Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo XXV
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L'indirizzo dei Romani contro la politica del governo papale
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XXV.
L'INDIRIZZO DEI ROMANI CONTRO LA POLITICA
DEL GOVERNO PAPALE (1857).
Dopo ottenuta la conversione di Giuseppe Checchetelli e dei vari gruppi dei liberali da Mazzini a Re Vittorio, per me, uomo d’azione, c’era ben poco da fare. D’altronde io ho sempre sopratutto amato l’Arte, ricercando il vero e combattendo per questo contro tutto quanto v’era di falso e di convenzionale.
Ma nel 1855, allorquando il Piemonte partecipava con le maggiori e più civili potenze di Europa alla guerra di Crimea, noi Romani sperammo che il Piemonte ne avrebbe profittato per protestare contro le umiliazioni che si imponevano all’Italia contro il mal governo del Papa. Esultammo, quindi, allorquando il genio di Cavour facea nel Congresso di Parigi altamente sentire che l’Italia era tuttora viva.
Il richiamo dell’Ambasciatore di Francia conte di Rayneval mise all’erta il Governo Papale, che già non più tanto fidava nella Francia imperiale. E lo induceva a tentare un fatto che fosse prova dell’essere esso bene accetto alle popolazioni dello Stato. Fu questo il viaggio di Sua Santità nelle Legazioni.
Venne questo viaggio disposto col maggior apparato di fasto della Corte Romana. Sperandosi, con ciò, che le popolazioni abbacinate dai cortei con i sontuosi costumi della grande epoca papale, e traendo profitto dalla confusione che generava il fatto della duplice qualità di Capo religioso e di Sovrano temporale del Sommo Pontefice, molto lo acclamassero. E per acclamare lo acclamarono, da principio, perfino a Bologna. Però, mentre che diverse città presentavano al Papa Re indirizzi chiedendo amnistie, governo rappresentativo e migliore amministrazione, mentre a ciò lo confortavano amici personali come Pasolini ed altri, esso dalla loggia benediva le truppe austriache di occupazione. Il popolo, allora, che pure era là per acclamarlo, nauseato in silenzio sgombrava la piazza.
Al ritorno a Roma, da Bologna, Pio IX avea assai ghiaccie accoglienze dai Romani. Ogni speranza era caduta.
Ad onta di ciò, in Roma, sentimmo il dovere di non mancar di fare anche noi il nostro indirizzo. Questo, comunque, avrebbe mantenuta viva l’agitazione liberale e nazionale; ed avrebbe distrutto il tentativo del Governo nella ricerca della prova di avere le popolazioni propizie; come, pure, da quanto si chiedeva al Sovrano Pontefice sarebber emerse tutte le deficienze del suo regime e tutte le molteplici ragioni di malcontento dei cittadini.
Perchè l’indirizzo potesse essere sottoscritto da molti Romani, e perchè lo si voleva presentare al Papa Re per il tramite del Municipio, venne contenuto in moderatissimi termini.
Ecco l’indirizzo:
- «All’Eccellentissimo Municipio di Roma,
- «Eccellentissimi Signori,
«Il viaggio del Sommo Pontefice nelle Provincie ha dato occasione ai cittadini delle più cospicue città dello Stato di fargli porgere, per mezzo delle Magistrature Municipali, petizioni scritte e firmate da chiedenti migliorie e nella Legislazione e nell’Amministrazione del Paese.
«Questo esempio di civile franchezza e moderazione intendono i qui sottoscritti cittadini di Roma imitare.
«Che le condizioni dello Stato Romano, da lungo tempo non prospere, sieno ora più che mai tristi, non può negarsi se non chiudendo gli occhi sul vero; perocchè da parecchi anni siasi, di fatto, perduta l’indipendenza dello Stato col perpetuarsi degli interventi e, mentre furono scontentati i popoli per cresciuti aggravi e rigori, d’altra parte e l’Amministrazione e la Legislazione e la prosperità materiale dello Stato non fecero che piccolissimi passi, se si considera il grande intervallo di cui siam lontani dalle più civili nazioni.
«Non è qui il luogo di proporre i sistemi di ordinamento politico. Sono desti i sospetti e vivi i rancori che impedirebbero un netto giudizio su tali proposte; ma vi sono pure bisogni e desiderii tanto universalmente sentiti ed onesti che possono, senza velo, esporsi; e che, quando giungano al trono del Pontefice, quasi non può dubitarsi non vengano ascoltati.
«Se il Municipio chiederà al Pontefice che un’amnistia consoli le numerose famiglie degli esuli e dei prigionieri per causa politica; che lo Stato venga liberato dal peso e dal disdoro delle occupazioni francese ed austriaca ordinando, in pari tempo, un esercito del paese, sufficiente e non inferiore per istituzioni militari ai buoni d’Europa; se chiederà che venga finalmente promulgato un Codice, che dalla procedura civile si tolgano le lungaggini e le eccessive spese e dalle criminali le brutte anomalie dei Tribunali eccezionali e le consuetudini di lentezza; se chiederà le imposizioni abbiano un più equo riparto, sicchè sieno veramente secondo ricchezza e che vengano d’altronde alleviate quelle che troppo pesano sui poveri: se chiederà che, in pari tempo, venga dato impulso ed aiuto al commercio, all’industria e alla agricoltura e questo con l’abbassare i diritti doganali sulle materie prime, col render libero lo scambio dei cereali, col togliere l’impaccio dei passaporti da Provincia a Provincia dello Stato; con gli Istituti di Credito, con le nuove vie, con le Scuole Tecniche per i commercianti e per gli artefici, con l’adozione del sistema metrico di pesi e misure.
«Se queste ed altre simili cose chiederà il Municipio di Roma, chi dubiterà che desso non abbia parlato secondo il voto di Roma soltanto, ma di tutto il Paese?
«I cittadini qui sottoscritti tengono per certo che di gravissimo momento sarebbe nei consigli del Principe una domanda solenne del Municipio Romano. Essi confidano pure che questo Municipio, chiamato a rappresentare nelle pompe il Popolo Romano, non ristarà, per qualsiasi riguardo, dall’esprimerne i voti.
«Roma, 1.° Settembre 1857.»
(firme)
Quantunque così mite, i preti di Vaticano, quando di questo indirizzo seppero il contenuto, divennero furibondi. Tutta la polizia fu messa in moto per poterne sorprendere qualche copia con le firme. Fece perquisizioni ed una delle più feroci e disoneste venne fatta in casa del maestro di musica Borna che abitava al Campidoglio. Giunsero perfino a denudare la moglie e le figliuole.
Con tutto ciò si raccolsero molte migliaia di firme, benchè la fiacca aristocrazia romana avversasse questo indirizzo. Badiamo bene che la nobiltà aveva una grande influenza su la popolazione, perchè padrona della maggior parte della terra dei latifondi. Per cui dipendeva da essa tutta la classe degli affittuari e tutta la gran folla di persone che svolgono la loro attività intorno alla proprietà fondiaria e ne campano. Non era più la nobiltà, e molta parte di essa mai lo era stata, che imbrandiva spada ed indossava corazza. Ma era gente tremebonda dinanzi ad un nicchio da prete. D’altra parte, data la posizione di privilegio da essa goduta, alle novità mancava nel proprio interesse un forte incentivo ed a desiderar mutamenti.
Era difficile di trovar persone che presentassero l’indirizzo al capo del Municipio, il quale era, a quei giorni, Filippo Antonelli fratello del Cardinale Segretario di Stato.
Questo incarico della presentazione fu assunto da quattro Romani, i quali furono: l’ingegner Leonardi, Vincenzo Tittoni, David Silvagni ed io, Giovanni Costa.
Nino Costa. Presso i Cappuccini di Albano. Nino Costa. Studio dal vero.
L’Antonelli fu irreperibile, e non involontariamente, cosicchè fummo, dopo non pochi tentativi, costretti a consegnare il famoso indirizzo al Segretario Municipale signor Vannutelli. Il quale solennemente promise di presentarlo alla Civica Magistratura.
In quel tempo io fui ricercato dalla Polizia. Vennero a cercar di me nella mia casa in Roma al palazzo Lepri, ora palazzo Silvestrelli, in via della Mercede.
Io mi trovavo in casa; ma nè mi presero, nè trovaron nulla di incriminabile o di sospetto nella lunga ed accurata perquisizione che fecero fra le cose mie.
Io avea, nel muro dietro il mio letto, una porta segreta. Da questa, per mezzo di una scala a pioli, che io avea allo scopo, si poteva salire nella soffitta. Da questa uscita segreta, prima che il mio domestico aprisse la porta di casa agli sbirri, io me la svignai, portando meco due sacche da notte piene colme delle cartucce che, anni prima, Alessandro Castellani aveva portate in casa mia. Una volta nella soffitta, tirata la scala a me, a mezzo di questa montai sul tetto e la scala di nuovo trassi a me. Dopo aver seminato le cartucce per i tetti principiai la mia notturna peregrinazione, montando e scendendo di tetto in tetto.
Arrivato più lontano che potei dal tetto di casa mia, scorsi luce uscir da un abbaino. Timidamente battei a questo ed esposi franco la persecuzione politica di cui ero oggetto ad una ragazzotta di servizio; la quale, intenerita, di buon cuore diede ospitalità a me, alla scala e alle due sacche.
Spensi il lume e felice notte.
Nella perquisizione gli sbirri mi portaron via una Sacra Bibbia, il Misogallo dell’Alfieri ed il protocollo della Repubblica Romana.
Non poco mi giovò, nel risparmiarmi le persecuzioni sbirresche, il fatto che, in base alle informazioni, resultavano in polizia tre diversi Giovanni Costa. Era uno quello di San Francesco a Ripa fratello di Antonio Costa, persona alla Santa Sede devota e ad essa grata, giovinotto bizzarro alquanto e basta, a cui si dovean riguardi; un altro era quello che avea casa in via della Mercede, persona assai sospetta e su cui bisognava tener gli occhi bene aperti; vi era, infine, un altro Giovanni Costa pittore paesista, che stava all’Ariccia tutto dedito all’arte sua, sempre in compagnia di stranieri, che non dava ragione di occuparsi dei fatti suoi.
Fu in quest’anno 1857, che venne a morte mia madre. Fra tutti di famiglia essa era stata la sola a non contrastare o mettere in ridicolo la mia passione per l’Arte. Essa mi avea esplicitamente approvato di essere io rimasto a combattere contro gli Austriaci nel ’48, dopo l’enciclica di Pio IX, quando tanti se ne andarono. Pur senza tenerezze, che non costumavano in casa nostra, essa mi amava ed io era ad essa attaccatissimo. Di essa io ammirava la generosità, la fermezza del carattere, l’austerità della vita, una donna veramente romana. Assiduo l’assistei nella sua estrema malattia; e, con animo commosso nel profondo, piangendo ne vegliai la salma.