Protesta del popolo delle Due Sicilie/Capo X
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CAPO DECIMO
I PRETI E I FRATI.
Per colpa di re Ferdinando gl’italiani delle Sicilie han perduta la pupilla degli occhi, la cara religione cattolica; e son divenuti o atei o superstiziosi. Pochissimi preti sono buoni e santi, e degni che altri metta la faccia dove essi metton le piante: gli altri moltissimi, svergognatori del sacerdozio, ignoranti e più ipocriti dei farisei, più insolenti del gendarmi, tra costoro il governo sceglie i più stupidi e malvagi, li nomina vescovi e loro affida la cura delle anime, l’istruzione, la polizia delle diocesi, e la vigilanza su le coscienze di tutti. Onde i Vescovi sono potenti spie agl’Intendenti, a Sotto-intendenti, a tutti i magistrati civili e militari, ed a Ministri stessi: tengono le orecchie del Re e i più accorti tengono anche le orecchie del Cocle; onde fanno quello che vogliono. Il cardinal Serra, arcivescovo di Capua, ha pieno il suo palazzo di cortigiane, di bambini, di balie, di nutrici, e di giovani canonici. Per contrario Monsignor Todisco, vescovo di Cotrone, fattosi pio paladino delle meretrici, le fa sposare a coloro che un tempo ebbero che fare con esse: e chi non ubbidisce per mezzo del Sotto-intendente lo fa mettere in carcere, donde non esce se prima non è sposo. Stancò per un anno un orefice in carcere, lo fe' venire tra i gendarmi in chiesa per farlo sposo egli stesso, quegli gridò che era costretto; fu rimesso a furia in carcere, donde è uscito marito. Perseguita un vecchio di settant’anni per fargli torre una decrepita baldracca, con la quale trent’anni prima tenne mala pratica. Se ode che una fanciulla ha fallato, ei senz’altro la fa chiudere in un carcere che ha fatto costruire a quest’uso. Gli altri vescovi qual simoneggia, qual tiranneggia, qual si mangia le rendite, o sdraiato in carrozza benedice i poveri che gli cercan limosina. E tra questi è lo stupido cardinale Riario Sforza arcivescovo di Napoli, caro alunno di Gregorio XVI di infame memoria.
Fra tutti i preti quelli della città di Napoli sono i più ignoranti, i più malvagi, e formano una setta farisaica, una casta formidabile, che fa e dice tutto impunemente, e guai a chi essi dicono: è scettico, è panteista, non si confessa, non ci crede. Questa setta, della quale è capo e maestro monsignor Cocle, è rappresentata da un impertinentissimo giornale intitolato Scienza e fede, il quale non è soggetto a censura, lacera le più sante riputazioni, e sicuramente insulta Dio e la ragione. A questi preti è affidata la censura dei libri, e ad uno di essi detto Gaetano Royer, la censura delle opere teatrali. Questo cavaliere pretonzolo, che non è stato mai a teatro, con le sue stitiche censure annoia persin la Polizia; e non si può dire quanto è stolto e tristo. In una quaresima si doveva rappresentare un’opera che aveva titolo da Pulcinella, il Royer non la permette che a condizione che si muti Pulcinella in Columella. Al melodramma Torquato Tasso ha posto il titolo di Sordello per non offendere la famiglia d’Este: ma non ha mutato più in là del titolo. Un impresario di una compagnia francese gli disse voleva rappresentare un dramma che ha per titolo: A qui la faute? Il Royer, che non sa il francese, udendo il suono delle parole fa un gran rumore, dice che sul teatro non si rappresentano queste nefandezze, e lo minaccia del carcere. Ma lasciam questo stupido ribaldo.
È in Napoli un prete a nome D. Placido Baccher di cui già facemmo un cenno nel capo terzo, focoso agitatore delle donnicciuole, e del più feccioso popolazzo. Apre la sua chiesa quattr’ore prima di giorno l’inverno, per fare, come si dice, udir la messa ai servitori ed agli artigiani. A quell’ora in tutte le più lontane parti della città le bizzocche ragunansi a truppa, non ispaventate da rigor di stagione, illuminate da lanternoni, fiancheggiate da religiosi amatori, vanno alla chiesa in processione stridendo e cantando litanie e rosarii. E nella chiesa non vedi gente cattolica, ma sozzamente idolatra. Cade talvolta un po’ di cera da moccoli che sono innanzi la Vergine: a quel rumore il popolo grida miracolo, D. Placido ripete miracolo; ed odi un gridare, un piangere, un picchiar di petto. In questo fervore esce un clerico con la borsa per la cerca: e D. Placido dal pulpito tuona e dice: fate bene alla chiesa, e lasciate i poveri: che Gesù Cristo dice che i poveri li avete sempre con voi, ma la chiesa non l’avete sempre con voi. Nel venerdì santo si pone sull’altare un’immagine del crocifisso, la quale alle parole di D. Placido dimena il capo, e fa vista di agonizzare e morire. Nella festa dell’Ascensione vedi un’altra immagine di Gesù tirata da funi fin sotto la cima della cupola, dove poi vien nascosta da certi imbratti che paion nuvole. E queste cose son fatte tra le strida furiose della plebe, e di D. Placido, il quale sul pulpito mugisce, piange, si percuote, batte le mani e i piedi, e si dimena come un invasato. Queste profanazioni, che paiono brutte e scandalose anche a taluni non ottimi preti, han fatto acquistare a D. Placido la particolare protezione del Re e della Regina madre, i quali spesso vanno a visitar quella chiesa, e lo credono un santo, un uomo di Dio; ed il bello di vedere come il prete ed il Re s’inchinano scambievolmente e si bacino l’un l’altro le mani, e l’un dice all’altro che lo raccomandi a Dio.
I frati sono quali furono sempre, alcuni buoni, alcuni tristi, pochissimi dotti. Ma tra i frati sono gli infernali gesuiti, peste di tutta la cristianità, e specialmente nel nostro regno. Il ricco marchese Mascara, che prestava ad usura, teneva da sedici anni una sua concubina, la quale con l’aiuto di un confessor gesuita gli divenne moglie. Venuto a morte, non curandosi nè del fratello nè delle sorelle, lasciò cento ventimila ducati ai gesuiti, ed alla moglie il frutto di alcuni terreni, e l’uso di tutti gli arnesi di casa. La donna dopo dieci mesi, dopo un pranzo fatto in Caserta subitamente morì; e i gesuiti raunarono ogni cosa. Il fratello e le sorelle del marchese ricorsero al Re, il quale furbescamente rimise l’affare ad alcuni arbitri, e questi più furbi di lui giudicarono a favor della compagnia, ed il Re senza scrupolo diede il regio assenso. Ecco, dice piangendo Carolina Mascara, duchessa di Rutino, ecco la casa di mio padre, dove io son nata, cresciuta, maritata, non è più nostra, noi ne saremo cacciati, si cancellerà il nostro stemma e vi si porrà quello della compagnia. Andai dai gesuiti, li pregai che mi dessero almeno gli arnesi di casa a loro inutili, che facessero bene alla sorella del loro benefattore, madre di molti figliuoli; mi promisero che farebbero: finito l’arbitrato, non mi han dato nemmeno una spilla.
Questi figliuoli delle tenebre, che si chiamano dal nome santissimo di quel Gesù che disse ai suoi seguaci, di cercar solo i tesori del cielo, hanno spogliato una famiglia, e godono di danari fatti per usura, di danari che furon lagrime e sangue di tanti sventurati. Si difendano i gesuiti, se possono, neghino le ricche eredità ed i grossi legati che hanno estorti in Lecce e in Salerno. Nè si vantino di esser dotti birboni, come furono un tempo, e di ammaestrare i giovani; chè papa Ganganelli tagliò loro i nervi, ed i gesuiti rinati sono uomini mediocri, eredi della sola malizia antica. L’istruzione morale che essi danno alla gioventù è infame, nelle confessioni dimandano ai fanciulli i segreti delle famiglie, li avvezzano allo spionaggio, alla bacchettoneria. L’istruzione letteraria è sciocca e barbara: un maestro giovanissimo senza esperienza di insegnare, senza sapere nè poter discernere l’indole dei giovanetti, tiene una classe di più di cento giovanetti: insegnano il latino al popolo, e null’altro che latino, ma in modo pedantesco, lungo, pesante, per forma che sono abborriti quei libri latini, che pur sarebbero i libri dei forti e dei generosi: per l’italiano non veggono nè sanno più là nè più qua del loro Bartoli; grande scrittore sì ma vizioso. Sicchè nessun bene fanno questi neri uomini, ma fanno tutto il male che possono, e vorrebbon di più ma comprendon che l’ultim’ora per essi sta per sonare, e non vogliono affrettarla.
Così i preti e i frati facendosi aiutatori delle infamie del governo, predicatori di false massime, insegnatori d’ignoranza e di errore; hanno guasta la religione, hanno turbate tutte le coscienze, e sono meritatamente odiati e disprezzati. E come i poco accorti ed il popolo può credere nell’Evangelo, se coloro che lo predicano dicono santo e buon re Ferdinando, lodano Monsignore e biasimano quel santissimo Pontefice che Dio ha mandato non tanto per aiutare l’Italia, quanto per sollevare la fede caduta, e mostrare che Cristo non è complice dei tiranni? se questi farisei predicano da cattolici, ed operano da idolatri anzi da cannibali? La stupida ipocrisia di re Ferdinando ci ha tolta anche la religione.