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prendere una superficie più bianca che sia possibile e mettervi sopra quel che vi manca per rappresentarvi il soggetto scelto. Dopo aver fatti i bozzetti della battitura del grano, dopo aver confrontato i risultati di Zäner con i nostri, stabilimmo ancora: Che il vero non dice nulla se non si è veduto attraverso il sentimento del pensiero.

Se taluno si senta scultore: odiare quella quantità di marmo che gli nasconde la forma.


Intorno al 1856 ritornò a Roma Federico Leighton con tutta l’anima sua volta a Leonardo da Vinci. Nell’inverno egli altro non fece se non alcune mezze figure ed alcune teste. Fece la «Nanna», bella figura greco-romana, fece «Stella» e fece «Giacinta». Eran questi lavori finissimi, fatti con arte semplice e con intensità di sentimento.

Ogni volta che Federico Leighton compariva in Italia, tutti si sentivano spinti dalla ricerca e dall’amor dell’Arte. Poichè dopo la comparsa della sua «Madonna di Cimabue» uno non vi era, tra i pittori storici e romantici, il quale non avesse in cuore Federico Leighton. Ed anche gli altri, tra i quali ero io, che proseguivano una ricerca semplice della natura, si sentivano illuminati da questo giovine prediletto da Dio.


Leighton, colto e perfettamente educato, era allora al giorno di tutto quanto in quel tempo in arte si facesse nel mondo civile. Egli di dodici anni già conosceva i primi uomini di Europa, letterati, scienziati, artisti. Di questa età era a Firenze, scolaro di Bezzuoli e lo chiamavano «l’inglesino». Egli tanto amava il suo maestro da crederlo, nella tanta gratitudine dell’animo suo, superiore ai «Michelangeloni» ed ai «Raffaelloni». Una tal cieca fede di un giovane nei suoi maestri può salvarlo, senza togliergli lo sviluppo suo individuale che naturalmente segue.

Leighton procedeva già in tanta sicurezza di sè, che ritengo fino da allora pensasse che sarebbe investito un giorno della presidenza della «Royal Academy» di Londra.