Poemetti (Rapisardi)/Nel triste asilo

Nel triste asilo

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L'impenitente Nozze immortali

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NEL TRISTE ASILO.


I.


Salía da’ campi, nell’incanto assorti
     Del vaporoso plenilunio estivo,
     Una soave cantilena; e gli occhi
     D’Aroldo, or or chiusi nell’ombra, ov’era
     La grigia mole dell’Ospizio immersa,
     Trasognando si aprirono, e nel mite
     Riso del cielo scintillår di pianto.
     Doleasi la canzon languida, e l’aure
     Si destavano intente a’ suoi sospiri;
     Fuor de la nebbia cerula dei prati
     Emergeano alla luna alberi e case;
     E un vol cheto di sogni, un corteo lento
     Di tralucenti immagini sorgea
     Su da la notte di quel cor ferito.


II.


De la sua giovinezza, ahi breve tanto,
     L’ora più bella ei rivivea. Deserta
     Dinanzi a lui, dintorno a lui correa
     L’arida steppa ad incontrar l’azzurro;
     Ed ei, che dilungato erasi alquanto
     Dagli ambigui compagni, ed alla voce
     De le cose porgea l’avido orecchio,
     Si trovò fuor di traccia, e nell’adusta,
     Silenzíosa immensità smarrito.
     Lusinghiere fantasme, ibridi aspetti
     Di centauri e di sfingi e mostruose
     Ombre solcate da sanguinee faci,
     Da la terra, dal cielo, al capo, a’ fianchi
     Gli si stringeano in torbida congiura,

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     Quando l’ardua beltà, come fugace
     Idol di sogno a lui più volte apparsa,
     Ecco, improvvisa agli occhi suoi risplende.
     Non donna di mortal carne vestita,
     Ma un’anima visibile parea,
     Una di quelle vaghe anime blande,
     Che rapito in ispirito d’amore
     Il Beato di Fiesole pingea.
     Penetrò dolce a lo smarrito in core
     Di quella visíon candida il raggio,
     Qual sorriso d’aurora in fra le rupi
     Di selvose montagne, a un lago in seno.
     O piccioletto lago, impervio, all’ombra
     Di boscaglie deserte or or dormivi,
     Ma desto al bacio dell’aereo lume,
     Tremulo splendi, e come occhio velato
     Di lacrime soavi al ciel ti affisi.
     Splendea così del giovinetto il core.
     Che mai dirle ei potea! Voce mortale
     Turbato l’amorosa estasi avrebbe,
     Che placida fluía da quella vista,
     E in una rete di cerulee fila
     Avvolgea lentamente i suoi pensieri.
     Tacito stette, come fior che al rorido
     Zeäro mattutino ondula e tremola,
     E in un voluttuoso assopimento
     La breve, innamorata anima esala.
     Ma non pria dell’eterea giovinetta
     Balenar vide sotto a le socchiuse
     Ciglia un timido assenso, e d’una rosea
     Luce avvivarsi la verginea gota,
     Passar ne le sue fibre intime un brivido,
     Una fiamma ei sentì, trasfonder quasi
     Una parte di lei dentro al suo petto:
     Si confusero a un tratto in un sol moto,
     In un sol core i due cori; e le ardenti
     Anime, che in un guardo eransi intèse,
     Si uniron su le due bocche in un bacio.


III.


Così, liberi, amanti, in un beato
     Eremo, a un colle in cima, in faccia al mare
     Quattro aprili fiorir videro insieme.
     Ma quando nel villaggio a lor vicino
     Incrudelì col verno aspro la fame,
     L’onesto amor da la pietà fu vinto;
     E di consolatrici opre una gara
     Generosa, incessante in lor si accese.
     Di censi ricco e d’ampie terre egli era;
     Ma il dì che vide per gl’inerti campi
     Derelitta languir l’umana vita,
     Per le squallide vie tender le donne
     Estenuate al passaggier la mano,
     Abbandonata ne le fredde case
     La vecchiaja perir, tremar digiuni
     I fanciulletti e chieder pane indarno,
     De’ suoi piaceri, de la sua ricchezza
     Ebbe il nobile core onta e rimorso.
     E, a voi, disse gemendo, la Natura
     Diede in cura la terra, o pii coloni;
     E voi col ferro adunco il solco aprite,
     Voi la sementa e l’annual fatica
     E la robusta sanità gittate
     Nel seno avaro. Oh tutta alfin sia vostra
     La terra; vostri i sacri ingegni e i frutti
     Ond’or l’ignavia furatrice ingrassa!
     E gl’indugj sprezzando, a’ suoi coloni
     Le sue vigne, i suoi prati equo divise.
     Implacabile allora arse lo sdegno
     De’ grifagni congiunti: e con obliqua
     Pietà ristretti in famigliar congiura.
     (Complici al reo disegno i sacerdoti

     D’Esculapio e d’Astrea) non ebber pace,
     Se non quando il gentil capo interdetto
     Nel tetro asil de la follia fu chiuso.


IV.


— Voi parlate a’ fantasmi!, entrando disse
     Con un sorriso il buon Dottore.
                                                       — Ai saggi,
     Di cui la terra è popolata, il mio
     Detto non volgo più, da quando appresi
     Che saggezza e viltà sono una cosa.

     «O mediocrità d’oro e d’argento,
Venuta in terra a dettar leggi a noi,
Ciurma ambidestra, ossequíoso armento,
Di santi astuti e di legali eroi;

     Tribuni accorti, che giocando al poi,
Cogliete a volo il provvido momento,
Sacciute dame gravide di vento,
Bollati dotti, io non favello a voi.

     Solo, diritto, del mio sangue intriso,
Di me stesso io mi cibo, e all’orizzonte
L’anima mia, di luce avido, affiso.

     Ed ecco su da la caligin folta
Sorge un Gigante, e con benigna fronte
Gli sdegni miei, le mie sparanze ascolta.»
     — Poeta!
                         — Io sento e penso; e al mio pensiero,
     Al mio sentir l’opera e il dir conformo.
     — Fuor della terra e dell’età vivete.
     — Chi l’ora bieca e la rea gente ha in ira,
     A un’altra gente, a un’altra età favella.
     — Il presente è dei forti. Il pensier vostro
     Aquila sia: figga lo sguardo al sole,
     Ma scenda in terra a procacciarsi il vitto.
     — L’avvenire è dei buoni. Io di predaci
     Rostri e di violente ali e d’artigli
     Dalla mite Natura armi non ebbi;
     Io con sottili accorgimenti e frodi
     Legali non foggiai ferri ed ordigni
     A ferir gli altri, a preservar me stesso.
     Precipitai così da l’alto, forse
     Da un’altra sfera, in questa bolgia orrenda;
     Ma l’occhio mio penetra l’ombre, e i raggi
     Del ciel natío placidamente accoglie;
     Geme fra’ ceppi il corpo mio, ma franco
     Sorge il pensiero a le contèse altezze,
     E in un prisma stringendo i raggi sparsi,
     Su le vostre ombre, come un dio, li versa.
     — Nobili sensi, alte parole: il mondo
     Non li ode, e all’oro ed al poter s’inchina.
     — Tal sia; ma ciò che la ragion condanna,
     Presto o tardi cadrà: nome o possanza
     Domani avrà quant’oggi ad essa è vero.
     — Domani, ahimè, chi del domani ha il regno?
     Un perpetuo presente è all’uom la vita.
     — Il momento. ecco il vostro regno; il dorso
     Piegar docile a’ casi, ecco la vostra
     Virtù! La sprezzo; e il sogno radíoso
     Dell’amor sogno in mezzo agli odj: un folle
     Sublime anche il sognò, la cui follia
     Molto, o dottore, a questa mia somiglia
     Su la croce ei morì; più della croce
     Grave è il supplizio a cui dannato io sono.
     — Oh mirabile esempio! In lui s’acqueti
     L’animo esasperato: a lui si volge,
     Sazia del ver, la nova età.
                                                  — Del nome
     Della vittima eccelsa altri si faccia
     Motto in vessillo, e il vulgo ignaro adeschi;

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     Altri in mistici sogni il morbidetto
     Spirito adagi, e tra’ feroci eventi,
     Di cui grave è l’età, passí come ombra
     Fluttuante a l’azzurro. Io de la pia
     Vittima il puro sagrificio ammiro,
     Ma seguir l’orme de la sua dottrina
     E in lui fidar più non m’è dato: il cielo
     Sia suo; campo degli uomini è la terra;
     Ne la battaglia secolar Natura
     Una sola arma, la ragion, ci diede;
     E la ragion ei salverà.
                                             — Possanza
     Vana è la mente, ove non parli il core.
     — Ferro impuro ed informe era il cor mio,
     Ma la scíenza inesorata nella
     Fucina sua l’arrovento, nell’aspre
     Sue tanaglie lo strinse, e con tal maglio
     Su l’incudine sua tanto il percosse,
     Che alle sue leggi alfin docile il rese.
     Indi un pensier, come un acciar, diritto,
     Un cor che solo alla ragion si piega,
     Raro mostro a’ mortali una ribelle
     Forza conscia di sè, ch’oltre a’ confini
     Del piccioletto mal, del piccioletto
     Bene del mondo spaziando aleggia,
     In me videro i saggi; e paventando
     La mia virtù, la mia vittoria, in questa
     Gabbia il mio corpo, empje e crudeli, han chiuso.
     Che monta! Io vincerò. Questa è la salma
     D’Aroldo quel che voi l’animo dite,
     D’una Chimera fiammeggiante è fatto
     Ospite da gran tempo; ed essa a volo
     Per l’infinita regíon lo porta,
     Che a voi, prudenti, eternamente è chiusa.
     — Ahimè, passato è dei profeti il tempo!
     — Non profeta soltanto: io confermai
     Con l’opra il dètto: apostolo mi feci
     D’un’idea santa; martire mi ha fatto
     La virtù vostra. Misero e schernito
     Altri giorni vivrò; ma dei mortali
     Lo scherno io sprezzo e la pietà non voglio;
     Solo morrò; ma l’avvenire è mio.


V.


DALLE «MEMORIE» DI AROLDO.


«Strane follie, bizzarri aspetti! Muto
     Per le cupe corsíe, per l’ampie sale
     M’aggiro io spesso, e le penose forme,
     Che l’uman senno in questi lochi assume,
     Vo notando; e di me forse in quell’ora
     Più che degli altri io son pensoso e triste.
     Or, ne la notte insonne, ad una ad una
     Tornano al mio pensier l’irte sembianze;
     E ad ingannare il vol pigro dell’ore.
     A le memorie mie, con un sorriso
     Fatto di pianto, i detti lor confido.


IL PADRE ETERNO.


« — L’ente son io. Benchè qui chiuso, io tutto
     Animo il mondo, e onniveggente io sono.
     Il Verbo mio trasse dal nulla il Tutto;
     Perirà tutto; io tal sarò qual sono.

Luce, vita ed amore io spiro in tutto,
     Ed Uno e Trino e tutto in tutto io sono:
     L’eternità, l’infinità del tutto
     A me un istante, un punto, un nulla sono.

Gli astri, la terra, il mar, gli uomini, tutto
     Ecco, ad un cenno mio polvere sono:
     Gioco della mia destra il Nulla e il tutto.


Stolto mortale, e tu non sai chi sono?
     Tu che saper, tu che domar vuoi tutto,
     Ombra sei, ombra è il mondo; Io son Chi sono!


IL PAPA.


« — Ch’io scenda a patteggiar col novo erede
     Di colui ch’usurpò la sede mia?
     Ch’io levi a benedir la destra pia?
     Scellerato chi ’l dice, empio chi ’l crede.

Benchè prigione insidíato io sia,
     Incrollabile, eterna è la mia fede;
     Nè lungi è il dì, che su la bestia ria
     Ella porrà, come a’ begli anni, il piede.

Sgombrerà, sgombrerà gl’ineliti luoghi
     La genía triste; e l’ombre, ove or mi celo,
     La luce avranno del mio doppio trono.

Cadrà sotto al mio cenno il mondo prone
     E a celebrar la mia vittoria, i roghi
     Lingueggeranno, alto stridendo, al cielo.»


L’IMPERATORE.


« — Quest’impero fatal, che m’appartiene
     Per diritto di sangue e di conquista,
     E beato così della mia vista,
     C’ha sol nel mio piacer posto ogni bene.

Da’ ghiacci eterni a le fiammanti arene,
     Tanta ogni di gloria e possanza acquista,
     Ch’ogni popol remoto arde e s’attrista
     Nel desiderio delle mie catene.

Sperate, o genti! Il mio popolo eletto
     Porterà a voi la mia bandiera, a’ troni
     Vostri un monarca, alle vostri armi un duce.

Io nel castello mio, fra’ miei baroni,
     Inebbríato della propria luce,
     Il culto vostro o il vostro eccidio aspetto!»


IL PEDANTE.


« — Pedante! E sia. Del mio sapere indegno
     Sarei, se contro a’ folli armato uscissi:
     Nelle italiche scuole unico io regno,
     Astro immortal che non conosce eclissi.

Il popol mio, che prode animo ha pregno
     Di radici, di temi e di suffissi,
     Presidierà, s’è d’uopo, il mio buon regno
     Con pleonasmi, iperboli ed ellissi.

In trono d’aoristi e d’ablativi
     Tranquillo io poggio, ma gli strali ho pronti
     A punir gli empj, a sgominar gl’iniqui;

E se stretto sarò da’ casi obliqui,
     Io scaraventerò contro a’ cattivi
     Alcaiche e ipponattèe, giambi e scazzonti!»


VI.


«Io chiudo gli occhi, e guardo entro me stesso
     Oh costellato firmamento in una
     Placida notte äutunnale! Oh puri
     E di tramonto ignari astri, il cui nome
     Mi rifiorisce su le labbra appena
     Nei vostri scintillanti occhi mi affiso:
     Amorosi, pietosi astri, che un tempo
     Versaste, urne divine, entro al mio core
     Assetato di voi l’onda lustrale,
     Che sola il petto de mortali indía,

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     Tal da voi piove un fáscino che tutte
     Le piaghe aperte nel mio core incanta.
     Ritenta il corso rapido degli anni
     L’anima rediviva, ed ecco i lidi
     Raggianti e le magioni auree rivede,
     Che l’animosa giovinezza eresse
     Ne’ suoi celesti rapimenti, e all’Arte,
     A la Bellezza, a la Virtù, sideree
     Consolatrici, ad abitar le diede.
     Ecco il magico regno, i disparenti
     Palagi, i cristallini antri, che un giorno
     L’irrequieta infanzia, amabilmente
     Con la vecchiezza trepida confusa,
     Fe’ risuonar di fiabe e di trastulli.
     In un fantasíoso ondeggiamento
     Fra’ suoi ricordi l’anima si culla,
     E su la calma azzurrità sospesa,
     La perfidia de’ nembi e il porto oblía.


VII.


«D’attinger vette alpine e inesplorate
     Regíoni di ghiaccio altri si vanti;
     Io m’alzai su me stesso, e da la cima
     Del redento pensier placidamente
     Brulicar vidi a me di sotto il mondo.
     O mostruosi baratri, latranti
     Gorghi dell’uman core; o sfidatrici
     Dell’azzurro impassibile, severe,
     Vertiginose, indefinite altezze,
     In voi l’animo altéro, in voi l’acume
     Dell’audace pupilla esercitai;
     In voi mi profondai tutto e mi eressi
     In quell’ebbrezza, in quel furor, che bella
     Rende e voluttuosa anche la morte!
     Ben io potea da le superbe vette
     Serenamente contemplar la vita;
     Ma l’amor tuo, ma l’odio tuo, dolente
     Stirpe dell’uom, così m’attrasse un giorno.
     Che di me stesso armato, entro l’abisso
     Del tuo dolor men venni, e l’opra e il pianto
     Divider teco alteramente elessi.
     Tuonò per gl’insueti antri la voce
     De’ vaticinj miei come parola
     D’odiosa follia; volse ghignando
     A me la saggia ipocrisia le spalle;
     Ma s’io fui saggio e dissi appieno il vero,
     Voi, nè già guari, o miei figli, il saprete.


VIII.


«La vecchiarella, che seduta al sole
     Nel giardin sottostante, il guardo aguzza
     A traverso il cancel, verso la via
     Polverosa fra’ campi, io la conobbi
     Giovane sposa e lieta madre. Ad uno
     De’ suoi poderi il padre mio l’avea
     Chiamata a lavorar col buon consorte,
     Quando, in un verno inoperoso, ardea
     Nel derelitto paesel la fame.
     Due vispi figlioletti a un pàrto nati
     Le ruzzavano intorno, e di sue cure
     Sollecite, amorose eran l’oggetto.
     Odorava di spigo e di codogne
     La pulita casetta, al cui solajo
     Pendean, d’aurati lampadarj invece.
     Tardive sorbe ed appassiti grappi.
     Saldo nel mezzo della stanza, quasi
     Monumento ed altare, ergea fra’ quattro
     Panconi enormi i ben librati staggi
     L’operoso telajo, ove al mattino,
     Mentre ancora lo sposo e i fanciulletti
     Nelle braccia tenaci eran del sonno,

     Canticchiando sommessa ella sedea
     A tramar della tela il grezzo ordito.
     Ma poi che un alto senno, imperíali
     Fasti sognando, a fecondar si accinse
     D’italo sangue gli eritrèi sterpeti,
     Precipitò con l’itale fortune
     Della casa modesta insiem la pace.
     Anch’esso il buon marito ebbe con gli altri
     A mutare in feroci armi la vanga;
     E col riso alle labbra e il pianto in core,
     Veleggiò lunghi giorni a’ lidi ignoti
     Ove ignaro il traea l’altrui talento.
     Ahi, non tutte trascorse eran due lune
     Da quando egli partì, che un malor cieco
     Strinse la gola a’ due fanciulli; e quale
     Restò la madre, orba d’entrambi, a un tratto,
     Solo può dirlo delle madri il core.
     Le si apría fra tante ombre un fil di luce:
     Ei tornerà, pensava. E non lontano
     Era il dì sospirato, allor che un nembo
     Di sconfitta il vessil nostro sommerse.
     Risuonò il mondo al nostro lutto; pianse
     La derelitta, ed. aspettò. Parole
     Di fraterni conforti udía dintorno,
     E assidua, ardente una speranza in petto:
     Ei vive, le dicea; ma inorridito
     Da visfoni atroci era il sno core.
     Solo, perduto nella steppa immensa,
     A la rigida notte, ella il vedea,
     Sanguinante, digiuno, in su la nuda
     Terra supino. Luccicar nell’ombra
     Orrida ne vedea gli sbarrati occhi,
     Desíosi d’un noto astro, d’un caro
     Volto: profondi, animati occhi, accesi
     Di sì vivo dolor, che con la ferrea
     Mano serrarli non potea la morte.

Così, fragile barca a’ flutti in preda,
     Lung’ora errò la poverella mente,
     Finchè da un fosco turbine travolta,
     De la follia ne’ gorghi atri disparve.
     E son dieci anni omai, che a la stess’ora,
     O borea strida o il sollíon fiammeggi,
     Da la celletta sua là se ne scende;
     Presso al ferreo cancel cheta si asside;
     E con gli occhi a la via, fra le preghiere
     Ripetendo sommessa il caro nome,
     La paziente vecchiarella aspetta.


IX.


«Io di qui vi contemplo, uomini, a cui
     La fortuna volubile concede
     Benignamente le carnose groppe:
     Eroi scettrati, aruspici infallibili,
     Impennacchiati ammazzatori, arcigni
     Rigattieri d’Astrea, prosciugatori
     Di Banche, prestigiosi archimandriti
     Di pie congreghe, apostoli e tribuni
     Del proprio ventre. A voi buoni, a voi prodi
     S’inchina il mondo trepidante; a voi
     Laudi strimpella il ribechin fiorito
     De’ rifunghiti menestrelli: io, stolto
     Orditor d’alti sogni, in voi saetto
     L’ultimo strale del mio sdegno; sprezzo
     Plebee minacce, auree lusinghe; e quanto
     Più mugghia osanna a voi dintorno il gregge.
     Tanto più sorge, e il morbid’aer fende,
     Lungo, acuto, insistente il fischio mio.


X.


«Udii le strida, e il furibondo io vidi,
     Reo della propria infermità, legato

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     Da fasce atroci ad una ferrea scranna.
     Su la sua fronte dal dolor contratta
     Chiodi parean gli scarsi, ispidi crini;
     Si profondavan ne l’esangue volto
     I neri occhi, due nere anime, due
     Punti che interrogavan l’infinito.
     Strette a’ fianchi anelanti avea le braccia;
     Nude le gambe scarne; enormi e lividi
     Da l’alto seggio penzolanti i piedi.
     Con interrotto lamentío, con voce
     Di fanciulletto moribondo, un sorso
     Chiedeva, un sorso. La tarchiata suora,
     A la custodia de la sala addetta,
     Senza gli occhi levar da un libro santo.
     Cristianamente rispondeagli: Crepa!


XI.


«Ella verrà: già della sua presenza
     Tutta la radíosa estasi io sento,
     Un tramontar di tutti i sensi in una
     Beatissima calma, un ineffabile
     Dissolvimento, come allor che trepida
     L’anima nell’amata anima penetra,
     E in un moto, in un’ansia, in un oblio
     Divino, il cielo dell’amore attinto,
     Soavissimamente si distempra,
     E trasfondendo altrui la propria vita,
     Nell’immortalità sente la morte.


XII.


«Te per l’aspro sentiero urlando aízza
     Barbaramente il vettural rubesto,
     O macero giumento; e tu, pontando
     Le gambe ésili ed inarcando il collo,
     Su per l’erta affannosa il carro trai,
     Che qua e là grave sobbalza e cigola.
     Dal malacconcio pettoral, dal basto,
     Di strepitosi bubboli guernito.
     Rossi erompono al sol gl’impostemiti
     Tuoi guidaleschi; anelano digiuni
     Quali mantici i tuoi fianchi; nè certo
     Del raro cibo, de la via rupestre
     E del càrco inegual tanto ti duoli,
     Quanto dell’uom, che spensieratamente
     Fischiettando ti guida, il loco spia
     Più doloroso del tuo corpo, dove
     Appuntar possa il pungolo e le tue
     Vecchie piaghe avvivar d’altre ferite.
     Non però ti ribelli: e che potresti,
     Misero, tu contro al crudel signore
     C’ha la tua vita e la tua morte in pugno!
     Tacito, rassegnato, a la feroce
     Servità ti sobbarchi, e sol co’ tristi
     Occhi l’umana ingrata indole accusi.


XIII.


Follie, follie! Chi parla in me? Per fermo
     Dentro l’anima mia candida e buona,
     Una fosca, maligna alma si appiatta
     Scovarla io debbo e flagellarla tanto
     Che solo alfin col mio dolore io resti.
     Bizzarra caccia: l’ombra mia perseguo!
     A me dinanzi, come in uno specchio,
     Vedo un altro me stesso; e quando il sole
     De’ suoi raggi m’accende, egli si oscura;
     E se in alto, mi lancio e al cielo aspiro,
     Accosciato nel fango egli sogghigna.


XIV.


«O tempeste dell’anima! Solea
     Come selvaggia procellaria un tempo
     Gavazzare il mio cor fra’ nembi vostri:
     Musiche marziali erano a lui
     Tra le selve o sul mar gli urli del vento:
     Tede festive le sulfuree vampe
     Che solcavano il sen tetro a la notte;
     Ebbríetà di vorticose danze
     Del turbine le spire, in cui ravvolto,
     Dagli abissi del mondo il ciel vedea.
     Su la vetta d’un’alpe, a un picco immane
     Di ghiaccio, all’orlo d’un burron sospeso,
     Mi rivedea meravigliando il sole;
     E come i raggi suoi, puri ed acuti
     Penetravano il mondo i miei pensieri.
     Torbido il core or s’impaluda, stanco
     D’interrogar fra’ turbini la morte:
     In una calma plumbea di letargo,
     In un immenso stupefacimento
     Muto, immemore, inerte il pensier giace.


XV.


Fisso in un punto luminoso il ciglio
     Sì lungamente, audacemente io tenni,
     Che allo sguardo abbagliato il ver si spense.
     Nulla di quanto agli occhi altrui sorride,
     Nulla di quanto a me si volge intorno
     Io vedo più; ma la parola, il pianto,
     Ogni più lieve fremito, ogni moto
     Dell’umano dolor nell’ombra io sento.
     O selvaggia armonia! Sopra a’ tuoi flutti
     Trabalzando, fremendo, in furor vano
     L’anima trambasciata erra, e nel mare
     De la pietà, de la follia si perde.


XVI.


«Entro un magico cerchio, all’ombra, al sole.
     Assiduamente il mio pensier si aggira;
     E quale il peso a trascinar dannato,
     Qual sia dell’opra angoscíosa il fine,
     Non cerca più, forse non può, nè vuole.
     Una desidia inconsueta, un molle
     Torpor l’invade; tacito si avvolge
     Nell’inane fatica; e ancor che in terra
     Posar l’opra e sè stesso in un potrebbe,
     Su l’orlo de l’abisso il peso immane
     Traesi dietro ansando; e parimenti
     Ha della vita e della morte orrore.


XVII.


«Non delitti, non colpe, errori forse
     Commisi, e n’ebbi io sol, misero, il danno;
     Pur qual reo fuggitivo, io d’una ad altra
     Piaggia trabalzo, e ad ogni moto, ad ogni
     Sguardo dell’uomo tremando m’inselvo.
     Ma non seno di notte o di foresta,
     Non muto e desolato antro di morte
     A l’altrui caccia, al mio terror m’invola.
     A me dintorno, ecco, ognor più si stringe
     La congiurata ira fraterna, e fieri
     Veltri sguinzaglia, e frodi nuove ordisce.
     Sul capo mio bronzea si aggrava intanto
     La notte; e ne la notte un occhio enorme
     Vigila: un occhio eternamente aperto,
     Che i miei pensieri, i miei palpiti spia,
     E forando l’immensa ombra, perpetuamente
     il mio capo, il petto mio trafigge.»

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XVIII.


Qual supremo dolor, qual repentino
     Flutto di sangue quel cervel percosse,
     Ch’era da tante pugne uscito illeso?
     Nel triste loco, in solitario letto,
     Da mortal souno oppresso Aroldo giace.
     Da’ veroni dischiusi entra l’aurora
     A sparger de le sue rose la morte;
     Indistinto con l’aure entra il profumo
     Del contiguo giardino; e con lor viene
     Improvvisa colei, che de’ pensieri
     E de’ baci d’Aroldo ebbe il più puro.
     Si gittò gemebonda in su l’amato
     Corpo anelante nell’affanno estremo;
     E sciolto il freno alla parola e al pianto.
     La nivea fronte, le gelide mani
     Gl’inondava di lagrime e di baci:
     «O fronte, che giammai non ti piegasti
     A terrena possanza, ecco or ti pieghi!
     O dolci e penetranti occhi, che tutta
     L’anima delle cose e il ciel vedeste,
     Qual incanto maligno oggi vi oscura!
     Soavi labbra, labbra sitibonde

     Delle fonti del vero e de’ miei baci,
     Labbra, che a, lenti sorsi, a stilla a stilla
     Beveste il fiel de la tristizia umana,
     Labbra, da cui, pari a falange sacra,
     Tanta onesta proruppe ira di canti,
     Sigillate per sempre ora voi siete?
     Apritevi, o pietosi occhi, e d’un raggio
     Consolate l’orrenda ombra che opprime
     L’anima mia; schiudetevi, soavi
     Labbra: ch’io senta ancor l’armoniosa
     Voce, che tante volte il ciel mi aperse!»

Ei non la vide; nel mistero immenso
     Tramontavan le sue grandi pupille,
     D’altro ciel forse e d’altri lidi in traccia;
     Ma quando l’armonia de l’aspettata
     Parola accolse ne l’intènto orecchio.
     E caldo su la fronte e su le mani
     Piover sentì misto co’ baci il pianto.
     Una serenità nova, un sorriso
     Vago avvivò la trasognata faccia:
     Anelante si eresse, un grido mise,
     E trepido tentando il capo amato,
     Chetamente nell’alta ombra s’immerse.