Pagina:Quel che vidi e quel che intesi.djvu/28


— 8 —

II.

LA MIA INFANZIA.



Venendo a me, dirò che io nacqui nell’ottobre del 1826.

La prima cosa che io ho veduto e che ricordi al mondo, fu il mare a Fiumicino, biondo per il Tevere che vi si getta. Quivi mi portarono per curarmi la pancia grossa, facendomi bere acqua di mare, che a me dispiaceva assai. Piansi tanto e tanto mugolai: «Voglio tornare a casa mia!» che furono costretti ad accontentarmi e mandar mio fratello Filippo per ricondurmi a casa.

Un’altra cosa ch’io ricordo, con piacere e con dolore di bambino, è un albero di moro gelso che si elevava su di una specie di rialzo del nostro giardino. Godimento quando maturava il frutto, dolore quando questo cadeva infracidito. Di qui ebbi la prima idea della vita e della morte.

Ricordo ancora che mio padre mandò i quattro figli minori — Pietro, Teresa, Luigi e me — a scuola dalla Sora Gesualda, fattora delle monache di Santa Cecilia, dove erano mescolati ragazzi e bambine, dove si pregava da mattina a sera: rosarii e litanie all’infinito, in ginocchioni e con le mani sotto le ginocchia per penitenza, croci per terra con la lingua (spesso da me aiutata col naso), calzettina, ecc.

Fatti più adulti mio padre volle, per educarci, fisso in casa un certo Don Pasquale Iannucci di Segni ottima persona. Ad esso fummo affidati interamente, dandoci ad abitare il terzo piano del palazzetto paterno di San Francesco a Ripa. Don Pasquale non eccedeva in cultura; ma era amante della caccia, della musica, appassionato della storia dei tempi biblici