Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo XXII
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Ancora all'Ariccia
Artisti eroi
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XXII.
ANCORA ALL'ARICCIA.
ARTISTI EROI
Giorgio Mason, il quale proseguiva con commovente amore i suoi geniali studi dal vero, era spesso con me alla Locanda Martorelli all’Ariccia.
In quegli anni cominciò a frequentare quasi annualmente Roma certo Carterwright, giovine inglese nobile e ricco, che poi divenne, ed è tuttora, costante amico dell’Italia e mio. Un anno questi prese in fitto la villa Sforza Cesarini a Genzano, andò ad abitarla con la giovane sposa e vi invitò Giorgio Mason che egli aveva di fresco conosciuto. Mason stette qualche tempo in quella specie di paradiso; stando io all’Ariccia di frequente ci vedevamo accompagnandoci, al solito, per lavorar dal vero.
Da Villa Sforza Cesarini i novelli amici assieme partirono per un giro nelle prossime regioni; il quale fu come la prima importante «campagna artistica» di quello squisitissimo pittore che fu Giorgio Mason.
Da Genzano essi mossero per Tivoli. Di qui furono a Vicovaro, dove per poco non si troncarono il collo per il ribaltamento del carrettino in cui viaggiavano. Quindi a Subiaco donde, in una notte di plenilunio, furono a Rio Freddo. Di là penetrarono nel Cicolano fermandosi alla Petrella, ove Mason fece un delizioso quadretto che Carterwright possiede tuttora. Andarono, poi, ad Aquila; e di qui per Tagliacozzo furono a Sora e, quindi, per Attina a Monte Cassino, ove ebbero liete accoglienze dal padre Luigi Tosti. Per Arpino, Alatri, Segni, Norba e Ninfa tornarono a Genzano.
Io li vidi appena tornati. La sensibilissima anima di artista di Giorgio Mason era tuttora nel fremito delle profonde emozioni da esso provate in questo giro. Mi raccontava Carterwright che Mason fu, durante questo, in continuo rapimento dinanzi agli spettacoli naturali che gli si presentavano. Nelle montagne, in prossimità di Attina, avendo incontrato dei greggi di pecore con i pecorai che rompevano l’alto silenzio di quelle col lamentoso suono delle lor zampogne, l’emozione di Giorgio giungeva fino al pianto.
Questa campagna artistica, nel cuor dell’Italia, ebbe la maggior influenza su la formazione di uno dei pittori più delicati e profondi, che annoveri l’Arte Britannica contemporanea.
Mason, animato dal rinnovellato fervore per l’Arte, continuò con me l’assiduo suo lavoro.
Un giorno, assieme a Mason, stavo, sotto la valle dell’Arriccia, dipingendo delle roccie al calar del sole in una delle splendide giornate invernali italiane. Passarono due contadini. Ed uno chiese all’altro ammiccando noi:
— Ma questi accidenti o che nun ce l’hanno li sassi ar paesaccio loro?
— Li sassi ce l’hanno, ma nun cianno er sole. — Rispondeva l’altro.
Si ha da dire come i pittori, in quei tempi, erano nelle campagne creduti tutti o matti od Inglesi.
Un altro giorno, mentre stavo dipingendo l’apertura d’una grotta, la quale appariva come una grande tomba preistorica, vidi uscir fuora da quella un braccio che si distendeva ed il rumore di uno sbadiglio; dopo apparve una testa molto capelluta e finalmente il corpo di un uomo. Era Brugnoletta, che nel mezzo di una giornata di gennaio, andava a sradicare un cavolo per farsi il suo pranzo, sul limitare della sua caverna. Era veramente una figura figlia di quei sassi. Sotto i piedi suoi si stendeva una striscia di poca terra che copriva il tufo, su la quale Brugnoletta avea arrischiato una coltivazione di cavoli. Gli dissi di star fermo, chè volevo dipingerlo. Ma egli non comprese che le parole «stai fermo» e mi rispose:
— E chi se move?
Gli chiesi se beveva vino. Mi rispose che egli aveva una fonte di acqua freschissima dentro la grotta.
Ottenni che mi posasse seminudo come egli era; domandatogli se sentisse freddo, mi disse laconico:
— Co sto straccio de sole?
Così per più giorni Brugnoletta mi posò tranquillamente. Non sapevo come compensare quest’uomo che non aveva alcun bisogno, finchè un giorno vidi un filo di fumo bluastro che serpeggiava uscendo dalla grotta. Era Brugnoletta che se la godeva con un mozzicone di sigaro acceso. Il giorno dopo mi presentai con una boetta di tabacco ed una pipa; ed ebbi il piacere di veder Brugnoletta fumarsela dopo aver mangiato il suo cavolo quotidiano e di sentir da lui un «grazie», scaturito dal suo cuore. E così lo dipinsi. Ed ora ho il conforto di saper questo quadro proprietà del mio amico Federico Leighton.
Posso dire che in quel tempo io ho messo tutte le basi della mia arte avvenire. Feci il bozzetto del mio quadro, «Donne dell’Ariccia alla fontana» della «Musica nel bosco»; di «Un raggio di sole d’inverno sulla piazza dell’Ariccia»; della «Primavera»; della «Danza sopra una carbonaia estinta»; del «Governo di una carbonaia in una sera d’inverno»; di «Un ponte all’Ariccia»; di «Il mare, il Circeo e le Paludi Pontine.»
Nel 1855 mi incontrai all’Ariccia con Emile David. Egli era più filosofo che artista ed assai mi giovò col mettermi al giorno dei principi che avean fatto grande l’Arte Francese.
Egli cacciò dalla mia testa qualsiasi adorazione di idoli fabbricati. Ed un giorno, mentre gli descriveva un gran quadro che io pensava di dipingere raffigurante «Cola di Rienzo che ascende il Campidoglio seguito da trecento Regolanti», mi disse subito:
— E così farà un buco nell’acqua.... Prenda la testa di una ciociara, la dipinga proprio come è; e farà la miglior cosa che in pittura sia stata fatta da qualche secolo in Italia.
Io gli risposi:
— Questo io cerco di fare. Quando ella verrà da me a Roma le mostrerò un quadro che io aveva già finito nel 52, condotto coi concetti che ella mi esprime.
— Bravo!... Ed allora seguiti!
E così fui confermato nel mio sentimento e nelle mie vedute artistiche.
Nella nostra vita all’Ariccia si andava ogni giorno a lavorar dal vero a grandi distanze, cavalcando un asinello. Una bella sera d’inverno, tornando a casa, si ammirava in lontananza l’azzurro del mare, che tagliava sull’oro del cielo attraverso i rami delle quercie invernali. Mentre eravamo in estasi, il mio asino sferrò una coppia di calci e con una gropponata mi gettò a terra. Ed io che avevo in mano lo spuntone dell’ombrello, pieno d’ira, senza rialzarmi lo lanciai nelle parti deretane dell’animale; che continuò a scappare con quella specie di dardo conficcato nelle stesse. Comparve il David con i suoi occhiali, il quale in tono amaro, ma pacato, mi disse:
— Lei, così, ammazzerà la sua bestia.
Io chiamai questo fatto «la conversione di San Paolo». E, Nino Costa. Sulla piazza dell'Ariccia. Nino Costa. Ad Fontem Aricinam. da quella volta in poi l’ira non mi ha messo più fuor di me. Confesso, però, che il modificare il proprio carattere, quando si è sui trenta anni, lascia sempre una certa perplessità nel prendere un partito franco.
Avendo Emile David vissuto a Parigi nella bella epoca del rifiorimento dell’Arte Francese, mi mise al giorno di tutte le ricerche pazienti, amorose, geniali dell’epoca che nell’Arte fu sentita l’influenza rinnovatrice della rivoluzione artistica che dette alla Francia artisti eroi.
Cosa è mai il coraggio di un momento, nel furor della battaglia, a paragone del perdurare in una vita stentata, non compresa, derisa, solitaria per proseguire, nella stessa semplicità della natura, il proprio ideale? Vita vissuta in un mondo pieno di ambizioni, di lotte, di vanità, di speculazione, per la ricerca del falso; in un mondo vertiginoso, nel quale tutti, sebben contrari l’uno all’altro, ciascuno spera di toccare col gomito colui che, ingannato, lo aiuti.
Millet se ne stava, non compreso, non retribuito, col peso della famiglia, isolato nel bosco di Fontainebleau, cercando di rendere le impressioni e le emozioni che avea provato nel suo paese nativo.
Hebert se ne stava mesi e mesi romito, lontano dagli amici e dalla sua Francia, non certo fornito di larghi mezzi, in Cervara, freddo ed inospitale borgo di alta montagna, a dipingervi il suo quadro delle «Cèrvèroles»; la tela del quale, per l’angustia della stanza non potendo avere intera sul telaio, dovette tenerla rullata in parte e dipingerla pezzo per pezzo.
Troyon disse più tardi, a me stesso, che fino all’età di 44 anni i quadri suoi non solo non trovavano compratore, ma erano, anche, costantemente rifiutati alle esposizioni. E mi disse, pure, che egli era tuttora tanto miserello che un tale, che egli giovinetto avea spinto a darsi alla pittura, gli lasciò, non essendo ricco, mille franchi di rendita annuale, sentendo rimorso di aver contribuito a fargli scegliere un’arte che non gli dava da vivere.
Corot, anche lui, non mi tacque che fino all’età di 45 anni non vedeva che assai di rado accolti i propri quadri alle pubbliche mostre.
Ed è questa la storia angosciosa di tutti quanti i grandi artisti francesi di quell’epoca.