Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo XXVI
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IL 1859.
Volontario nell'esercito di Vittorio Emanuele.
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XXVI.
IL 1859.
VOLONTARIO NELL'ESERCITO
DI VITTORIO EMANUELE.
La raccolta delle firme sotto il famoso indirizzo al Municipio Romano contro il malgoverno papale, alquanto rinfocolò l’avversione dei Romani contro di questo. Il quale, secondo il costume consueto alle tirannidi, si illudeva di poter spengere il troppo giustificato malcontento perseguitando con le vessazioni, gli imprigionamenti, gli esilî, i capi ed i più caldi ed attivi gregari dell’ormai non più domabile movimento nazionale.
Così Giuseppe Checchetelli — il quale, da quando io lo aveva strappato dal suo rifugio di Ciciliano, era rimasto in Roma, apparentemente dedito alle pacifiche cure della biblioteca del duca Sforza Cesarini, ma in realtà tutto intento a mantenere ed allargare tra i Romani la fede in re Vittorio, — non potè più reggere in Roma nel suo delicato posto di capo del movimento nazionale. Ed emigrò a Firenze. Più tardi, annesse che furono le Marche, Tolentino lo elesse suo rappresentante al primo Parlamento Nazionale ed egli si trasferì a Torino. Ma, sì dall’una che dall’altra città, sempre egli ebbe in sue mani le fila del movimento nazionale di Roma.
Quanto a me, ancora una volta ero riuscito a farmi dimenticare. Dopo essere, colla mia divertente fuga su per i tetti, scivolato di tra le dita agli sbirri papalini, mi mantenni qualche tempo in cauta e guardinga latitanza. Quando credetti calmato ogni rumore, che la presentazione dell’indirizzo avea suscitato tra gli strumenti del Governo Papalino, cheto cheto me ne tornai all’Ariccia. E quivi fui lasciato in pace. E, veramente, la Polizia Pontificia non avrebbe avuto alcun giusto motivo di occuparsi di me e delle cose mie. Ben di rado mi si vedeva in Roma; ogni mia attività era volta alla pittura.
Con l’anno 1859 tornarono a rinverdirsi tutte le speranze degli Italiani. Il discorso di re Vittorio a capo d’anno in cui si diceva «non insensibile al grido di dolore....», le parole colle quali, nella stessa occasione, l’Imperatore dei Francesi si era rivolto all’ambasciatore d’Austria, diceano abbastanza. D’altra parte, Checchetelli e tanti altri nostri fuorusciti non mancavano di far certi del significato di quelle, mediante messaggi e stampati volanti, tutti i liberali degli Stati Pontifici.
Era la guerra!...
Era la gran riscossa dopo che le speranze italiane, dieci anni innanzi, eran cadute infrante su i campi di Novara. Ricominciava la lotta contro la storica nemica delle libertà italiane. Ma con ben altri auspici di dieci anni prima!...
Giovine Re ed ardimentoso e deciso, con al fianco un Primo Ministro accorto e sagace; e, sopratutto, gli Italiani dalla sconfitta fatti più savi e concordi e con l’ausilio delle alleate armi di Francia, ci facevano sicuri che la gran partita questa volta si sarebbe vinta.
Quanti di noi Romani avevamo orientato verso il Piemonte e Vittorio Emanuele gli animi dei nostri concittadini, avemmo allora molta ragione di compiacimento per la decisione presa, già da alcuni anni, di abbandonar Mazzini ed il suo programma repubblicano.
Riandando ora, a tanta distanza di tempo, gli avvenimenti del ’49 bisogna per forza riconoscere come non poco concorressero a farli precipitar rovinosi per gli Italiani Mazzini ed i suoi seguaci. Tante volte, dopo di allora, mi son domandato, fra l’altro, come Mazzini potesse sul serio pretendere che l’infelice Carlo Alberto accogliesse con fiducia i suoi incitamenti di condurre risolutamente ed a fondo la guerra contro lo straniero nel tempo stesso che egli, Mazzini, gli accendeva alle spalle la Repubblica, nè gli taceva, senza infingimenti, che l’incendio non avrebbe risparmiato il suo trono.
La guerra all’Austria era per me, anche, un poco come una rivincita personale. A Vicenza, con la Legione Romana, dieci anni prima, avevo io pure dovuto capitolare. Donde, anche per questo, una gran voglia di ritrovarmi in faccia agli Austriaci con le armi alla mano.
Avrei voluto che la nostra bella ed invitta Legione Romana avesse potuto combattere agli ordini e sotto la bandiera di Vittorio Emanuele. Quanto grande di questo fatto sarebbe stato, di fronte alle potenze di Europa, il significato...
Ma questo era un sogno!... Per seguire l’impulso mio proprio, avrei dovuto arruolarmi con Garibaldi nei Cacciatori delle Alpi. Ma io credetti meglio, e non pochi altri Romani come me lo credettero, di arruolarmi nell’Esercito del Re. Parve a me ed a quanti fecer come me, che ciò fosse in coerenza con quanto avevamo deciso anni prima; e che più significasse e confermasse la volontà dei Romani di diventare, nell’Italia unita, sudditi di Re Vittorio.
Per tutto ciò, tra il febbraio e il marzo del ’59, lasciai l’Ariccia e Roma ed andai ad arruolarmi nell’Esercito Regio.
La via più breve e comoda, per andar da Roma in Piemonte, era allora quella di mare. Questa scelsi ed andai a Civitavecchia ad imbarcarmi per Genova. Questa navigazione dovea avere influenza sulla mia vita e sullo svolgimento dell’arte mia. Perchè mi accadde di passar col piroscafo lungo l’estrema costa toscana, a settentrione, sul far del giorno. Era un’alba limpidissima, il sole già irradiava dietro i monti; ed a me, che ero sul ponte, per la prima volta apparvero in tutta la maestà della tanta lor bellezza di forma e di colore le superbe Apuane.
Queste montagne, più per ogni verso belle di quante mai ne abbia vedute, mi rimasero negli occhi per tutta la durata della campagna; e nell’animo il desiderio impaziente mi rimase di rivederle e di dipingerle.
Arrivato a Genova, senza indugiarmivi proseguii per Torino. Ma il mio arruolamento non fu già la cosa semplice e spedita che io credeva. Sia perchè io avea oltrepassata l’età stabilita per l’arruolamento volontario nell’Esercito, sia per altré ragioni, palesi od occulte, non mi si voleva ammettere in alcun reggimento. Mi sorprendeva, assieme, e mi stizziva che non si facesse alcun conto del mio passato di combattente e che punto si apprezzassero le alte ragioni che avean condotto me, romano, a combattere nelle schiere dell’Esercito di Vittorio Emanuele. Avrò sbagliato, ma allora ebbi l’impressione che questi, che io riteneva esser titoli favorevoli al mio arruolamento, fossero invece da quegli ufficiali tenuti per titoli contrari... E ciò, davvero, non accresceva il mio entusiasmo; ma non smontava la mia volontà di effettuare quanto io avea deciso: di combattere contro l’Austria sotto la bandiera di Vittorio Emanuele.
Finalmente, comprando col mio danaro un cavallo da un ufficiale, dopo tante pratiche vane, io riuscii ad essere arruolato nel reggimento Cavalleggeri di Aosta, che era uno dei più distinti e reputati della Cavalleria Piemontese.
Il cavallo comprato fu per me un assai fortunato acquisto. Era un vecchio cavallo militare che chiamavano «il Nonno», il quale conosceva a perfezione ogni movimento ed ogni manovra ed i relativi comandi e segnali di tromba. Per modo che, senza ch’io avessi a menomamente preoccuparmene, l’eccellente animale eseguiva da sè tutto quanto veniva comandato; facendomi fare, così, un’ottima figura di espertissimo cavalleggere. Ciò che, fortunatamente, di assai mi accorciò il periodo di istruzione.
Ciò non pertanto la vita che mi toccò di condurre fu assai diversa da quella che m’ero attesa e che avevo tanto desiderato. Io era andato per combattere ed invece mi trovai, più o meno, a far la vita di guarnigione da me grandemente detestata. Tutto quanto di meno uggioso mi trovai a dover fare furono lunghe marcie e contromarcie, ma lontano dal nemico, cosicchè mancava a queste manovre ogni poesia, ogni imprevisto, ogni rischio.
Nel reggimento militavano, volontari, giovani delle migliori famiglie d’Italia. Taluni anche ricchissimi, che nelle ore di libertà guidavano brillanti attacchi da cui s’eran fatti seguire nella lor vita militare. Eran bravi e simpatici giovani, i quali avean sentito il dovere di correre alle armi per la riscossa nazionale. Io era con essi nei migliori termini; ma era quello un ambiente troppo, per tanti aspetti, diverso da quello della Legione Romana del ’48 e della difesa di Roma dell’anno successivo. Anche le popolazioni, con le quali venivamo in contatto, non aveano nè il calore nè l’entusiasmo che nel ’48 avevamo trovato a Venezia, ad Ancona, a Ferrara, a Bologna specialmente.
D’altra parte i volontari eran guardati di traverso dagli ufficiali piemontesi, duri, impettiti e di scarsa mente tanto in alto che in basso; e li sottoponevano, con soddisfazione, severamente ai compiti più duri ed ai servizi più umili della vita del reggimento. Anche il mio caporale mi trattava più che duramente e pareva che ne godesse. Non mi risparmiava le fatiche più gravose; e mi comandava con le più volgari espressioni del suo orrendo dialetto. lo sopportava ogni cosa pazientemente; e mi pareva una ironia della sorte la diversità di quanto io era venuto a cercare in Piemonte con quanto vi avea trovato. Un giorno l’iracondo caporale mi apostrofò dicendomi:
— Cammina, toch de plandron! Manica de ramass!
Al che io, con affettata gentilezza, risposi con un discorsino ben girato per far comprendere a questo mio superiore come con me non fosse necessaria tale energia di espressione per avermi obbediente. Ma il caporale non capì quanto gli dissi o credette volessi corbellarlo e mi sgraccò in consegna. Avendolo, però, incontrato durante la inflittami consegna, lo invitai a bere. Egli si prese una solennissima sbornia, che i suoi compagni chiamavano ciucca; e da quella sera ce la intendemmo magnificamente.
Il mio reggimento mai si accostò, durante tutta la guerra, ai luoghi ove si combatteva. Ci aggirammo, del continuo, intorno a Torino. Il solo diversivo alla vita uggiosa che si menava erano non rare gite in questa capitale. Ma, a parte che la città era mediocremente interessante per me, tali gite non potevano affatto essermi di compenso al non trovarmi al fuoco.
Quante volte sentii il rammarico di non essere andato con Garibaldi, delle splendide gesta del quale ci giungevano le notizie!...
L’armistizio di Villafranca, che lasciava Venezia nelle mani dell’Austria, sopraggiunse ad aggiungere ben più amara delusione alle tante delusioni che mi eran toccate in quella campagna.
Se fino ad allora la vita del reggimento m’era assai poco piacevole, dopo Villafranca divenne per me addirittura tormentosa. Tanto ero io divenuto bramoso di riavere la mia libertà, che, non appena ottenuto il congedo, immediatamente scappai dalla caserma e da Pinerolo. E, pur di non trattenermivi un sol minuto di più, abbandonai il mio cavallo, il bravo «Nonno», nella stalla reggimentale a chi se lo volesse prendere.
E, via a Torino!...
Giovan Battista Corot. Autoritratto Giovanni Fattori