Pagina:Quel che vidi e quel che intesi.djvu/34


— 10 —

e nel colore di ciò che era a pochi passi da me, mi rapivano. Al ritorno da una di queste caccie manifestai il desiderio di fare il pittore. Ed allora tutti i miei mi classificarono come il più ignobile dei Costa. E facevano, a tavola, discorsi di questo gusto:

— Ho visto oggi quel disgraziato pittore tal dei tali, quell’infelice libertino tale tal’altro; già è etico marcio.

E mio fratello Antonio rincalzava:

— Mai e poi mai io darei una mia figlia in sposa ad un pittore.


Altro dei miei piaceri era quando Don Pasquale ci menava nella stagione estiva a Segni. Si andava fino a un certo luogo detto «Osteria Bianca» in diligenza, stivati come acciughe, snocciolando rosarii e litanie, guardando dai finestrini se apparisse qualche brigante, sopratutto quando si facevano le salite al passo. Questa diligenza, di color giallo, era molto alta e fatta a bigoncia; le ruote erano fermate all’asse da un chiodo torto che si chiamava «acciarino». Il quale acciarino, in uno dei nostri viaggi a Segni, essendo saltato via, la diligenza ribaltò. Uscirne fu difficilissimo; perchè una donna molto grossa, avendo voluto uscir dal finestrino vi si era incastrata otturandolo. Essa gridava e dimenava le gambe sferrando calci a noi miserelli, che eravamo al buio. Fortuna che i cavalli, i quali non amavano che l’immobilità, non si mossero!... Non uscimmo di lì fino a che, attaccatici tutti alle gambe della donna, non la tirammo dentro.

Usciti fuori, fu per me spettacolo sorprendente il presentarsi ai miei occhi della catena azzurra ed oro dei Volsci, con gemme di piccolissime case bianche che speravo di poter prendere con le mani; ma, purtroppo, avvicinandomi diventavano odiosamente grandi.

Altro non mi ricordo, di Segni, che del padre di Don Pasquale, di un tronco di albero che ardeva nel camino attorno al quale ci raccoglievamo alla sera a mangiar castagne arrostite,