Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
mormora e cade, coprendo il cristallo trasparente della polvere delle sue fragili ali. È così che io batteva le tristi ali che la morte m’aveva dato, le volte d’un cielo di bronzo che non mi rispondeva che con un sordo rimbombo, ed io ridiscendevo, librandomi torno torno allo zoccolo solitario, allo zoccolo che la mia bocca morente aveva sfiorato con un sorriso o un bacio d’addio. Lo zoccolo non era più vuoto. Un altr’uomo aveva allora allora appoggiato la testa rovesciata indietro, e il suo collo mostrava a’ miei occhi la traccia della ferita, la cicatrice triangolare di ferro di lancia a me diretta e che Polemone m’aveva rapito all’assedio di Corinto. I suoi capelli ondeggianti svolgono le loro anella dorate intorno al ceppo sanguinoso; ma Palemone tranquillo e colle pupille chiuse pareva dormire un sonno felice. Qualche sorriso, che non era quello del terrore volava sulle sue labbra aperte e chiedeva nuovi canti a Mirteo e nuove carezze a Telaria. All’apparir del pallido giorno che cominciava a spandersi nella cinta del mio palazzo, lo riconobbi dalle forme ancora un po’ indecise le colonne e i vestiboli tra cui avevo visto formarsi durante la notte le danze funebri degli spiriti malvagi. Cercai Mirteo; ma ella aveva abbandonata la sua arpa e immobile fra Telaira e Teia fissava uno sguardo triste e crudele sul guerriero addormentato. A un tratto Meroe si slanciò in mezzo ad esse, l’aspide d’oro ch’ella aveva staccato dal suo braccio fischiava strisciando sotto la volta; il rombo risuonante girava e ingrandiva nell’aria; Smarra invitato per la partenza dei sogni del mattino, veniva a reclamarne la ricompensa promessa dalla regina dei terrori notturni e palpitava vicino a lei di orrendo amore, facendo mormorar le sue ali con tanta rapidità che esse non avrebbero oscurata colla menoma nuvola la trasparenza dell’aria. — Teia, Telaria e Mirteo ballavano scarmigliate, gettando urli di gioia. Vicino a me orridi fanciulli dai capelli bianchi, la fronte rugosa, l’occhio spento si divertivano a incatenarmi sul mio letto colle più fragili reticine del ragno, che lanci il suo perfido filo negli spigoli dei muri contigui per sorprendervi una povera farfalla smarrita. Alcuni raccoglievano questi fili di un bianco serico, i cui fiocchi leggieri sfuggono a’ fusi miracolosi delle fate e le lasciavano cadere con tutto il peso d’una catena di piombo sulle mie membra trafitte dal dolore.
— Alzati!... mi dicevano con risa insolenti e mi squarciavano il seno oppresso, percuotendolo con un fuscello di paglia, rotto a mo’ di coreggiato, da essi rubato dal covone di una spigolatrice. Non ostante io tentava di sbarazzare dai fili fragili che le imprigionavano le mie mani formidabili al nemico, il peso delle quali s’era fatto