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     Rugosi volti, riluttanti seni
     Ch’a’ trafitti lattanti offronsi ancora;
     Corpi inermi, innocenti (o madri, udite!)
     Che ne’ siculi campi, entro le cave
     Di Luni, per le industri insubri vie,

     L’indocil fame a castigar, mietuti
     De’ prodi ha il ferro e de’ prudenti il senno!
     Passa, o torbido fiume, e al mar t’affretta:
     Di là dal mare il regno mio risplende.


L’IMPENITENTE.


I.


Già d’ali armato, in voli audaci, i regni
     Più tenebrosi della vita io corsi,
     Nè di mostri e di numi ebbi sgomento.
     Erano i miei pensieri aquile al sole
     Artigliatrici di superbe altezze;
     Eran le voci mie spade lucenti
     Nella fucina dell’onor temprate.
     Oh furíar di procellose penne
     Squillanti all’etra ríottoso come
     Bellicosi oricalchi, e fragor vivo
     Di pugne ultrici che fendeano il seno
     De la rea valle in turpi sonni immersa!
     Oh repente piombar su le fastose
     Viltà del mondo, e sgominate trame
     Di legali congiure, e fuga e scempio
     Di eniniti! Il viver mio fu tutto.
     Una impari battaglia. Or su la gleba,
     Che beve ingorda il sangue mio, piagato
     Guerriero io giaccio. Stringesi dintorno
     Agli occhi miei l’areana ombra; feroci
     Urli di belve, a me ben note, ascolto;
     Ma sul sinistro cubito sorretto,
     Ancora al cielo ergo la fronte; ancora
     Nel pugno mio l’arduo vessil fiammeggia;
     E se il brando non più, lo sguardo ancora
     Le nemiche, perplesse orde ferisce.


II.


Bianco cero sei tu, che si consumi
     In fiamma di pietà sopra un altare,
     E il penetral d’un freddo ádito allumi
     Di croci sparso e di memorie care.

Esultano di canti e di profumi
     Le vie dintorno e i verdi campi e il mare;
     Tu, di piaceri schiva e d’ansie avare,
     Come dovere il sagrificio assumi.

Al tuo roseo chiaror, trepido il lento
     Fianco io sollevo dal triste giaciglio,
     E mirando e sperando apro le braccia:

Di lagrime soavi empiesi il ciglio,
     E in un amor, che il vasto essere abbraccia,
     Estasíar, trasumanar mi sento.


III.


Pazzi canti ascoltai, scherni feroci
     Che aprían solchi di foco entro al mio petto.

«Suda all’opera immane, umile armento:
     Sdrajato all’ombra la Bellezza io canto:
È tua legge e destino il mio talento:
     Nato al piacer son io, tu nato al pianto.

Muori in pace al mio piè, gregge maligno:
     De la Felicità sol io son degno;
Da’ miei nobili padri io non traligno:
     L’oro è ’l mio dio, la voluttà il mio regno.»


IV.


E nella notte una gran luce io vidi,
     Ed un’oscura maestosa forma
     Campeggiava nel mezzo a la gran Ince.
     O divina, gridai, se immagin vana
     Del mio sogno non sei, dammi ch’io senta
     La voce tua solo una volta! Il cenno,
     Che da gran tempo spasimando aspetto,
     Balenar ne’ tuoi fieri occhi non vedo?
     O m’illude la brama? Io, se fallace
     Non ragiona il pensier, non parla il core,
     Sento che l’ora profetata è presso;
     Ma come, ahimè, da questo letto orrendo
     Sorger potrà l’affranto corpo, come
     Sfidar le sorti d’un final conflitto,
     Se il fianco mio tu non sorreggi, ed armi
     Di tue folgori sante il braccio mio?
     Numeroso e d’astuto animo è questo
     Vulgo che mi conculca; ed io da tanti
     Mali attrito non pur, ma di covate
     Frodi e di sanguinose armi inesperto,
     Piccolo e solo incontro a lui mi sento.

Silenzíosa ella ascoltava, il capo
     Mestamente scrollando. Apri, soggiunsi,
     Al mio tardo pensier la tua parola:
     Illumina le vie del mio destino;
     Tutto insegnami il ver. Come potrei,
     Chiuso nell’ombra e del domani ignaro,
     Riformare il mio stato, avventurarmi
     Securamente alla divina impresa,
     Se face e guida all’opra mia non sei?
     Uom, che d’iguoto industrial congegno
     Muover tenti le ruote, altin l’inetto
     Braccio lamenta attanagliato e franto.
     Sorgi, irata ella disse; io sarò teco!


V.


Le beffarde speranze, i brevi inganni,
     Le forze incerte, i non concessi allori,
     Le perfide beltà, gl’infidi amori,
     Onde sanguina il cor dopo tanti anni,

Folle, dicon ghignando a’ miei dolori,
     Stagion passò di gloríosi affanni:
     Senza pianto una zolla e senza fiori
     Terrà chi invan sfidò numi e tiranni!

Odo il ver triste; e incontro al mio destino
     Per l’ombre alte procedo, ancor che senta
     Nel mio cervello martellar la morte;

E su per l’erta, dolorando forte,
     Con la pupilla a un picciol astro intènta,
     Sanguinoso, anelante mi strascino.


VI.


Tu, di mistiche ubbie fosco la mente,
     L’arte snaturi, l’amistà rinneghi,
     Maledici la terra; e di beate