Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo XXVIII
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A Parigi ed a Londra
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XXVIII.
A PARIGI ED A LONDRA.
Lasciai Firenze per Parigi nella primavera del 1862, portando con me il mio quadro delle «Donne che imbarcano legna a Porto d’Anzio» ed una scelta dei miei innumerevoli studi dal vero.
La pittura francese, a quell’epoca, era nel pieno e glorioso suo sviluppo.
La scuola neoclassica, che avea fondato Luigi David per esaltare, all’epoca della Rivoluzione, la virtù e l’eroismo dell’antica Roma, avea avuto nell’epopea napoleonica il suo apogeo; ed era andata gradatamente decadendo per poi trasformarsi nelle opere, in specie, di Gros e di Géricault, che aprirono la via all’arte romantica ch’ebbe con Delacroix il suo splendore e che si affinò con Delaroche. Di fronte a questa pittura di inspirazione romantica e di soggetto, quasi sempre, storico era andata sempre più affermandosi e trovavasi, allora, assai prossima al non più discusso suo trionfo la scuola di paese del plein air, nella quale tra gli altri allora eccellevano: Corot, D’Aubigny, Rousseau, Français.
L’ammissione alla maggior Mostra d’Arte annuale di Parigi che suol chiamarsi «Salon», allora più che adesso, veniva considerata come ambìto riconoscimento del valore di un’artista, ed il giurì di ammissione era composto da fini conoscitori, sia artisti che critici d’arte. Fra questi ultimi primeggiavano in quell’epoca di splendore per l’arte e per la vita della Francia del Secondo Impero, Théophile Gautier, Charles Baudelaire ed Edouard Bertin. Il mio quadro delle «Donne che imbarcano Nino Costa. Alla fonte. legna a Porto d’Anzio» (questo il titolo col quale io presentai l’opera mia) venne ammesso senza contrasto da una commissione di giudici non corrivi. Più ancora, esposto venne subito molto favorevolmente giudicato dai maggiori artisti francesi, fra i quali ricordo con molto compiacimento Corot, Troyon, Gleyre, Décamps, Ricard, Hébert. I quali se lodarono l’opera furono, altresì, larghi delle più cordiali e fratellevoli accoglienze all’artista. Veramente, grazie a questi grandi pittori, io non mi accorsi che ero a Parigi uno straniero. Il ricordar ora, che sono da allora trascorsi più che trent’anni, l’amicizia che da quelli mi venne con tanta pronta spontaneità concessa, tuttor mi commuove; e mi è grato qui menzionarla, perchè se con quelle accoglienze gli eminenti artisti onoravano me, non meno essi col mostrarsi sì generosi facevano onore a se stessi.
Io non mi accontentai solo di espor l’arte mia al giudizio del pubblico nella mostra officiale del «Salon»; ma volli esporla, pure, tra le opere degli artisti di avanguardia. Ai «Salon des Refusès» esposi, perciò, un caratteristico mio «Studio di alberi di olivo» che ebbe la fortuna di trovarsi appeso tra la «Fanciulla in bianco» di Whistler ed un dipinto di Gleyre.
Anche questa mia tela assai piacque e trovò subito compratore. E più d’uno ne avrebbe avuto anche il maggior quadro delle «Donne», qualora io avessi consentito a separarmene.
Questo favore che l’arte mia e la mia persona aveano incontrato nel maggior centro artistico che a quell’epoca avesse il mondo, mi fecero ardito a mostrare la raccolta, che avevo portato meco, dei miei studi dal vero della Campagna Romana e della costa del mar di Toscana — studi che io ho sempre tenuto come il mio maggior tesoro — agli artisti eminenti ch’io dovea considerare, ormai, per miei eccellenti amici.
Questi conoscevano l’Arte Italiana per quello che ne aveano veduto nella Sezione Italiana della Esposizione Internazionale del 1855; e rimasero, perciò, assai sorpresi come da una inattesa rivelazione che in Italia si facesse un’arte da quella che aveano veduta tanto in tutto diversa, quale era la mia. Meissonier, che già avea raggiunto l’apice della propria fama, fece due lunghe visite alla mia collezione di studi. Corot, poi, fu molto colpito da una marina con una barca peschereccia, che era il primo studio di mare che io avessi fatto, da me dipinto a Porto d’Anzio nel 1852, notevole assai per la trasparente fluidità dell’acqua che ero riuscito a raggiungere; e volle questo comparar con un suo studio di mare. E questo fece occasione di un ricevimento al suo atelier.
Tutto ciò assai mi lusingava. E non mancai al ritrovo, stabilito allo scopo, in un pomeriggio di domenica, all’atelier di Carot. I due dipinti furono messi su cavalletti vicini, ma piazzati in modo che non si nocessero l’uno l’altro ed in pari condizione di luce. Nello studio, con molti artisti erano gentili e graziose signore, che, galantemente, quelli voller facessero anche da giudici. Corot faceva gli onori del suo studio con molto garbo e festevolezza ed infondeva negli ospiti il suo brio. Le signore con buon umore ed allegria dettero il lor responso, dichiarando che entrambe le marine erano ugualmente eccellenti. Quando il verdetto fu pronunciato, Corot con effusione mi abbracciò alla presenza di tutti dicendomi con una certa solennità:
— Se Hobbema fosse qui in mezzo a noi, vi avrebbe abbracciato per la vostra valentia; ed io mi permetto di abbracciarvi in sua vece in nome degli artisti francesi.
Grande animo come e quanto grande artista, Corot avea certamente immaginato questa gentile maniera di far ‘sapere nel mondo artistico in quanta considerazione egli tenesse il confratello italiano e la pittura di lui.
Dopo questa specie di «consacrazione» di cui Corot volle, con tanta gentilezza, farmi oggetto, si stabilirono tra lui e me relazioni veramente fraterne; e, per tutto il tempo che io rimasi in Parigi, egli volle che avessi una chiave del suo studio, affinchè potessi, a mio piacimento, servirmene per lavorarvi come per studiarvi i suoi propri studi dal vero. Di frequente ed a lungo amava, pure, Corot di trattenersi meco a parlare di pittura; ed io assai godeva nel sentirlo esprimere i suoi principî. Egli mi ammoniva di non essere, dipingendo, troppo sincero. E mi aggiungeva:
— Bisogna esagerare i valori; nel vero due cose non sono mai esattamente uguali. Quando ne vedo due simili, dico che il buon Dio si è sbagliato, e ad una delle due aggiungo io qualcosa.
Un altro dei consigli di Corot che io ricordo, era:
«Quando voi dipingete alberi, fateli in modo che gli uccelli vi possan svolazzar dentro e farvi i loro nidi».
Tutto il favore di tali ottimi artisti per i miei lavori, mi confermava ch’io in arte mi ero messo su di una buona strada; ed assai coraggio mi infuse di perseverarvi, di continuare nella lotta intrapresa nel mio paese per il rinnovamento dell’Arte Italiana.
Oltre che Corot, in quei mesi della mia permanenza a Parigi, assai amichevole io ebbi il pittore Troyon, il quale avea avuto la gloria di essere tra i primi di quei pittori i quali, tra il 1832 ed il 1838, si ribellarono alla fredda e convenzionale arte ch’era sopravvissuta al Primo Impero, riconducendo l’Arte Francese a nuova e gloriosa vita. 1 suoi studi di animali e di paese rimarranno degno monumento di questo nobile artista.
Egli allegramente mi intratteneva sulla miseria che avea dovuto attraversare in questa tenace lotta di tanti anni — cui già ho di sopra accennato — poichè fino alla età di quarantaquattro anni non era riuscìto a fare accogliere nemmeno un solo dei suoi quadri a tutte le esposizioni.
Dècamps fu altro degli artisti francesi che più allora mi si mostrassero amici. Egli era un forte pittore di paesaggi orientali e di quadri così detti «di genere», che eseguiva con maniera originale e larga. Egli meco si doleva che ormai doveasi considerare realmente finita l’epoca delle pitture di cavalletto; per questa ragione egli molto avrebbe voluto darsi a grandi lavori decorativi ed era assai desideroso di ottenere dal Governo commissione di vaste decorazioni murali. Infatti egli, a tal fine, avea impreso ad illustrare la storia di Sansone in una serie di poderosi disegni che erano prova della forza e della capacità dell’arte sua. Ma, ciò malgrado, le commissioni governative da lui tanto desiderate non arrivarono.
Questo mio primo soggiorno in Parigi, in quel felice momento dell’Arte Francese, segnava un’epoca per la mia vita artistica. lo avea sempre, fino da giovanissimo, sentito il mio avvenire; ed ero sempre andato avanti senza dubitare di me, ciò che assai mi avea sostenuto nella mia diuturna fatica. Ma allora ebbi la prova più certa che io non m’ero sbagliato nel giudicare di me e della mia produzione, cosicchè la mia coscienza artistica dai lusinghieri contatti con i maggiori uomini dell’Arte Francese usciva fortificata. Non già l’indirizzo e la tecnica della mia pittura ne erano mutate o modificate. L’uno e l’altra aveano formato una mia- arte personale, troppo già matura e determinata perchè potesse sentire, ormai, influenza di sorta.
Tanto gradita ed allettante i miei nuovi amici francesi mi aveano resa la dimora a Parigi, che mi ci ero trattenuto molto più tempo di quello che io avea previsto e stabilito. Così avevo lasciato passare il tempo in cui per generale consuetudine, si trovano in Londra tutte le persone più notevoli; quella che gli Inglesi chiamano Season già era finita.
Ma questo non mi fece rinunciare ad andarmene, dopo Parigi, come avea stabilito prima di partire da Firenze, anche a Londra. Se questa andata nella capitale britannica era diventata ormai inutile per gli scopi artistici che me l’avean fatta decidere, colà io ero, però, ugualmente attratto dalle ragioni del sentimento e dell’amicizia. Io da alcuni anni non vedeva i miei carissimi Federico Leighton e Giorgio Mason; ed il primo di questi, pure, calorosamente mi invitava a raggiungerlo. Andai, dunque, a Londra dove Leighton mi accolse a braccia aperte.
Mason non potei vedere perchè egli, che avea ormai moglie e figliuoli, viveva in una lontana campagna. Leighton mi fece conoscere il digià illustre G. F. Watts e Burne Jones, le opere del quale fino da allora avean cominciato ad interessare il pubblico. Ma questa mia prima dimora in Londra, malgrado le insistenze di Leighton per trattenermi, non durò molto. Le nebbie londinesi erano per me una novità punto piacevole, che mi faceano quasi spasimare per il desiderio di rivedermi su la testa il nostro cielo italiano. E prima della fin dell’anno io ero di nuovo a Firenze.