Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo XXI
Questo testo è completo. |
La mia vita all'Ariccia
In fin di vita
◄ | Capitolo XX | Capitolo XXII | ► |
XXI.
LA MIA VITA ALL’ARICCIA.
IN FIN DI VITA.
Nello studio di Enrico Gamba si riuniva ogni settimana una compagnia di giovani pittori per presentare i bozzetti di un soggetto, che ci eravamo dato per concorso fra di noi. Ed era poi, per voto, giudicato chi di noi lo avesse meglio compreso e meglio eseguito.
Erano quasi sempre soggetti romantici; eravamo all’epoca di Delaroche, di Ary Scheffer, di Cornelius, di Overbeck ecc. A me questi soggetti non andavano a genio. Ma una volta ebbi il di sopra su gli altri per una Ofelia la quale, cogliendo i fiori e cantando, entrava inconscia della morte nell’acqua.
Ma io, a quell’epoca, veramente stavo in Roma poche settimane. Preferivo vivere e lavorare in campagna. Io avevo preso alloggio all’Ariccia da un vecchio albergatore per nome Martorelli; il quale era assai interessante per curiose storie e particolari della vita di molti noti artisti di nome, come Massimo D'Azeglio, Pinelli e Turner.
Massimo D’Azeglio era fra gli altri originalissimo e sfrenato. Montava in sella, per costume, facendo un gran salto dalla parte deretana del cavallo.
Quando D’Azeglio dipingeva il quadro della Sforza Cesarini fece segare un grande albero, se lo fece portare nello studio e così lo copiò dal vero con la luce dello studio. Badiamo l’albero dovea figurare abbattuto nel quadro; ma un morto in letto ha luce diversa di un morto alla macchia.
Nella Locanda Martorelli trovai un certo Mayer pittore, vecchio ebreo zoppo. Il quale si può dire l’iniziatore della pittura di genere. Di quell’arte tedesca fatta un po’ per ridere. Che, per esempio, avea per soggetti: l’abatino che torna al paese e fa trasecolar la mamma leggendo un libro; lo scrivano di Piazza Montanara; la donna con gli occhi bassi, pensierosa con un dito in bocca; il barbiere col contadino con la mela in bocca sotto un arco del teatro di Marcello e simili.
Questo Mayer era, però, uomo di gran spirito, conosciuto da principi di case regnanti, i quali andavano a trovarlo. Una cosa, però, gli doleva: di avere il tanto comune nome di Mayer. Così un giorno che un aerostato stava per essere lanciato e per innalzarsi con l’aereonauta nella navicella, con un salto improvviso vi entrò anche lui. Allora le navigazioni aeree non erano comuni. E così egli contava di distinguersi ed acquistarsi nome diventando «il Mayer che è andato in pallone.» Quando, però, si trovò nelle alte sfere domandò all’aereonauta come si chiamasse. Ed ebbe la delusione di apprendere che si chiamava Mayer anche lui!
Mayer mi diceva che, per ottenere qualcosa nei piccoli paesi, bisognava mettersi bene con preti, frati e monache, mostrandosi ferventi religiosi. Così egli avea sempre ottenuto quanto voleva. Avea sempre le tasche piene di dolci; e si mostrava sempre cavalcando l’asino per non farsi conoscer zoppo dai paesani.
In una cittaduzza del Napoletano si accorse che non potevano digerirlo; lo ritenevano un mago. Egli, allora, arrivato la domenica, benchè zoppicante, traversò la Piazza della Cattedrale, domandò premuroso a questo e quello se la messa era ancora buona. E gli rispondevano:
— È buona, è buona ancora, non siamo ancora al Vangelo, buon uomo.
Questo ripetè ogni domenica. Ciò gli procurò fama di persona molto pia e devota. Tanto che, giunto alle orecchie del Vescovo che vi era un forestiero tanto religioso, questi lo volle conoscere e lo invitò a pranzo. E, dopo i soliti discorsi convenzionali, il buon Vescovo attaccò uno sperticato elogio del buon esempio che dava Mayer con la sua osservanza delle pratiche religiose.
— Purtroppo — proseguiva il buon Vescovo — in questa Italia, cuna e sede della cattolicità, vi sono moltissimi che non osservano le vigilie, non praticano i sacramenti, non osservano le feste, non han rispetto per i ministri di Dio, bestemmian come turchi il Suo Santo Nome, sono impuri, si ubriacano, vengono ad amoreggiare nel tempio di Dio. Peggiori dei bruti, al di sotto di qualunque bestia, peggiori perfino di qualunque ebreo....
E l’ebreo Mayer, raccontandomi questo suo caso, ci rideva su a crepapelle.
Io ho vissuto assiduamente accanto a questo originale, da Martorelli, un anno intero. Egli faceva la più libera vita artistica, nè si era accorto di esser vecchio. Una sera, però, mi tornò a casa con una gamba rotta per una caduta dall’asino e, mentre lo portavano in letto, mi disse:
— Oggi ho saputo con sicurezza che sono un vecchio. Quando son caduto e mi sforzavo per rialzarmi, una donna con tanta bontà ha detto: «Povero vecchio, aiutiamolo!...»
Il Martorelli mi ha anche raccontato come Turner, mentre dimorava nella sua locanda, mandò ad esporre a Londra certi suoi quadri. Pare che alla mostra gli ordinatori gli scrivessero per sapere quale ne fosse il lato alto, non sapendo da qual lato attaccarli. Ed egli rispose:
— Da qualunque lato è lo stesso.
Al tempo di Turner, dicevami Martorelli, vi erano alla sua tavola una quarantina di Inglesi e, poi, una tavolata di Francesi a capo della quale sedeva il Francais! Finalmente ad altra tavola stava un turbinio di Tedeschi,
Da Martorelli io sono stato a tavola con Cornelius, Overbeck, Piloth, i fratelli Ockemback. Un di questi ultimi mi diceva che bisognava conoscere la chiave del vero; e mi mostrava una sessantina di fogli con i cieli già fatti in Germania: tramonti, sereni, aurore, tempeste, nuvoli, etc.
Una sera era a tavola con noi un certo Stankevich, polacco, il quale quotidianamente si prendeva la sua brava sbornia. Quella sera l’aveva più forte del solito, e sedeva alla gran tavola di contro a me; gli chiesi in quale chiesa fosse stato in quel giorno e dove avesse presa quell’aureola di santità, perchè a giudicare dai raggi che emanava avrei stimato fosse nella chiesa di Genzano.
— Io sono pagano — mi rispose il polacco — ed altro tempio non frequento che quello di Bacco e più non domandarmi. Ma, se vuoi sapere, ti dirò che detesto Venere perchè viene dall’acqua.
E, così dicendo, prende una bottiglia di acqua e me la scaglia. Io, chiusi il pugno, fermai, spezzandola, la bottiglia nella sua traiettoria. Grave scandalo dei grandi pittori presenti che si permisero atti di disgusto.
Io gridai:
— Cameriere, portate a letto quest’uomo che è ubriaco.
Il polacco allora:
— Io andrò a letto, ma non prima di aver data lezione di estetica a questi signori.
E con gran foga proseguì:
— Cosa fa Overbeck con quei suoi angeli in camicia, infreddati.... con quei Cristi stecchiti, con quella Vergine Maria incapace di aver prole? Prenda un bambino così come è nella culla, lo dipinga come è e ci insegnerà qualcosa. E Cornelius prenda Overbeck, lo metta in croce, lo faccia come è e sarà la miglior cosa che egli abbia mai fatta in vita sua...
E così il polacco devoto a Bacco e dispregiatore di Venere continuò per un pezzo; dicendo, senza riguardi nè reticenze, Nino Costa. Ladre di legna ad Ardea (bozzetto). Nino Costa. Studio dal vero. a ciascun dei pittori presenti, la sua, finchè venne a mancar l’uditorio. Mason ed io, però, fummo dallo Stankevich assai bene trattati per l’indirizzo dell’arte nostra.
Questo seguiva nel 1853. Dopo più di quarant’anni, pochi giorni or sono, mi son imbattuto, qui in Roma, in questo bizzarro polacco ormai curvo sotto il peso di molti lustri. E fra l’altro gli domandai che ci fosse di nuovo in arte. Mi rispose:
— Nulla c’è di nuovo e nulla vi sarà, fino a che la fotografia regnerà sovrana.
Torno al 1853.
Per umidità presa, lavorando in campagna, avendo un giorno forte dolor di denti, per farmelo cessare avrei fatto qualunque sacrificio fuorchè quello di farmi cavare un sol dente. Allo scopo io avea perfino preso il detestato sigaro. Incontrato Stankevich, ad esso meravigliato dissi la ragione che mi avea fatto un camino ambulante. E Stankevich allora mi disse con assai comica gravità:
— Purtroppo addolora di separarsi dai lavoratori della nostra vita. Difatti un di questi che mi ha abbandonato io me lo tengo in tasca.
Così dicendo cavò di tasca un dente e proseguì:
— Vedi? Può darsi che a lui dolga, ma a me non duole!....
Una sera, ad Albano, eravamo in parecchi in un’osteria. C’erano: Villers paesista tedesco, il paesista Alessandro Castelli, Franz Dreber e molti altri. Stavamo intorno ad una tavola col bicchiere davanti, cianciando allegramente. Molti cani venivano sotto la tavola e ci regalavano pulci in abbondanza, tramandando punto piacevole odore; e noi li cacciavamo con urla. Entrò un capitano tedesco; questi, udendo alcuni della nostra compagnia parlare la sua lingua, e vedendo scintillare il vino nei bicchieri, ci domandò con molto bel garbo di unirsi alla nostra allegra brigata. E noi applaudendo gli facemmo posto sulle nostre panche.
Il brav’uomo volle rendersi simpatico e servizievole; e quando noi cacciavamo i cani gridando, egli per conto suo con una leggera bacchetta, alle nostre grida aggiungeva qualche leggera sferzata. Ecco che viene un cagnolo seguìto dal suo padrone. E, ricevuta la sua sferzata, andò via guaendo. Il padrone era un architetto romano, uomo grosso e forte il quale andò diritto al capitano e lo minacciò di colpirlo alla testa con un grosso bastone che avea in mano. La balbuzie dell’architetto gli accresceva la sua rabbia. La difficoltà di spiegarsi in italiano del capitano accrescevagli la confusione. Ad ogni modo riuscì a dire:
— Io credere cane osteria, se gentiluomo chiedo scusa....
E quel del cane:
— Scusate sto....
E lì una energica, plebea e romanesca esclamazione.
Allora io dal fondo della tavola gridai:
— Chi non accetta le scuse merita le bastonate!...
E feci appena in tempo ad alzarmi che l’architetto balbuziente era sopra di me, lasciandomi andare una bastonata in testa. Parai col braccio. E risposi subito colpendolo alla festa con un grosso bastone ritorto, come quelli dei porcari alle fiere. L’amico cadendo sanguinoso, disse:
— Ve conosco sor Costa!...
L’omaccione perse i sensi. Venne preso e portato in casa di peso. L’osteria fu chiusa. Quando il ferito rinvenne si trovò tra le braccia del dottor Nardini, il quale sentendosi obbligato a far referto del caso alla polizia, venne dallo stesso ferito pregato di scrivere che egli, essendo ubriaco, avea ruzzolato la scala. Ed incaricò lo stesso dottore di farci sapere che quella sera si trovava in istato di esaltazione; che era dispiacente di aver suscitato il deplorabile caso, e che, appena ristabilito, ci attendeva a far una sbicchierata nella sua cantina. Era stata una fortuna che giorni prima, facendo a colpi saltare le pietre per la strada, il mio bastone avesse perduto un grosso puntale di ferro; senza di che il mio aggressore era un uomo morto.
Otto giorni dopo tutta la nostra brigata andò a bere da quel gentiluomo artista ed enologo. Quando noi Italiani avemmo bevuto i Tedeschi esclamarono:
— Ora a noi!
E giù a bere. Bevevano a piccoli centellini, parlando raro. Pareva che per essi il vino facesse vece di respiro. E seguitavano, seguitavano, un bicchiere dopo l’altro, finchè noi Italiani ce ne andammo per i fatti nostri, lasciando i Tedeschi alle prese con un grandissimo tinozzo di vino. Quando l’ebbero asciugato, ciascuno degli Alemanni, grave come compreso di una sacramentale funzione compiuta, riprese la sua via.
La mattina appresso trovammo il capitano attaccato ad una staccionata; nè si poteva rimuovere, egli essendo ostinato e compreso dal dovere di reggerla mentre girava.
In quel tempo si fabbricava il gran ponte dell’Ariccia. Ed il Villers s’era addormentato su uno dei piloni in costruzione.
Egli avea gran barba, era una specie di Mosè. Il ponte è un viadotto; ed egli prima di staccarsi dai compagni diceva:
— È una vergogna che si butti via tanto danaro per far un ponte sì grande dove non c’è acqua da passare.
E, battendo con una bacchetta le pietre, sparse.... acqua per conto suo e si addormentò.... La stessa cosa avea fatto, ubriaco, in altro giorno ad una fonte secca.
Noi Italiani, dopo la poderosa bevuta, si andò a cantare per le vie di Albano, dando la caccia ai gatti e tirando qualche sassata ai lampioni che ci giravano intorno.
Castelli, temperante e vegetariano, ci ha raccontato, dopo, queste cose; e battezzò il mio bastone «la spranga elettrica dell’amicizia».
L’architetto divenne nostro amico a tutta prova.
Negli strapazzi e nelle imprudenze del mio lavoro sul vero, a qualunque ora del giorno, alle prime luci dell’alba ed anche col tempo più rigido, mi buscai un fiero malanno che, per poco, non mi condusse nel mondo di là. Si trattava di una assai grave congestione polmonare, tanto grave che mi si dava per caso disperato. La mia cara madre era in grande dolorosa ansietà, così per la mia vita come per la salvezza dell’anima mia. Per quanto ripugnassi dai sacramenti di una religione nella quale mai io ho creduto, pure non volli far maggiore lo strazio di mia madre; ed, unicamente per questo, mi acconciai alla confessione ed a ricever l’Olio Santo.
Però, quando il prete fu al mio capezzale per ricever la mia confessione, e mi trovai a faccia a faccia solo con esso, risoluto gli dissi:
— Noi siamo due filosofi, non è vero? Perchè abbiamo da infastidirci!...
Il prete, che era un bravo ed intelligente uomo, capì che sarebbe stata vana con me ogni sua insistenza. E mia madre fu contenta.
Questa mia grave malattia, data anche la molta notorietà della mia famiglia e mia, destò in Roma non poco interesse. Ne fu motivo ch’io venni, in tal circostanza, curato omeopaticamente. E questo non già perchè io avessi maggior fiducia in questo che nell’altro metodo. Ma ero amico di un singolare tipo, tal dottor Ladelci medico omeopatico. E volli farlo contento, lasciando che egli mi curasse come meglio gli piacesse; sicuro che ero che la mia vita e la mia morte ben poco potesser dipendere dal modo di curarmi.
La stranezza del caso faceva che tutti, pur nelle alte sfere, si interessassero alla mia sorte. La mia partecipazione al moto nazionale, l’essermi messo, benchè di ricca famiglia, a fare il pittore, il mio modo di vivere, dai più mi facean tenere per una testa sfasciata. E la cura ch’io avea scelta confermavano tal generale giudizio sulla mia persona. Lo stesso Pio IX seguiva con interesse il mio destino, di questo ribelle rampollo di una famiglia religiosa e fedelissima; e domandava ogni giorno che ne fosse di me. Cosicchè, quando apparve ch’io mi fossi acconciato ai sacramenti, ed i miei implorarono per me dal Santo Padre la benedizione in articulo mortis, questi me la mandò volentieri dicendo:
— Giacchè quel matto si fa curare da un omeopatico, mandiamogli la nostra benedizione!...
Io ebbi salva la vita. E di questo assai si avvantaggiò l’amico dottor Ladelci che, divenuto medico alla moda, assai allargando in breve la sua clientela, molto guadagnava. Ed io, celiando, gli diceva che era stata la mia malattia a fruttargli di potersene andare in carrozza.