Prose campestri/Quod latet arcana non enarrabile fibra
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Quod latet arcana non enarrabile fibra.
Il diletto, di cui è cagione una bella campagna, non consiste già solo nella vista d’oggetti vaghi e maravigliosi, come ho sentito dire ad alcuni, che non san forse, che al fisico piacer degli occhi s’unisce una gran quantità di piaceri morali dalla campagna stessa prodotti; ma di piaceri, che quanto volentieri si lascian sentire dall’anima, tanto mal soffrono d’esser con penna descritti.
Quando dopo una lunga estasi io ritorno a me stesso, e mi trovo in mezzo a quei fiori e a quella verdura, ch’io più non vedea, il senso di tal vista è sì vivo, come se io mi trovassi per la prima volta tra quegli oggetti campestri, e come se io gli avessi perduti, e poi racquistati. Quando m’entra nelle stanze per la finestra l’odor del fieno tagliato, non è già il solo piacer de’ sensi, ch’io gusto, benchè scossi molto piacevolmente: ma in quell’odore io veggo come una descrizion compendiosa ed energica di tutte le delizie della campagna. Se qualche mattina il canto degli augelletti più forte del solito mi risveglia, quel ch’io non vorrei che per altra cagione accadesse, non è già quel canto che allora mi piaccia, ma veggo quasi epilogata in esso la piacevol giornata, che passar dovrò. Tanto piace all’anima l’essere avvisata improvvisamente, e d’ogni cosa in un solo istante!
Potrebbon credere alcuni, ch’io, giunto qua, volessi tosto sapere a chi appartenesse l’una o l’altra casa, che mi s’offeriva agli occhi, e questo o quello domandassi delle strade, onde non ismarrirmi nelle mie passeggiate: ch’io desiderassi di conoscer subito la faccia del luogo. Ogni altra cosa più, che questo, io desiderava. Nè Colombo quando scoperse l’America, nè il Capitano Cook, nè alcun altro celebre navigatore al trovare una sconosciuta isola fu così lieto, come io d’un nuovo sentiero: è per me come aver trovato un piacer nuovo, che m’abbellisce ancor più il soggiorno da me scelto, e lusinga il mio amor proprio, giustificando con una ragion di più la mia scelta.
Trovato il nuovo sentiero, io v’entro subitamente o a piedi, o ch’io sia a cavallo, e lo seguo fin dove mi guida. Quanto è dolce il dire in un bel luogo riposto e selvaggio: Forse nessun occhio osservatore penetrò sin qua! Mi perdo talvolta, nè però, se incontro persona, richiedola della via, non volendo privarmi d’un altro piacer grandissimo, quando dopo molti rivolgimenti io riesco in parte già nota, donde assai lieto, non monta se per tempo, o al tardi, a casa io ritorno. Quanto alle case di campagna, cosa ingratissima colui mi farebbe, che il nome mi dicesse de’ Signori di quelle. Chi mi vieta, non sapendolo, di pensare, che alberghino là cortesissimi uomini, e donzelle modeste non men che e belle, virtuose non men che accorte? e albergandovi, perchè non le incontrerò io alcuna volta ne’ miei passeggi? Sarà di Ninfa il lor passo, sarà di Musa la voce loro; e quanto con la memoria di quello, e di questa non rallegrerò io qualche momento men sereno della mia solitudine, quando ruit arduus æther,
Et pluvia ingenti sata læta, boumque labores
Diluit?
Veggo un torrente: niun mi dica donde viene, e sin dove giunge. E che è mai dietro a quel colle? O ch’io nol sappia, o voglio chiarirmene io stesso. Se la mia vista fosse così acuta e possente, che, veggendo una montagna, io scorgessi ogni suo boschetto, ogni vallicella, ogni grotta, mal mi saprebbe della mia vista, per cui non gusterei più il diletto della maraviglia all’improvviso trovare d’un fresco e verdeggiante asilo per quella montagna. Quel bosco io mi guarderò bene dall’aggirarlo tutto, e dal conoscerne ogni parte interna, spogliandolo dell’orror suo misterioso. Mi guarderò ben di sapere che fabbrica quella era, di cui più non veggo che bizzarre e romanzesche ruine: la verità non sarebbe mai così bella, come la produzione dell’immaginazion mia. E tu, o bellissimo Adige, credi tu che le onde tue chiare, benchè profonde, maestose, benchè veloci, ed amabili, benchè prepotenti, credi che mi piacerebber tanto, se le sinuose tue rive, celandomi per qualche tempo quegli oggetti, cui vado incontro, non eccitasser la mia curiosità, ed io non sentissi prima del piacere d’una nuova scena il piacer forse maggiore dell’aspettarla?
Non vorrei parere il panegirista dell’ignoranza: ma certa cosa è, che il diletto, che lo spettacolo generale della natura produce in noi, viene indebolito non poco dalla cognizione scientifica della stessa natura. Egli accade come a una decorazion di teatro; ed io non dico che non piaccia il sapere come operino quelle funi, quelle carrucole, que’ contrappesi: dico che il diletto, che nasce dalla decorazione, vien quasi totalmente dalla cognizione di quei nascosti artifizj distrutto.
Tutti hanno una qualche idea del come si nutrano, e come crescan le piante: ma se io fermerò la mente sul lor meccanismo, considerando que’ vasi, e seguendo le ramificazioni loro, sia de’ longitudinali, come quelli a succhio e le trachée, che il succhio appunto son destinati a condurre, sia de’ trasversali, come gli otricelli e le inserzioni, che a prepararlo e digerirlo destinati sono, ciò che usa di fare chi a tale studio dà opera seriamente; e così dicasi del corso delle acque, dell’interna struttura delle montagne; certo è che si scioglie allora quella spezie di magía, onde la faccia delle cose veggiamo sparsa. Quanto non è bella l’azzurra volta del cielo? Ma s’io comincio a pensare, che non ha colore alcuno, e che le particole dell’aria riflettono nella loro immensa totalità quel colore, come fan quelle dell’acqua del mare, la volta azzurra non è più agli occhi miei ugualmente bella. Così dicasi d’una montagna lontana, ed anche d’una foresta, che per l’aria frapposta di verdastro in azzurrognolo si trasmuta. Me ne dite il perchè? Svanisce tosto l’incanto.
Una delle più rare scene, che la campagna ci offra, è quella del Sole nel suo tramontare. Ella m’è ancor più cara di quella del Sol nascente, forse in grazia d’una di quelle considerazioni, che si fanno quasi senza avvedersene. Il Sole, che nasce, sappiamo che rimarrà con noi per alcune ore: quello, che muore, nol rivedremo che il giorno appresso. Ora non è egli così d’ogni cosa, che allora ci par più preziosa e grande, che ci sfugge e abbandona? Ma se allor penso all’origine bassa e terrestre di quelle nubi, ond’è circondato, e nelle quali egli scherza sì vagamente co’ lucidi suoi colori; se penso a quella distanza, che tra le nubi, e lui grandissima corre; se mi ricordo che quando egli tramonta, come allor che sorge, io non veggo già lui, ma l’immagine sua posteriormente, come anteriormente nel sorgere, da quelle ingannatrici delle rifrazioni dipinta, no, la scena del Sol cadente non è più quella. Non veggo più con egual piacere per metà immerso l’orbe suo cotanto ingrandito, non la rossa curva, che dar sembra un’ultima occhiata al Mondo, e poi sparisce ad un tratto, non quella polve d’oro, o piuttosto d’ambra, che tosto si leva, finchè, dileguandosi a poco a poco, cede il luogo ad un bel candore, e questo alla porpora del crepuscolo ancor più bella: mentre con l’aure della sera, con le rugiade, e con l’ombre, che van succedendosi una più bruna dell’altra, viene il silenzio, la calma, il riposo, la meditazione, e i piaceri tutti dell’anima a regnar vengono su l’oscurato Emisfero.