Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo XX
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Intensa e lieta vita artistica
Una sorella infelice
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XX.
INTENSA E LIETA VITA ARTISTICA.
UNA SORELLA INFELICE.
Vengo, ora, a dire della mia vita artistica tra il 1850 ed il 1859.
Fin da quando io stava per la seconda volta con Massabò andavo dal paesista francese Le Noble ed a lui domandavo qualche studio da copiare. Ma egli, che era un allegrone, romanescamente mi diceva:
— Voi, sor coso lungo, giacchè ci avete li quadrini, annatevene in campagna e studiate dal vero.
Un giorno, ripetendomi questo, aggiungeva:
— Io me ne vado a Tivoli. Se voi volete venire...
Non me lo feci dir due volte e lo seguii.
Andammo a dar di cozzo nel tempio della Sibilla. E lui in una sola seduta lo fece tutto intero all’acquarello. Ed io, messo l’insieme appena, nello stesso tempo terminai un capitello.
Eravamo, lassù a Tivoli, una assai lieta compagnia di giovani pittori. C’erano: un certo Marchesi di Parma, Colombo Rossi, Bianchi di Milano, Gamba, Casnedi, Alessandro Castellani. Quasi tutti suonavamo qualche strumento. Alla sera andavamo a far serenate alle belle del paese; che spesso, fattesi alle finestre, amabilmente ci dicevano:
— Gettatevi nelle cascate!...
Quando poi, di giorno, dipingevamo nelle gole dei monti, i ragazzi ci tiravano sassate.
Era con noi una brigata di giovani signori romani, venuti per il fresco e per la caccia. Qualche volta si andava giù in basso all’Aniene; e con i fucili si cacciavano le volpi. Si stringevano contro il fiume, obbligandole a passarlo a nuoto.
Dopo Tivoli andai, nel tardo autunno, a Castel Fusano. Poi andai a Porto d’Anzio, dove feci il bozzetto del quadro che tuttora conservo della «manaide», che sta nel centro di questo quadro.
Dopo una nottata piovosa, alla mattina, mentre si apriva il cielo, vidi delle donne che aveano sulla testa strani fardelli, che poi conobbi essere radiche di alberi, delle quali caricavano una barca. Ne ebbi una grande impressione; e principiai il quadro che fu compiuto nel ’52.
Fino da allora io stabilii la norma fondamentale per fare un quadro.
E cioè: far prima, sul vero, un bozzetto di impressione il più rapidamente possibile; e, poi, fare dal vero studi dei particolari. Finalmente abbozzare il quadro, stando attaccato al concetto del bozzetto non togliendo mai le pupille dall’eterno bozzetto.
Lo chiamo «eterno» perchè ispirato dall’amore dell’eterno vero.
Nel ’50 dovetti fare un’apparizione nella mia famiglia, che io avea lasciato nel ’49, all’indomani dell’entrata dei Francesi in Roma. La ragione fu la condotta della mia sorella Angelina. La quale quanto più desiderava il suo Ballon — così chiamavasi l’ufficiale francese ospitato nella casa paterna e che essa voleva per marito — tanto meno era da lui corrisposta. Ed allora essa accusava i fratelli, andando in giro a dire che questi osteggiavano il suo matrimonio con un francese.
I fratelli, quindi, per scolparsi fecero davanti due testimoni — il barone Camuccini ed il cardinale Ferretti — confermare al Ballon ch’era lui ché non la voleva sposare. Dopo questo, l’infelice si chiuse in una camera ricusando il cibo per morir di fame; e si affacciava alla finestra gridando ai passanti che i fratelli l’aveano chiusa là dentro e privata di alimenti perchè non volevano che sposasse un francese.
Dato questo scandalo, altro non rimaneva da fare, per parte nostra, che farle nominare due tutori; i quali, poi, la misero in un convento di monache. Essa, non cessando le sue stranezze isteriche, accusava le povere monache di cose enormi. E fortuna per esse che mia sorella domandò di andare ad abitare in casa di povera gente a Porta Settimiana in Borgo. E quivi stando seduta con le «minenti», su i gradini della porta di casa, non la finiva più di impietosire di sè i passanti col racconto delle immaginarie infamie di cui essa diceva essere vittima per parte dei suoi crudeli fratelli.
Avendo di queste dolorose vicende famigliari parlato i giornali, giuntane notizia in Francia, un tenente dell’Esercito Francese chiese ed ottenne di essere trasferito al corpo di occupazione a Roma. Venuto quà si sposò questa infelice mia sorella Angela. La bastonò; distruggendone gli averi la ridusse in miseria, la rese madre di due bambine. Trasferito di nuovo in Francia, essa morì di maltrattamenti a Perpignan.
La poveretta, in tutte queste sventure, si condusse angelicamente con quel suo bestiale marito. Tanto che, quando venne portata al sepolcro, ebbe dalla popolazione di Perpignan dimostrazioni di generale rimpianto e di venerazione.
Lasciando questo tanto triste argomento torno a dir della mia vita di artista, che, in quegli anni prima del ’59, fu sì lieta ed intensa.
Nel 1853 presi parte alla famosa Festa degli Artisti a Cervara, che, a quel tempo, assumeva le proporzioni di.avvenimento della vita romana. Io vi andai indossando un’antica armatura di vero acciaro e montando un vivace cavallo andaluso, avente per gualdrappa una ampia pelle di tigre.
Alle nove del mattino la numerosissima e gaia cavalcata faceva alto al di là del Ponte Nomentano per far colazione. La massima parte degli intervenuti era montata su asini, essendo l’asino la classica bestia di questa celebre cavalcata annuale degli artisti di Roma.
Giorgio Mason.
(Portrait National Gallery di Londra.) Nino Costa. Ritratto della madre. Quell’anno gli asini saran stati più di duecento. I quali, allorquando i cavalieri smontarono per il primo pasto, vennero legati alla staccionata lungo la strada.
Or accadde che, mentre si faceva colazione su un prossimo poggio, un asino andasse a grattarsi le groppe ad una bigoncia accomodata ad alveare e ciò facendo la rovesciasse. Questo cagionò il rovesciamento di altre tre o quattro bigoncie-alveari prossime. Gli sciami uscendone investirono gli asini. | quali si misero a tempestar di calci l’aria che, in pari tempo, riempivano di altissimi ragli. Ma finirono per riuscire a liberarsi dai vincoli che li trattenevano alla staccionata ed a mettersi in salvo. Un minuscolo somarello sardignolo, però, non fu altrettanto fortunato e gli sciami si volsero tutti su di lui, che scalciava e ragliava disperatamente.
Tutti i cavalieri, interrotto il pasto, erano accorsi e barbaramente ridevano degli sforzi del povero somarello per liberarsi. Io, calata la visiera dell’elmo, corsi per soccorrerlo. Ma un altro mi precedeva, avendo avuto lo stesso mio slancio di pietà.
Era, questo pietoso, un bellissimo giovane dai capelli biondi inanellati, elegantemente vestito di velluto nero e bene inguantato. Il quale, copertasi la faccia con un fazzoletto, correva come me al soccorso del povero somarello. Presso di questo ci incontrammo, lo sciogliemmo e lo conducemmo in salvo.
Mentre procedevamo al salvamento della orecchiuta bestia, io che mi teneva per l’ultimo dei mortali, l’anello di congiunzione tra l’asino e l’uomo, pensavo: se egli è tanto pietoso per una bestia sarà gentile anche per me!
Questo avvenente e gentil giovine era l’inglese Federigo Leighton che tanta parte ed influenza ebbe, poi, nella mia vita.
Io fui uno dei vincitori alle gare di quel giorno. Vinsi al medioevale gioco dell’anello, il quale consiste nell’infilare una canna, brandita come una lancia, in un anello mentre il cavallo è spinto a tutta carriera. Ed arrivai primo nella corsa degli asini. Tuttora conservo il premio per questo toccatomi; che è una pentola artisticamente dipinta con asini eroicamente amorosi nel fiorito maggio.
Ecco quel che mi avea valso questa seconda vittoria. Come ho detto, io montava, quel giorno, un bel cavallo andaluso. Ma mi ero provveduto anche per la corsa dei somari; e mi ero fatto mandare da Velletri un’asina gigante delle Paludi Pontine. La corsa era su di un terreno piuttosto accidentato. Nel percorso si doveano attraversare fosse e passare paludi. Presso ai fossi io avea fatto appiattare degli amici, i quali con opportune nerbate faceano che la mia bestia non esitasse al salto. Si ha da sapere, anche, che l’asino è nel mese di maggio molto cavalleresco e non si permetteva di passare avanti nella corsa alla orecchiuta dama. Ond’è che, anche per questo, io trionfai nella corsa e venni ammesso all’onore di libare nel calice del presidente della festa.
Dovete sapere come, fin da fanciullo, io avessi gran propensione per tutto quanto fosse inglese.
Quando andavo con Don Pasquale, a fare acquisti nel negozio di Cagiati io voleva sempre che quel che m’era destinato fosse roba inglese. Mi piacevano, negli oggetti inglesi, la sobrietà di forma e di colore e l’onesta solidità della manifattura.
Nella Legione Romana, poi, nel ’48 io aveva militato con Federigo Mason (fratello di Giorgio Mason pittore) bellissimo quanto valoroso giovine. E da un anno io era amico dello stesso Giorgio. Questo, avendo veduto il mio quadro delle «Donne a Porto d’Anzio» che io ho descritto, tanto ne fu colpito che mi volle conoscere e mi tenne come maestro; mettendosi con gran calore all’arte della pittura da lui fino ad allora coltivata come dilettante.
Giorgio Mason, dopo aver vissuto abbastanza agiato, si trovava in uno stato di vera miseria. Ed un giorno che fui, in quel tempo, a trovarlo a casa sua, a Piazza Barberini, mi accorsi che da tre giorni egli si nutriva di sole castagne secche.
Era molto fiero e ci voleva molta astuzia per soccorrerlo senza che se ne accorgesse. Egli scendeva da casa sua nella sottostante piazza, dove stazionavano i carri con i buoi che, staccati, mangiavano e riposavano. Di questi faceva studi squisiti con la maniera la più semplice.
Egli mi diceva:
— Io ho pochi colori e fido solo nel mio sentimento.
Una mattina che Giorgio Mason dipingeva, al solito, sulla Piazza Barberini, passò un ricco mercante di campagna, certo Toto Tittoni, nella sua carrozza. E fermatosi avanti al pittore gli disse:
— A pittò! Voi venì co’ me?
E Giorgio:
— Vengo.
E monto sù.
Il cordialissimo Tittoni lo condusse seco in una sua tenuta, dove gli dette una camera ed il vitto, un cavallo ed un uomo che lo servisse. E Mason vi rimase circa un mese con grandissimo suo diletto e profitto.
Grato al caro ospite suo, gli volle fare il ritratto a cavallo; opera che tanto amerei di poter rivedere. Ricordo che era fatto con tanta passione e con tanto timore del vero. Vi erano dei terreni con le stoppie, e l’aria che l’azione del sole sull’umidità che si sprigiona dalla terra rende tremula e palpitante.
Era opera seria, condotta con sentimento infantile.
Sebbene io avessi conosciuto il giovane Federigo Leighton nel pieno sole della Campagna Romana, liberatore del misero asinello sardignolo e vincitore anch’egli di una delle gare al gioco dell’anello nella giornata di Cervara, non ero ancora andato nel suo studio. Ricordando la generosa azione del giovane inglese ed avendo saputo che egli avea lodato un mio disegno, bramai conoscerlo meglio e conoscere l’arte sua. E pregai il suo e mio amico Enrico Gamba, pittore, di condurmi al suo studio. Leighton aveva studio in Via della Purificazione. Quivi trovai abbozzato il suo famoso quadro del «Trionfo della Madonnadi Cimabue» ed i relativi studi di particolari per questo. Lavori nei quali aveva impiegato due anni.
Egli fu meco amabilissimo; mi suonò il pianoforte, cantò e mi parlò in pretto toscano.
Di pittura, già finito, egli aveva presso di sè uno studio dal vero di due figure orientali della grandezza di più che metà del vero, fatte in due sedute con un ardire e una finitezza che mi spaventò.
Questo studio ha il fare di Paolo Veronese. Lo ha ora la signora May Gordon. Ed, avendolo io riveduto dopo trentacinque anni, mi è sembrato miracoloso.
Leighton mi disse che avrebbe colorito il suo gran quadro della Madonna di Cimabue in tre settimane. Così fece. Ed io lo rividi e lo ammirai per la potenza del colorito, unità, finitezza, carattere fiorentino.
Qualche giorno dopo Leighton venne a trovarmi, vide le cose mie di pittura basata sulla ricerca di una tecnica semplice. Non me ne disse nulla. Però io sapeva che egli avea, qualche tempo prima, veduto una mia tempera da me fatta su l’album di Raffaello, tavoleggiante del Caffè Greco, e che gli avea detto a questo di tenerne di conto, perchè un giorno avrebbe avuto gran valore. Questo elogio certo sincero, perchè manifestato ad altri, mi dette coraggio e mi raffermò nell’indirizzo della mia ricerca.
Io non osavo andar spesso dal Leighton. Però molto frequentavo lo studio di Enrico Gamba, il quale avea fatto gli studi artistici col Leighton a Firenze ed a Monaco.
Gamba stava facendo, a quel tempo, un gran quadro con minore vivacità di Leighton, ma non con minore intensità e potenza di concetti. Ne era il soggetto «I funerali di Tiziano nella peste di Venezia». Quadro nel quale eran svolti il fasto e la tristezza, forte di disegno e per cui aveva fatto grandi studi.