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un uomo di Dio; ed il bello di vedere come il prete ed il Re s’inchinano scambievolmente e si bacino l’un l’altro le mani, e l’un dice all’altro che lo raccomandi a Dio.

I frati sono quali furono sempre, alcuni buoni, alcuni tristi, pochissimi dotti. Ma tra i frati sono gli infernali gesuiti, peste di tutta la cristianità, e specialmente nel nostro regno. Il ricco marchese Mascara, che prestava ad usura, teneva da sedici anni una sua concubina, la quale con l’aiuto di un confessor gesuita gli divenne moglie. Venuto a morte, non curandosi nè del fratello nè delle sorelle, lasciò cento ventimila ducati ai gesuiti, ed alla moglie il frutto di alcuni terreni, e l’uso di tutti gli arnesi di casa. La donna dopo dieci mesi, dopo un pranzo fatto in Caserta subitamente morì; e i gesuiti raunarono ogni cosa. Il fratello e le sorelle del marchese ricorsero al Re, il quale furbescamente rimise l’affare ad alcuni arbitri, e questi più furbi di lui giudicarono a favor della compagnia, ed il Re senza scrupolo diede il regio assenso. Ecco, dice piangendo Carolina Mascara, duchessa di Rutino, ecco la casa di mio padre, dove io son nata, cresciuta, maritata, non è più nostra, noi ne saremo cacciati, si cancellerà il nostro stemma e vi si porrà quello della compagnia. Andai dai gesuiti, li pregai che mi dessero almeno gli arnesi di casa a loro inutili, che facessero bene alla sorella del loro benefattore, madre di molti figliuoli; mi promisero che farebbero: finito l’arbitrato, non mi han dato nemmeno una spilla.

Questi figliuoli delle tenebre, che si chiamano dal nome santissimo di quel Gesù che disse ai suoi seguaci, di cercar solo i tesori del cielo, hanno spogliato una famiglia, e godono di danari fatti per usura, di danari che furon lagrime e sangue di tanti sventurati. Si difendano i gesuiti, se possono, neghino le ricche eredità ed i grossi legati che hanno estorti in Lecce e in Salerno. Nè si vantino di esser dotti birboni, come furono un tempo, e di