Poemetti (Rapisardi)/L'impenitente
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L’IMPENITENTE.
I.
Già d’ali armato, in voli audaci, i regni
Più tenebrosi della vita io corsi,
Nè di mostri e di numi ebbi sgomento.
Erano i miei pensieri aquile al sole
Artigliatrici di superbe altezze;
Eran le voci mie spade lucenti
Nella fucina dell’onor temprate.
Oh furíar di procellose penne
Squillanti all’etra ríottoso come
Bellicosi oricalchi, e fragor vivo
Di pugne ultrici che fendeano il seno
De la rea valle in turpi sonni immersa!
Oh repente piombar su le fastose
Viltà del mondo, e sgominate trame
Di legali congiure, e fuga e scempio
Di eniniti! Il viver mio fu tutto.
Una impari battaglia. Or su la gleba,
Che beve ingorda il sangue mio, piagato
Guerriero io giaccio. Stringesi dintorno
Agli occhi miei l’areana ombra; feroci
Urli di belve, a me ben note, ascolto;
Ma sul sinistro cubito sorretto,
Ancora al cielo ergo la fronte; ancora
Nel pugno mio l’arduo vessil fiammeggia;
E se il brando non più, lo sguardo ancora
Le nemiche, perplesse orde ferisce.
II.
Bianco cero sei tu, che si consumi
In fiamma di pietà sopra un altare,
E il penetral d’un freddo ádito allumi
Di croci sparso e di memorie care.
Esultano di canti e di profumi
Le vie dintorno e i verdi campi e il mare;
Tu, di piaceri schiva e d’ansie avare,
Come dovere il sagrificio assumi.
Al tuo roseo chiaror, trepido il lento
Fianco io sollevo dal triste giaciglio,
E mirando e sperando apro le braccia:
Di lagrime soavi empiesi il ciglio,
E in un amor, che il vasto essere abbraccia,
Estasíar, trasumanar mi sento.
III.
Pazzi canti ascoltai, scherni feroci
Che aprían solchi di foco entro al mio petto.
«Suda all’opera immane, umile armento:
Sdrajato all’ombra la Bellezza io canto:
È tua legge e destino il mio talento:
Nato al piacer son io, tu nato al pianto.
Muori in pace al mio piè, gregge maligno:
De la Felicità sol io son degno;
Da’ miei nobili padri io non traligno:
L’oro è ’l mio dio, la voluttà il mio regno.»
IV.
E nella notte una gran luce io vidi,
Ed un’oscura maestosa forma
Campeggiava nel mezzo a la gran Ince.
O divina, gridai, se immagin vana
Del mio sogno non sei, dammi ch’io senta
La voce tua solo una volta! Il cenno,
Che da gran tempo spasimando aspetto,
Balenar ne’ tuoi fieri occhi non vedo?
O m’illude la brama? Io, se fallace
Non ragiona il pensier, non parla il core,
Sento che l’ora profetata è presso;
Ma come, ahimè, da questo letto orrendo
Sorger potrà l’affranto corpo, come
Sfidar le sorti d’un final conflitto,
Se il fianco mio tu non sorreggi, ed armi
Di tue folgori sante il braccio mio?
Numeroso e d’astuto animo è questo
Vulgo che mi conculca; ed io da tanti
Mali attrito non pur, ma di covate
Frodi e di sanguinose armi inesperto,
Piccolo e solo incontro a lui mi sento.
Silenzíosa ella ascoltava, il capo
Mestamente scrollando. Apri, soggiunsi,
Al mio tardo pensier la tua parola:
Illumina le vie del mio destino;
Tutto insegnami il ver. Come potrei,
Chiuso nell’ombra e del domani ignaro,
Riformare il mio stato, avventurarmi
Securamente alla divina impresa,
Se face e guida all’opra mia non sei?
Uom, che d’iguoto industrial congegno
Muover tenti le ruote, altin l’inetto
Braccio lamenta attanagliato e franto.
Sorgi, irata ella disse; io sarò teco!
V.
Le beffarde speranze, i brevi inganni,
Le forze incerte, i non concessi allori,
Le perfide beltà, gl’infidi amori,
Onde sanguina il cor dopo tanti anni,
Folle, dicon ghignando a’ miei dolori,
Stagion passò di gloríosi affanni:
Senza pianto una zolla e senza fiori
Terrà chi invan sfidò numi e tiranni!
Odo il ver triste; e incontro al mio destino
Per l’ombre alte procedo, ancor che senta
Nel mio cervello martellar la morte;
E su per l’erta, dolorando forte,
Con la pupilla a un picciol astro intènta,
Sanguinoso, anelante mi strascino.
VI.
Tu, di mistiche ubbie fosco la mente,
L’arte snaturi, l’amistà rinneghi,
Maledici la terra; e di beate
Fantasme in traccia e di sognati elisi,
Per le vie de la vita ebbro vagelli.
Da la fiorita solitaria sponda
Di questa fossa, a cui seren mi assido,
A te, tránsfuga, io guardo; e mentre sfuma
La sera, ed il mistero ampio ne incalza,
Dietro a te, dietro a voi, larve d’un’ora,
Verso, oh dolce vendetta, il mio compianto.
VII.
Se troppo presto o troppo tardi nato,
Se migliore o peggior degli altri io sia,
Non sa, nè vuol saper l’anima mia,
Cui preme più l’altrui che il proprio fato.
Ma dall’inferna o dall’eterea via
M’abbia un cieco poter qui balestrato,
Questo ben so, che alla servil genía
Straniero io vivo e a chi la piaggia ingrato.
Straniero a te, venale orda, che il regno
Ti arroghi, ed al cui piè l’onda si frange,
Per poco ancor, de le speranze umane;
Stranier non già (n’ho quasi onta e disdegno!)
Alla pietà, che solitaria piange
L’eccidio che su te librasi immane.
VIII.
Non della Fede giovanil, che tanti
Fiori a me porse, e indarno anco mi chiama,
Su l’ara rialzar gl’idoli infranti,
Gli aurei sogni rifar l’anima brama.
Poi che m’ebbe svelato Iside i santi
Suoi riti e dell’immenso esser la trama,
Vergognoso il pensier de’ vecchi incanti,
Altro che il vero, altro che lei non ama.
Ben per la selva orrenda, infermo, a stento,
Procede il piè, l’occhio precorre; e intorno
Lusingano le Ninfe, urlano i mostri:
Ma, così splenda ognora al mio soggiorno
Un raggio tuo, Madre infinita, il sento,
Non saran senza onor gli studj nostri.
IX.
O sempre care a me fronti canute
Che asciugai, che baciai nell’ore estreme;
Bocche soavi, eternamente or mute,
Ov’io libai le voluttà supreme;
Poi che l’anima mia v’ebbe perdute,
Su le vittorie sue squallida geme;
Non sorriso di pace e di salute
L’opra mi allieta, e oblio freddo mi preme.
Sola per le mie case erme una cara
Superstite si aggira: o madre mia,
Fatta omai ombra, e di te stessa ignara!
Nè guari andrà.... Frena i singulti, o core;
Negli altrui danni il danno proprio oblia:
Muoion le forme; l’Ideal non muore!
X.
Già tutta biondeggia l’immensa pianura:
Il mar di smeraldo mutato s’è in òr;
Su, nova progenie, la mèsse è matura:
Ti getta, ordinata falange, al lavor.
Non odi? Al mattino l’allodola trilla,
Si oblía ne la luce serena del dì;
Errante a le sere la lucciola brilla
Intorno alla siepe che Maggio fiorì.
Affila, progenie rubesta. il falcetto;
Infoca al fervore dell’opra la man:
Cui meglio affatica l’acciar benedetto
Speranze più cèrte sorride il domán.
Lavora, ma pensa che aspra fatica
Di sacro sudore quest’erbe annaffiò;
Che storia d’affanni compila ogni spica,
Che febbri, che pianto, che fame costo.
Rammenta, che il prato che araro i tuo’ buoi,
Le zolle già morte che floride or son,
I pingui ricolti, che un dì saran tuoi,
Or nutrono il fasto d’un bieco padron.
Rammenta, che ancora son bronchi, son sterpi,
Che attorconsi al braccio, che squarciano il piè;
Son lubriche insidie di viscide serpi,
(O sacra impostura, somigliano a te);
Son lappole irsute, zizzanie crudeli,
Che al provvido pane contendono il suol;
Papaveri vani, che in esili steli
Rosseggiano, audaci cullandosi, al sol.
Oh dolce, se l’opra diurna è fornita,
Attorno a la mensa tranquilli seder;
In crocchio adagiati su l’erba fiorita
Mandare a la sposa lontana il pensier!
Quand’Espero imbianca le biade su l’aja,
Veder le fanciulle vezzose danzar;
E cèrti d’un caro convegno, la gaja
Canzone a’ silenzi notturni affidar!
Ma fin che il lavoro, salute del mondo,
Al plaustro è legato d’un nume crudel,
Non pace agli schiavi, non lume giocondo,
Non riso d’amore concesso è dal ciel.
Affanna, augurale falange, a le glebe
Che tanto travaglio, tant’ossa inghiottir;
(Deh presto, dall’opra redenta, la plebe
Raccolga la mèsse del sacro avvenir!)
Rotando concorde l’acciaro, ti avanza
Pe’ campi feraci che t’apre il destin;
Diradica i bronchi dell’irta ignoranza,
Atterra l’errore che ingombra il cammin.
Su, sterpa animosa con l’erbe nemiche
L’ignavia che impolpa dell’opra servil,
L’invidia che morde le oneste fatiche,
La turpe ingiustizia che inalza il più vil.
Domani la fiamma nemica agl’ignavi
Le glebe mietute più pingui farà;
Il regno augurato dai padri e dagli avi,
La Pace, sospiro del mondo, verrà.
XI.
Odio, nol nego, e di sì fosche bende
L’ira talor gli aeri miei sensi allaccia,
Che con furor di flutti il cor si caccia
Contro chi il giusto opprime e il vero offende.
Ma come prima a’ torvi occhi si affaccia
L’Idea che le mie notti unica accende,
Ecco, Amor torna, e in cerala bonaccia
Sotto a lui la selvaggia anima splende.
Così, volgo maligno, entro il mio core,
Nell’opre mie, ne’ detti miei sfavilla
Con alterna costanza odio ed amore:
Non l’amor tuo, che il mondo gabba e i santi;
Non l’odio tuo, che frigido distilla
Da la lingua de’ preti e de’ pedanti.
XII.
O dell’Etere padre, unico, immenso
Poter che tutto crei, tutto governi,
E in elettrici flutti il raro e il denso
Vorticoso mutando, il tutto eterni;
Se inanellata in vincoli fraterni
A’ soli, a’ mondi esser mia vita io penso,
Della terra e del ciel comprendo il senso,
La forza, i moti, i volgimenti alterni.
Ma se da te, dagli altri esseri scisso
Il mio stato io mi fingo, e la distesa
Del ciel contemplo e il cieco uman soggiorno,
Nell’infinito baratro sospesa
L’anima si spaura, e non che intorno,
Spalancar dentro a sè vede l’abisso.
XIII.
Chi diede a’ polsi tuoi l’anima invitta,
Onde potevi, o tarda eraclia prole,
Sossoprar l’are e campeggiar la possa
De’ regnanti Vampiri? Umile or ora
Te vide il mondo strascinar pe’ solchi
Fecondati di sangue il ferreo giogo
De la miseria, ed all’errore, al pianto
Te predicò perennemente addetto.
Oh veder bieco! Nel servil travaglio
Maturava la grande anima il seme
De la Redenzion; crescea nell’ombra
In lenti strati, in turbinosi flutti
La tua coscienza, sì che alfin gli esosi
Chiostri squarciando, con fulminea possa
La terra invase e volse in fuga i numi.
Lentamente così ne’ fianchi brulli
Nuova forza di lave Etna concrea:
Spregian la pace del Titan dormente
Greggi incaute e pastori; a lui sul dorso
Si aggrappan qua e là, quasi per gioco,
Capanne e ville, e con sovrano orgoglio
Spensierato e canoro il bosco ondeggia.
Ma se improvviso ei si ridesti, e il corpo
Ruggendo scrolli, nelle fauci immani
Ecco precipitar ville e capanne,
Cigolando e scoppiando arder le selve,
E di fumo e di fiamme atre ravvolto
Impallidir, bieco guatando, il Sole.
XIV.
Precipita la notte, infuria il mare,
Lontano è il lido, e frale, ahimè, la barca,
Di merci no, ma di Chimere càrca,
Molte odíose altrui, tutte a me care.
Orsù, gridan le ciurme, il legno scarca;
Scegli fra tante forme or le più chiare
Con sottile giudicio e con man parca;
Gitta l’altre animoso all’onde avare.
Tacito sulla prua l’onda mugghiante
Diritto io solco, e forse a nuova aurora
Afferrerò dell’alta Isola il porto;
E forse tu, se già dal ciel m’hai scorto,
Sorriderai benignamente allora,
Navigator dell’Infinito, o Dante.
XV.
Fra le rovine di famosi liti,
Fra scheletri e deserti a che m’inviti?
Prische età, morte genti io non descrivo:
All’avvenir, non al passato, io vivo.
XVI.
Come dai gorghi della notte enorme
Siderali fulgori apre Natura,
E dal sen della terra atro e difforme
Próvvide spiche e florida verzura;
Così da questa vita egra ed oscura
Al sorriso d’Amor che mai non dorme,
Emergono talor nitide forme
D’intelligenza e di bellezza pura.
Le raccoglie presago entro al suo specchio
Magico il Genio; ed una primavera
Sparge intorno di sogni alti e divini;
E porgendo a sublimi inni l’orecchio,
Gitta audace dall’una all’altra sfera
Di crisóliti un ponte e di rubini.
XVII.
O torreggiante su le tristi case
Del sobborgo operoso, aerea mole,
Che la terra opprimendo, al cielo aspiri.
Non aspettar che i tuoi fastigi io lodi
E l’ampie luci e le terrazze apriche,
Onde al beato possessor dintorno
Un diverso si schiude aspetto immenso
Di villaggi, di boschi e di marine.
Calcareo mostro io ti dirò, che usurpi
Con cento occhi l’azzurro, e da le cento
Stupide bocche a’ quattro vènti aperte
L’aria tracanni a’ petti altrui rapita.
Te non visiti mai raggio d’amore,
Magion superba all’ozio sacra e al fasto!
Per l’ampie sale tue striscino l’ore,
Di colpevoli giuochi e d’ozíosi
Studj ministre; ed a le mense, a’ letti
Vigili il tedio, e il crasso ospite uccida!
Ma dentro a voi, grigi tugurj, dove
La solerte fatica ansa, e l’industre
Strumento stride. e poco pane ha il desco,
Incoronata di vermigli fiori
La speranza si assida, e con l’arguto
Canto, che le duranti anime allena,
Al novo regno dell’Amor le guidi!
XVIII.
Cime noi siam di solitarj monti
Col ghiaccio in dosso e con le fiamme in seno;
L’invide nubi ci avvolgon le fronti,
Noi guardiamo, oltre ad esse, il ciel sereno.
Chiare su’ fianchi nostri esultan fonti,
Che all’estivo fervor non vengon meno;
Settemplici giardini, aerei ponti
Ordisce sopra a noi l’arcobaleno.
Che fa, se un gregge di nettunj mostri
Ringhia irato al piè nostro e si convelle?
Hanno stanza fra noi l’aquile altere.
Che val furia di nembi e di bufere?
Sono i baci del Sole i premj nostri;
Son le umane virtù nostre sorelle.
XIX.
Vibra dall’infeconda arbore a’ rami
Il mattutino giardinier la scure,
Ed a mirar la prossima caduta
Dell’ombra annosa il passeggier si arresta.
Gemono a colpi ben temprati i nocchj
Rubesti; incerte tremolan le foglie
All’insulto incompreso, e con sommesso
Murmure l’aura interrogando vanno.
In un silenzio sospettoso assorte
Stan le piante vicine, e dei cognati
Ceppi all’eccidio abbrividir le vedi.
Piombano intorno scavezzate o in brevi
Rocchj mozzate le frondose braccia;
Crocchia a’ crolli iterati il fusto nudo,
Che disperato il natio suolo abbranca,
Finchè vinto abbandonasi, e con sordo
Rombo la gleba sconquassata opprime.
Pietà ne sento: è triste ogni rovina;
E fu triste la tua, magico errore,
Che ombrasti già del mio pensiero il regno.
Ma se penso, o domata arbore, a quanta
Parte d’azzurro col perpetuo crine
Invidiasti e le bramose ciglia:
Se al vivo raggio io penso e alle rugiade
Che usurpasti gran tempo agli egri arbusti,
L’irsuto braccio e l’affilata scure
Che ti recise io lodo. Ecco, il mio sguardo
Spazia libero alfine; ecco la via
Ampia, diritta, popolosa, i tetti
Supini al sole, i domi austeri, il golfo
Gemino e il mar divino e d’Ibla i colli
Rosei sfumanti ne l’immenso opale.
Salve, o provvido acciar, che le nemiche
Ombre diradi e i vecchi inciampi atterri!
E voi, suddite piante, umili erbette,
Ravvivatevi alfine: il sole è vostro!
XX.
Il sudor de le fronti affaticate
Nell’orbe cave, su le glebe avare,
Le lagrime per l’alta ombra versate
E i torrenti di sangue han fatto un mare.
Da un incessante palpito agitate
Crescono l’onde al ciel crepuscolare,
Finchè, di quanto su le terre ingrate
Visse un tempo e regnò, più nulla appare.
Ma torna Amor: da le sanguigne spume
Bianca emerge Afrodite.... Ave, fecondo
Spirito, che su l’acque orride muovi!
Senton gli abissi il tuo fervido nume,
E intorno a te rinascer vede il mondo
Nuove età, nuove genti, ordini nuovi.
XXI.
Verrà: per quel poter che l’infinita
Mole perpetuamente urge e trasforma,
Sacra all’Idea che i novi animi informa,
Veduta dal pensier, dal cor sentita,
Una specie verrà, che da la torma
Nostra, dagli anni e dal dolor contrita,
A più alti destini, a miglior forma
Divinamente inalzerà la vita.
A te. stirpe sovrana, i ferrei nodi
Sciorran gli Enimmi, onde sì fiera in noi
Lasciò la Singe i freddi artigli infissi;
Sveleran le Cagioni ultime a’ tuoi
Sguardi il semplice ordito, e in nuovi modi
Regnerai con amor cieli ed abissi.
XXII.
Ascenderò dei secoli la vetta;
De la Giustizia agiterò la face;
E con la fronte al vasto azzurro eretta,
Alla terra ed al mar griderò: Pace!
Al grido mio si scoterà l’inetta
Ciurma (in pasto serbata al dio rapace)
Che libertà da’ suoi tiranni aspetta,
E folta, in armi, al cenno lor soggiace.
Sonerà nel mio grido al suo commisto
L’imprecazion dei popoli traditi,
L’onta e il rimorso dei pugnaci padri;
Soneran l’ansie, i gemiti infiniti
Di tutti i figli, di tutte le madri,
E il tuo sospiro, il tuo perdóno, o Cristo!