perchè se gliene avessi dato un altro, o detto la fondavo io, chi l’avrebbe accettata? Lo scopo, i princípi, i mezzi da adoperare sono gli stessi: pur che venga il bene, la gloria sia pur d’altri, non m’importa. Tienimi adunque il segreto che affido a te primo e solo, e aiutami a propugnare questa grande opera». Lo abbracciai, e gli promisi di mettermi seco all’impresa.

Rimasto solo feci tra me e me parecchie considerazioni. «Dunque non siamo che noi due! e noi due cominciare opera sí grande? e quali mezzi, quali amici abbiamo noi giovani e senza fama? E bisognerá pur dire delle bugie a chi mi domanderá se siamo in molti, e se il dittatore sta veramente in Roma, e chi può essere, e che scrive. Ma in tutte le cose del mondo un poco d’impostura ci vuole, ed è come il sale che dá sapore se è poco, e rende amaro se è molto. L’è una cosa difficile, ma il piú difficile è piú bello. Non siamo [p. 62 modifica] uomini anche noi? C’è piú onore quando si comincia soli una grande impresa». La vanitá che pur si crede una cosa leggiera, ebbe piú peso nelle mie bilance che la ragione: fui superbo di possedere un segreto, di partecipare a la istituzione d’una setta, e mi ci messi di gran volere. Cominciammo noi due a spargere la setta fra i giovani e gli amici cui ci potevam confidare; e quei volentieri l’accettavano perché a quella etá si accetta ogni proposta che pare bella e generosa. Il mio amico per usare un po’ di santa impostura, e mostrare carte stampate che venivano dall’alto, ebbe a spendere molti quattrini e si privava del necessario nel vitto e nel vestito, e non viveva che in quel pensiero, e sperava che il numero degli affiliati crescesse tanto, da poter dare egli il segnale della rivoluzione, e scoprirsi. E questa fu la giovane Italia sparsa nel regno, e creduta essere quella del Mazzini.

«Ma voi eravate veramente pazzi!» Sí, ma senza quei pazzi non ci sarebbe l’Italia ora; senza quella fede, quella febbre ardente, e quell’entusiasmo, i savi discuterebbero ancora e non avrebbero fatto nulla. Ci volevano i pazzi ed i savi, come in tutte le cose grandi ci vuole l’ardire ed il senno: ma al cominciare ci vogliono sempre i pazzi. Ma lasciatemi considerare un po’ la ragione di quella pazzia.

L’unitá d’Italia fu sempre antico e continuo desiderio di tutti gl’Italiani intelligenti e generosi. Dante voleva l’unita del mondo con a capo l’Italia, la monarchia universale con due capi l’imperatore e il papa: questa era una poesia ma ha il suo valore storico, perché indica che l’unita religiosa del medio evo era giá rotta e divisa in due.

Nel decimoquinto secolo si ordinarono gli stati d’Europa mediante la forza e la conquista: in Italia si cercò l’equilibrio tra le signorie, e la libertá municipale impedí l’unita nazionale. Il primo concetto di fondare in Italia uno stato grande e forte fu di Nicolò Machiavelli, il quale ideava un principe cui dava consigli ed ammaestramenti tratti dalla sapienza politica de’ romani, gli diceva di tenere la religione come mezzo, adoperare forza ed astuzia, e non aborrire neppure dai delitti che [p. 63 modifica] giovano ad un gran fine. La chiesa di Roma udí quei consigli, tenne la religione come mezzo, adoperò forza, astuzia, delitti d’ogni specie, e fondò il suo stato in mezzo d’Italia. Ci vollero tre secoli di servitú straniera e clericale, ci volle un gran cumulo di scelleratezze nefande per agguagliarci tutti nel dolore e nella vergogna, per toglierci quel sentimento municipale che ci diede una personalitá spiccata e ci tenne sempre divisi, fiacchi, e servi. Come il dolore ci fece risentire, e pensammo a riacquistare libertá, la prima forma che ci si presentò spontanea fu la repubblica, l’unitá nazionale repubblicana una gran lega dei comuni. E questo fu il concetto rappresentato dal Mazzini, il quale non intese quanta è la potenza del papa, e credette di abbatterla come quella di ogni principe che è mandato via. Il Gioberti che l’intendeva, ma era poeta piú che filosofo, propose la federazione dei principi italiani con a capo il papa. Oggi l’Italia ha trovata spontaneamente la sua forma politica nella monarchia, la quale sola può conservare l’unitá: e l’unitá d’Italia vuol dire caduta immediata del potere temporale del papa, decadimento dello spirituale, mutamento certo nella coscienza dei popoli, trasformazione non pure del cattolicismo ma del cristianesimo. Se l’Italia fosse repubblica non potrebbe essere che una federazione di repubbliche, delle quali piú che la metá sarebbero pel papa. Quando si era scolari la forma repubblicana piaceva perché spiccia e breve, poi non se ne vedeva altra possibile: ma rimanere ora a quella forma è rimanere scolari, non intendere il valore che ha l’Italia unita non solamente per noi ma per tutta Europa anzi pel mondo, del quale l’Italia, deve trasformare la coscienza. Io non conobbi mai Giuseppe Mazzini, ma io l’onoro come uomo che al suo tempo fece gran bene alla causa della libertá. Egli ebbe un concetto monco, la libertá e l’indipendenza, e non si curò dell’unitá che per noi italiani è idea madre di tutte le altre: rappresentò un’idea vaga di libertá e però egli ebbe seguaci tutti coloro che non avevano un concetto determinato della libertá, e specialmente i giovani. Ma allora chi l’aveva questo concetto [p. 64 modifica] determinato? Allora non era pazzia cospirare e appartenere ad una setta repubblicana per tentare di riacquistar libertá, ma era ardire generale. Io ero repubblicano allora perché nella repubblica vedevo libertá: esser repubblicano oggi mi parrebbe sfasciare l’unitá, e dare l’Italia in mano al papa e allo straniero: la repubblica oggi sarebbe un parricidio. L’unitá d’Italia non è un fatto solamente politico, come l’unitá germanica, ma è un fatto anche religioso che avrá lunghe e larghe conseguenze fra tutti i popoli cristiani: e se tra gli altri popoli si prepara la grande rivoluzione sociale che si avvicina terribile, in Italia si prepara la coscienza che dovrá informare e guidare quella rivoluzione.

Fintanto che in Italia ci sará un papa ci deve essere un re, che solo può tenerlo in freno anche essendo credente e cattolico. E se verrá tempo che tutti gli stati di Europa diventeranno repubbliche, ultima fra tutti dovrá essere l’Italia e soltanto dopo che sará distrutto e dimenticato il papa. Ma torniamo al 1834.

Mazziniani veri ce n’erano in Abruzzo, e non giovanotti come noi, e scrivevano delle belle lettere al Mazzini e ne ricevevano bellissime risposte, ma non erano ordinati a setta, e non sapevano di noi né noi di loro, e dopo alquanti anni ci siamo conosciuti. Ma io, a dire il vero, tenevo quella giovane Italia, come una faccenda mezzo letteraria, un’opinione che bisognava nascondere sí, ma che in fine non era altro che un’opinione della quale se fossi stato io al governo non avrei avuto paura. Pure venne un’occasione per la quale io credetti di adempiere ad uno dei doveri della setta, quello di esercitarmi nelle armi; e fu questa.

A consiglio del ministro Delcarretto, e per fare un po’ di pallida imitazione a la Francia che allora aveva la guardia nazionale, si formò nella sola cittá di Napoli una guardia cittadina, ché non ve n’era affatto, mentre ogni paesello aveva la sua guardia urbana. Nella guardia cittadina furono chiamati nobili, borghesi, professori, mercanti, possidenti, e bottegai grassi: si ebbe una bella divisa verde, e permesso di tenere [p. 65 modifica] in casa le sole armi bianche, il fucile no, che lo dava il governo per gli esercizii e le mostre, scarico e senza munizioni, e cosí netto lo dovevi restituire prima di tornartene a casa. Dice Tacito che quando un principe è mal visto ei fa male quel che ei fa. Questa guardia cittadina fu un bene, e molti se l’ebbero come un male e ne sparlavano. Io ricordavo che la guardia cittadina nel 1806 e 1815 salvò Napoli da la plebe che ne meditava il saccheggio; dicevo che giovava sapere come si trattano le armi e dove stanno riposte per pigliarcele al bisogno; e di buon grado ne feci parte anche io, e andavo a le riviste e agli esercizi ogni domenica. Quando mi vedevo fra tanti armati e col fucile in mano, mi sentivo avvampare il viso, palpitare il cuore, e pensavo: «Che ci vorrebbe ora? un volere, e saremmo liberi. Se io levassi un grido, risponderebbero? verrebbero con me? Alcuni sí, ma altri fuggirebbero, e forse n’arresterebbero! Oh, andare a la forca per un grido? E poi i fucili sono scarichi!». Cosí mi cadevano le braccia, e rimanevo immobile, finché l’istruttore mi scuoteva gridando: «Portate armi!». Se fra tanti ci erano altre teste che bollivano come la mia io non so, ma certo una testolina di fiori come quella che avevo io allora non l’avresti trovata sul busto di ogni cristiano.