Racconti fantastici (Nodier)/Smarra o il demonio della notte/L'epodo

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Smarra o il demonio della notte - L'episodio Smarra o il demonio della notte - Epilogo
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L’EPODO


Ergo exercentur pœnis veterumque malorum
Supplicia expendunt; aliæ panduntur inanes
Suspensæ ed ventos, aliis sub gurgite vasto
Infectum eluitur scelus, aut exuritur igni 1.
Virgilio.


È suo costume di dormire dopo i pasti, e il momento è favorevole per rompergli il cranio con un martello, aprirgli il ventre con un piuolo e tagliargli la gola con un pugnale.

Shakspeare.


I vapori del piacere e del vino avevano stordito i miei spiriti e vedeva mio malgrado i fantasmi dell’imaginazione di Palemone inseguirsi nei canti meno illuminati della sala del festino. Di già egli s’era addormentato d’un sonno profondo nel letto seminato di fiori con accanto la sua coppa rovesciata, e le mio giovani schiave sorprese da un abbattimento più dolce avevano lasciato cadere la loro testa pesante contro l’arpa che esse tenevano abbracciata. I capelli d’oro di Mirteo discendevano come un lungo velo sul suo viso tra i fili d’oro che impallidivano presso di essi, e il respiro del suo dolce sonno, errante sulle corde armoniose ne cavava ancora non so quale suono voluttuoso che moriva nel mio orecchio. Tuttavia i fantasmi non erano partiti; essi danzavano sempre nell’ombra delle colonne e nel fumo delle fiamme Impaziente per questa menzognera illusione dell’ubbriachezza, rimisi sulla mia testa i freschi rami dell’edera preservatrice e chiudevo fortemente gli occhi tormentato dalle illusioni della luce.

Allora udii uno strano rumore, in cui distinsi delle voci or gravi, or minacciose, or ingiuriose, ora ironiche. Una di esse mi ripeteva con fastidiosa monotonia dei versi di una scena di Eschilo; un’altra gli ultimi ammaestramenti datimi dal mio avo morente; di tanto in tanto [p. 81 modifica]come una folata di vento che subitaneo e fischiante tra i rami morti e le foglie secche nelle momentanee calme della tempesta, una figura di cui io sentiva il soffio, scoppiava in una risata contro la mia guancia e s’allontanava, ridendo sempre. Allucinazioni bizzarre ed orribili successero a queste illusioni. Credevo di vedere gli oggetti sui quali il mio sguardo si stendeva attraverso una nuvola di sangue; essi fluttuavano davanti a me e mi perseguitavano con attitudini orribili, con gemiti accusatori. Polemone, sempre giacente vicino alla sua coppa vuota, Mirteo sempre appoggiata sulla sua arpa immobile, mi lanciavano delle imprecazioni furiose e mi chiedevano conto di non bo quale assassinio. Al momento in cui mi sollevavo per rispondere loro, e stendevo le braccia sul letto rinfrescato dalle abbondanti libazioni di liquori e di profumi, qualche cosa di freddo afferrò le articolazioni delle mie mani frementi; era un nodo di ferro, che nello stesso punto cadde a’ miei piedi assiderati, e mi trovai ritto fra due file di soldati lividi, strettamente serrati, le cui lance terminate da un ferro abbagliante rappresentavano un lungo seguito di candelabri. Allora mi sono messo in cammino, cercando collo sguardo nel cielo il volo della colomba viaggiatrice per confidare almeno a’ suoi sospiri prima del momento terribile che cominciavo a prevedere, il segreto d’un amore nascosto che essa poteva un giorno raccontare, librandosi presso la baia di Corcira, al di sopra di una leggiadra casa bianca; ma la colomba piangeva sul suo nido, perchè l’astore aveva rapito i più cari piccini della sua covata. Ed io inoltrava con passo penoso e barcollante verso la meta di questo tragico convoglio, in mezzo al mormorio di spaventevole gioia che correva attraverso la folla e chiamava impaziente il mio passaggio; il mormorio del popolo dalla bocca spalancata, dalla vista alterata da dolori, la sanguinosa curiosità del quale beve più da lontano possibile le lagrime della vittima che il boia gli getta. — Eccolo! gridavano tutti, eccolo!... Io l’ho visto sul campo di battaglia, diceva un vecchio soldato, ma allora non era pallido come uno spettro e pareva valoroso nel combattere. — Com’è piccolo questo Lucio di cui si faceva un Achille ed un Ercole! riprendeva un nano che lo non aveva scorto fra gli altri; è il terrore senza dubbio che annienta la sua forza e gli piega i ginocchi.

— Si è ben certi che tanta ferocia abbia potuto trovar posto nel cuore d’uh uomo? chiese un vecchio dai capelli bianchi, il cui dubbio m’agghiacciò il cuore. Ei rassomiglia a mio padre. — Lui! rispose la voce d’una donna il cui viso esprimeva molta dolcezza... Lui! ripetè [p. 82 modifica]inviluppandosi nel suo velo per evitare l’orrore del mio aspetto... l’uccisore di Polemone e della bella Mirteo!... — Io credo che il mostro mi guardi! disse una donna del popolo. Fermati, occhio di basilisco, anima di vipera, che il cielo ti maledica! — In quel mentre le torri, le vie, le città, tutto fuggiva dietro di me come il porto abbandonato fugge alla nave avventurosa, che sta tentando il destino del mare. Non rimase che una piazza di recente formata, vasta, regolare, superba, attorniata da edifici maestosi inondata da una folla di cittadini di tutti i ceti, che rinunciavano al loro dovere per obbedire all’attrattiva d’un piacere pieno di emozioni.

I crocicchi erano zeppi di curiosi avidi, tra cui si vedevano de’ giovani disputar il minuscolo postino alle loro madri o alle loro amanti. L’obelisco innalzato al disopra delle fontane, il ponte vacillante del muratore, i trespoli ambulanti dei saltimbanchi portavano degli spettatori. Uomini anelanti per impazienza e di voluttà, pendevano dalle cornici dei palazzi; e abbracciando colle ginocchia gli spigoli delle muraglie ripetevano con gioia smoderata: Eccola! Una bambina i cui occhi sbarrati annunciavano la pazzia e che aveva una tunica azzurra a sbrendoli e i capelli biondi pieni di pagliole cantava la storia del mio supplizio. Essa diceva le mie parole di morte e la confessione de’ miei delitti e il suo compianto crudele rivelava all’anima mia spaventata i misteri del delitto, impossibili a concepire per il delitto stesso. L’oggetto di questo spettacolo ero io, un altr’uomo che m’accompagnava c alcune tavole innalzate su qualche palo al di sopra delle quali il carpentiere aveva fisso una seggiola grossolana e un ceppo di legno mal squadrato, che lo sorpassava di mezzo braccio. Salii quattordici scalini; mi assisi; poi girai gli occhi sulla folla; desideroso di riconoscere dei volti amici, di trovare nello sguardo circospetto d’un addio vergognoso lampi di speranza ó di rammarico; ma non vidi che Mirteo che si risvegliava contro la sua arpa, cui tastava ridendo; non vidi che Palemone il quale alzava la sua coppa vuota e che con mano tremante e mezzo stordito dai fumi dei vino, la riempiva ancora. Più tranquillo abbandonai la mia testa alla scimitarra tagliente e diacciata dell’ufficlale della morte.

Giammai un brivido più acuto ha corso nelle vertebre dell’uomo; essa era ghiacciata come l’ultimo bacio che la febbre imprime sul collo d’un moribondo, acuto come l’acciaio raffinato, divorante come piombo fuso. Non fui sottratto a quest’angoscia che da una commozione terribile; la mia testa era caduta... aveva rotolato balzando sull’orrendo atrio del patibolo e presta a scendere tutta ammaccata tra le mani del fanciulli, de’ gentili fanciulli [p. 83 modifica]di Larissa che si divertono colle teste da morto, essa s’era attaccata ad una tavola sporgente, mordendola coi denti di ferro che la rabbia dà all’agonia. Di là io girava gli occhi verso l’assemblea che si ritirava silenziosa ma soddisfatta. Un uomo era morto davanti al popolo. Tutto passò nell’esprimere un sentimento d’ammirazione per colui che non m’aveva sbagliato e un sentimento d’orrore per l’assassino di Polemone e della bella Mirteo. — Mirteo! Mirteo! gridai ruggendo ma senza abbandonare la tavola salutare. — Lucio, Lucio! rispose ella mezzo addormentata, dunque tu non dormirai tranquillo mai quando hai vuotato una coppa di più!? Che gli dei infernali ti perdonino e tu non abbia a disturbare più il mio riposo. Amerei meglio dormire col fracasso del martello di mio padre, nella bottega dove egli tormenta il rame, piuttosto che fra i terrori notturni del tuo palazzo.

E mentre ella parlava, io mordeva ostinato il legno umettato dal mio sangue frescamente sparso e mi rallegrava di sentir crescere le tristi ali della morte, che si spiegavano lentamente al disopra del mio collo mutilato. Tutti i pipistrelli del crepuscolo mi sfioravano carezzevoli dicendomi: — Prendi delle ali!... ed lo cominciava a battere con sforzo non so quali brandelli che mi sostenevano appena. Tuttavia provai a un tratto un’illusione rassicurante. Dieci volte battei lo funebri cornici col movimento di questa membrana quasi inanimata che mi trascinavo attorno come i piedi flessibili di un rettile che striscia sulla sabbia delle fontane; dieci volte io nel far le prove balzai a poco a poco nell’umida nebbia. Com’essa era cupa e diacciata! e come sono tristi i deserti delle tenebre! Ascesi infine sino all’altezza degli edifici più elevati e mi librai torno tomo allo zoccolo solitario, allo zoccolo che la mia bocca morente aveva appena sfiorato con un sorriso e un bacio d’addio. Gli spettatori erano spariti, i rumori cessati, gli astri nascosti, la luce svanita. L’urla era immobile a il cielo glauco, scolorito, freddo come latta ossidata. Non restava nulla di quanto aveva visto, di quanto aveva immaginato sulla terra, e l’anima mia spaventata di rivivere ancora, fuggiva con terrore una solitudine più immensa; una oscurità più profonda della solitudine e dell’oscurità del nulla. Ma quest’asilo ch’io cercava, non lo trovavo mai. M’innalzavo come la farfalla notturna che ha rotto allora allora le sue fasce misteriose per dispiegare il lusso inutile de’ suoi adornamenti di porpora, d’azzurro e d’oro. Se essa scorgeva da lungi la finestra del faggio che veglia, scrivendo alla luce d’una lampada di poco valore, o quella d’una sposa novella il cui marito si è trattenuto alla caccia, sale, cerca di posarsi, batto i vetri fremendo, s’allontana, ritorna, rotea, [p. 84 modifica]mormora e cade, coprendo il cristallo trasparente della polvere delle sue fragili ali. È così che io batteva le tristi ali che la morte m’aveva dato, le volte d’un cielo di bronzo che non mi rispondeva che con un sordo rimbombo, ed io ridiscendevo, librandomi torno torno allo zoccolo solitario, allo zoccolo che la mia bocca morente aveva sfiorato con un sorriso o un bacio d’addio. Lo zoccolo non era più vuoto. Un altr’uomo aveva allora allora appoggiato la testa rovesciata indietro, e il suo collo mostrava a’ miei occhi la traccia della ferita, la cicatrice triangolare di ferro di lancia a me diretta e che Polemone m’aveva rapito all’assedio di Corinto. I suoi capelli ondeggianti svolgono le loro anella dorate intorno al ceppo sanguinoso; ma Palemone tranquillo e colle pupille chiuse pareva dormire un sonno felice. Qualche sorriso, che non era quello del terrore volava sulle sue labbra aperte e chiedeva nuovi canti a Mirteo e nuove carezze a Telaria. All’apparir del pallido giorno che cominciava a spandersi nella cinta del mio palazzo, lo riconobbi dalle forme ancora un po’ indecise le colonne e i vestiboli tra cui avevo visto formarsi durante la notte le danze funebri degli spiriti malvagi. Cercai Mirteo; ma ella aveva abbandonata la sua arpa e immobile fra Telaira e Teia fissava uno sguardo triste e crudele sul guerriero addormentato. A un tratto Meroe si slanciò in mezzo ad esse, l’aspide d’oro ch’ella aveva staccato dal suo braccio fischiava strisciando sotto la volta; il rombo risuonante girava e ingrandiva nell’aria; Smarra invitato per la partenza dei sogni del mattino, veniva a reclamarne la ricompensa promessa dalla regina dei terrori notturni e palpitava vicino a lei di orrendo amore, facendo mormorar le sue ali con tanta rapidità che esse non avrebbero oscurata colla menoma nuvola la trasparenza dell’aria. — Teia, Telaria e Mirteo ballavano scarmigliate, gettando urli di gioia. Vicino a me orridi fanciulli dai capelli bianchi, la fronte rugosa, l’occhio spento si divertivano a incatenarmi sul mio letto colle più fragili reticine del ragno, che lanci il suo perfido filo negli spigoli dei muri contigui per sorprendervi una povera farfalla smarrita. Alcuni raccoglievano questi fili di un bianco serico, i cui fiocchi leggieri sfuggono a’ fusi miracolosi delle fate e le lasciavano cadere con tutto il peso d’una catena di piombo sulle mie membra trafitte dal dolore.

— Alzati!... mi dicevano con risa insolenti e mi squarciavano il seno oppresso, percuotendolo con un fuscello di paglia, rotto a mo’ di coreggiato, da essi rubato dal covone di una spigolatrice. Non ostante io tentava di sbarazzare dai fili fragili che le imprigionavano le mie mani formidabili al nemico, il peso delle quali s’era fatto [p. 85 modifica]spesso sentire ai Tessali nei giuochi crudeli del cesto e del pugilato; e le mie formidabili mani, le mie mani use a sollevare una pesante manopola di ferro che dà la morte, ammollivano sul petto disarmato d’un fantastico nano, come la spugna sbattuta dalla tempesta ai piedi d’un vecchio scoglio che il mare fin dal cominciar de’ secoli percuote senza smuoverlo. Cosi sparisce senza lasciar traccia prima ancora di sfiorare Tostacelo a cui l’approssima un soffio geloso, questo globo di mille colori, giuoco abbagliante e fuggitivo dei fanciulli.

La cicatrice di Polemone versava del sangue e Meroe ebbra di voluttà, alzava, alzava al disopra dell’avido gruppo delle sue compagne il cuore squarciato del soldato che aveva strappato dal suo petto. Ella ne rifiutava, ne disputava i brani alle figlie di Larissa assetate di sangue. Smarra proteggeva col suo rapido volo e co’ suoi fischi minacciosi la spaventevole conquista della regina dei terrori notturni. A mala pena accarezzava egli stesso coll’estremità della proboscide, la cui lunga spirale si svolgeva come una molla, il cuore sanguinante di Polemone per ingannar un momento l’impazienza della sua sete; e Meroe, la bella Meroe sorrideva alla vigilanza e all’amore di lui.

I legami che mi ritenevano avevano ceduto alla fine; e caddi ritto, svegliato, a piè del letto di Polemone, mentre lungi da me fuggivano i demoni e tutte le streghe e tutte le illusioni della notte. Il mio palazzo stesso, le giovani schiave che ne facevano l’ornamento, fortuna passeggiera dei sogni, avevano fatto posto alla tenda d’un guerriero ferito sotto lo mura di Corinto e al corteggio funebre degli ufficiali della morte. I funebri ceri cominciavano ad impallidire davanti ai raggi del sole nascente; e i canti del dolore cominciavano a risuonare sotto le volte sotterranee della tomba. E Polemone... o disperazione! la mia mano tremante domandava invano un debole sollevamento al suo petto. Il suo cuore non batteva più. — Il suo seno era vuoto.

Note

  1. Vengono adunque tormentati e pagano il fio delle antiche ingiurie; altri inani sono lasciati sospesi in Italia de’ venti; altri scontano il misfatto orribile sotto il vasto mare, oppure vengono abbruciati.