Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo XXIV
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D'estate nella Campagna romana
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XXIV.
D'ESTATE NELLA CAMPAGNA ROMANA.
L'ARTE ALLORA E DOPO.
Nella estate si andò a far degli studi nella Campagna Romana. Dirigemmo i nostri passi verso la tenuta del Coazzo per vedervi la battitura del grano.
Fu, con Mason e con me, certo Zäner. Ci trovammo in sito che della Campagna Romana avea tutto il carattere, quale mirabilmente si manifesta nella grande estate. La gran luce che scolora ed incenerisce il cielo e manda in fiamme la terra con le sue stoppie che sembrano ardere. A quel tempo non c’erano le macchine trebbiatrici. I grani stretti in mannelli erano accumulati in terra in un gran mucchio, che pareva un ara rotonda; che, con i raggi del sole e l’umidità che si sprigiona dalla terra, fumigava facendo tremolar l’aria e pareva ardere.
Dodici cavalle, guidate sei per sei da due uomini, montano sul grano in terra e sopra vi trottano in tondo fino a che il grano sia tutto trebbiato. Allora si raccoglie, si asporta la paglia e si rinnova il cumulo dei mannelli di grano da trebbiare.
In tutta la grande scena in pieno sole veran molti motivi da prendere. C’era, il padrone o «ministro, che, sotto un’aurea tettoia di foglie morte, sorvegliava la battitura. C’erano gli uomini, i quali, seminudi sopra un gran mucchio di grano trebbiato, ne empivano dei sacchi. Uomini, parimenti seminudi, caricavano i sacchi sui carri. Altri carri tirati da buoi giungevano carichi di altri mannelli di grano da trebbiare. Sotto altra tettoia di rami e foglie morte, v’eran delle ciociare che faceano un po’ di toilette, staccando sotto l’ombra portata sul cielo in scuro, tanto belle ed erette che nulla aveano da invidiare alle figure dipinte sui vasi greci ed etruschi.
Frattanto si formava, da una parte, la gran bica o pagliara della paglia battuta. Eravamo tutti muti ed ammirati dalla magnifica scena, quando si senti la voce di Zäner che rompendo il silenzio e l’incanto diceva a modo di precettore tedesco:
— Voi, Mason, fare questo, voi Costa, far quell’altro....
Ed io interruppi stizzito:
— Voi, Zäner, far quest’altro ed io, Costa, far quello che a me piacere.
E Mason a ridere....
La fine fu che nessuno fece nulla eccetto Zäner il quale, volendo correre appresso a tutto, nulla afferrò. Mason ed io, il giorno dopo, facemmo bozzetti di memoria della battitura del grano. E furono tra le cose meno male che noi abbiamo fatto. A me piaceva più il bozzetto di Mason che il mio ed a questo piaceva più il mio del suo; ma nessun di noi ha mai affrontato il quadro.
Con Mason avevamo, fin dal ’53, assieme stabilito certi nostri principii in Arte, di noi che ci compiacevamo dirci «Scuola Etrusca». I quali principii si sostanziavano in questo: Fare l’artista sol quando uno ama tanto l’Arte da non poter essere capace di far qualunque altra cosa al mondo. Se uno è pittore Nino Costa. La musica nel bosco. Nino Costa. Il toro bandito. prendere una superficie più bianca che sia possibile e mettervi sopra quel che vi manca per rappresentarvi il soggetto scelto. Dopo aver fatti i bozzetti della battitura del grano, dopo aver confrontato i risultati di Zäner con i nostri, stabilimmo ancora: Che il vero non dice nulla se non si è veduto attraverso il sentimento del pensiero.
Se taluno si senta scultore: odiare quella quantità di marmo che gli nasconde la forma.
Intorno al 1856 ritornò a Roma Federico Leighton con tutta l’anima sua volta a Leonardo da Vinci. Nell’inverno egli altro non fece se non alcune mezze figure ed alcune teste. Fece la «Nanna», bella figura greco-romana, fece «Stella» e fece «Giacinta». Eran questi lavori finissimi, fatti con arte semplice e con intensità di sentimento.
Ogni volta che Federico Leighton compariva in Italia, tutti si sentivano spinti dalla ricerca e dall’amor dell’Arte. Poichè dopo la comparsa della sua «Madonna di Cimabue» uno non vi era, tra i pittori storici e romantici, il quale non avesse in cuore Federico Leighton. Ed anche gli altri, tra i quali ero io, che proseguivano una ricerca semplice della natura, si sentivano illuminati da questo giovine prediletto da Dio.
Leighton, colto e perfettamente educato, era allora al giorno di tutto quanto in quel tempo in arte si facesse nel mondo civile. Egli di dodici anni già conosceva i primi uomini di Europa, letterati, scienziati, artisti. Di questa età era a Firenze, scolaro di Bezzuoli e lo chiamavano «l’inglesino». Egli tanto amava il suo maestro da crederlo, nella tanta gratitudine dell’animo suo, superiore ai «Michelangeloni» ed ai «Raffaelloni». Una tal cieca fede di un giovane nei suoi maestri può salvarlo, senza togliergli lo sviluppo suo individuale che naturalmente segue.
Leighton procedeva già in tanta sicurezza di sè, che ritengo fino da allora pensasse che sarebbe investito un giorno della presidenza della «Royal Academy» di Londra.
Ancor fanciullo egli tanto era amato dai propri condiscepoli di Firenze, che quando egli lasciò questa città essi corsero per un pezzo dietro la diligenza, salutandolo con «evviva l’Inglesino».
Fu nel 1856 che io vendetti il mio primo quadro e lo vendetti a Leighton. Questo quadro aveva per soggetto la barca con i pescatori dormienti alla sua ombra, che avea ospitato Mason e me sulla spiaggia di Tor Paterna.
In quel tempo si formò, in Roma, un gruppo di amici pittori cercatori di arte, ma ciascuno per la propria via. Erano in questo gruppo: Boecklin, David, Plocck, Mason, Benouville, Zaner, Lembach, Wilde e Coleman l’Inglese — c’era anche un pittore americano di questo nome — del quale, tanto Mason che io, riconoscevamo l’artistica paternità.
V’erano pure allora in Roma i paesisti romantici Franz Dreber e Castelli, contro i quali noi eravamo in combattimento.
Verso il 1853 ci affiatammo col Vertunni. Questi, sotto l’influenza di Franz Dreber fece la «Pia dei Tolomei». In seguito, influenzato da Filippo Palizzi, si volse alla ricerca di un’arte più semplice. Andò alla Torre di Astura, fece nelle macchie studi sui rapporti in natura, ma esagerati e volgari di fattura e di sentimento; comunque in una miglior via che per il passato. Fece una palude con animali bovini, nella quale ebbe Filippo Palizzi assai parte col consiglio e con la mano.
Vendette questo quadro a pochissimo prezzo a Dovizielli. Per parecchi lustri l’ho veduto nella vetrina di questo.
Io credo Vertunni essere stato il primo a rompere con l’antico costume di vita patriarcale degli artisti di Roma ed a metter sù la bottega di lusso per i Signori forestieri.
Egli stesso parlò a me in proposito. Bisognava, secondo lui, montare uno studio da sbalordire per acchiappare i grossi pesci stranieri che rimontavano il Tevere. E mi disse pure, il Vertunni, che non bisognava badar a far debiti; che, anzi, facendone si otteneva di interessare i creditori a procurare la vendita dei propri quadri.
Ciò ne dice come sia stato lui ad indicare agli artisti la via del sapiente intrigo e dell’insolente ciarlatanismo.
A dare idea del rispetto che il Vertunni avea per l’arte sua, dirò come egli tenesse nel proprio studio, pagandoli un tanto il giorno, giovani artisti di talento per abbozzargli i quadri e fargli copie che vendeva come roba sua. Dopo di lui si scaricò tutta la torbida e vorticosa fiumana napoletano-spagnola che ha portato via troppe zolle della vecchia buona terra romana.
Liberata nel ’70 Roma, questa gente, il cuor della quale mai una sola volta avea palpitato agli ideali della Patria e della Libertà, uscita fuori, come sorche da fogne romane in tempo di alluvione, ha detto: L’Italia è fatta noi ne saremo il genio.
Il pubblico di Roma non essendo, generalmente, educato all’Arte ed al buon gusto, quel tipo di artisti non poteva contrastare; gli uomini di governo, ignari e senza alcun senso d’arte, invece di ricercare e di incoraggiare l’arte sana e vera, hanno preferito la popolarità, timorosi da un lato della insolenza degli artisti intriganti e, dall’altro, giovandosi per accrescer se stessi del ciarlatanismo della cricca di quelli e dei loro banditori. E poichè Lamartine avea detto l’Italia terra dei morti, quei governanti han creduto di rivivere facendo ai morti far monumenti da artisti che mai non fur vivi. Ed han riempito i Ministeri di quadri di Vertunni e della sua troppo numerosa scuola.
Venne instituita una «Galleria Nazionale» sulle basi Sommaruga. Nella quale, fatte poche ed onorabili eccezioni, è rappresentato l’accattonaggio e l’intrigo. Volendo leggere in questo libro risulta la rivelazione di come venne fatta l’Italia: per insperata fortuna, cioè, per simpatia dei più eletti spiriti del mondo civile, grati a questa vecchia terra culla e maestra ai popoli dell’umana civiltà; ma per virtù di ben pochi fra gli Italiani.
Nel 1856 Giorgio Mason lasciò Roma e l’Italia, per andare a stabilirsi in Inghilterra e sposarvi una signorina, alla quale si era da varii anni promesso.
Io rimasi fin al 1859 all’Ariccia, che lasciai solo per andare in Piemonte ad arruolarmi sotto re Vittorio in Aosta Cavalleria, come racconterò.
Rimanendo all’Ariccia, d’onde io venivo per saltuarie dimore in Roma ove avea conservato e casa e studio, vi compii studi per vari quadri. Fra i quali «Danza dei Carbonari», «Donne alla fontana»; i quali due quadri ho tuttora per le mani senza sentirmene stanco dopo quaranta anni. Ed è naturale che così avvenga quando l’artista ha ricevuto direttamente l’inspirazione dell’eterno vero.
Mutano le mode, i capricci cadono, ma l’amor del vero è inestinguibile fiamma. Nè la ricerca dei mezzi con cui spiegarsi può affievolire il sacro fuoco. La ricchezza dei mezzi che oggi la scienza offre all’Arte, la facilità di fermare per mezzo della fotografia la natura in movimento, ha raffreddato gli animi, ha soffocato l’ideale. Siamo nel caso di quei grandi ricconi i quali, non avendo più nulla da desiderare, non avvertono più la luce che, palpitando, irradia il cielo prima del sorger del sole; non sentono più il gusto della vita.