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     Fantasme in traccia e di sognati elisi,
     Per le vie de la vita ebbro vagelli.
     Da la fiorita solitaria sponda
     Di questa fossa, a cui seren mi assido,
     A te, tránsfuga, io guardo; e mentre sfuma
     La sera, ed il mistero ampio ne incalza,
     Dietro a te, dietro a voi, larve d’un’ora,
     Verso, oh dolce vendetta, il mio compianto.


VII.


Se troppo presto o troppo tardi nato,
     Se migliore o peggior degli altri io sia,
     Non sa, nè vuol saper l’anima mia,
     Cui preme più l’altrui che il proprio fato.

Ma dall’inferna o dall’eterea via
     M’abbia un cieco poter qui balestrato,
     Questo ben so, che alla servil genía
     Straniero io vivo e a chi la piaggia ingrato.

Straniero a te, venale orda, che il regno
     Ti arroghi, ed al cui piè l’onda si frange,
     Per poco ancor, de le speranze umane;

Stranier non già (n’ho quasi onta e disdegno!)
     Alla pietà, che solitaria piange
     L’eccidio che su te librasi immane.


VIII.


Non della Fede giovanil, che tanti
     Fiori a me porse, e indarno anco mi chiama,
     Su l’ara rialzar gl’idoli infranti,
     Gli aurei sogni rifar l’anima brama.

Poi che m’ebbe svelato Iside i santi
     Suoi riti e dell’immenso esser la trama,
     Vergognoso il pensier de’ vecchi incanti,
     Altro che il vero, altro che lei non ama.

Ben per la selva orrenda, infermo, a stento,
     Procede il piè, l’occhio precorre; e intorno
     Lusingano le Ninfe, urlano i mostri:

Ma, così splenda ognora al mio soggiorno
     Un raggio tuo, Madre infinita, il sento,
     Non saran senza onor gli studj nostri.


IX.


O sempre care a me fronti canute
     Che asciugai, che baciai nell’ore estreme;
     Bocche soavi, eternamente or mute,
     Ov’io libai le voluttà supreme;

Poi che l’anima mia v’ebbe perdute,
     Su le vittorie sue squallida geme;
     Non sorriso di pace e di salute
     L’opra mi allieta, e oblio freddo mi preme.

Sola per le mie case erme una cara
     Superstite si aggira: o madre mia,
     Fatta omai ombra, e di te stessa ignara!

Nè guari andrà.... Frena i singulti, o core;
     Negli altrui danni il danno proprio oblia:
     Muoion le forme; l’Ideal non muore!


X.


Già tutta biondeggia l’immensa pianura:
     Il mar di smeraldo mutato s’è in òr;
Su, nova progenie, la mèsse è matura:
     Ti getta, ordinata falange, al lavor.


Non odi? Al mattino l’allodola trilla,
     Si oblía ne la luce serena del dì;
Errante a le sere la lucciola brilla
     Intorno alla siepe che Maggio fiorì.

Affila, progenie rubesta. il falcetto;
     Infoca al fervore dell’opra la man:
Cui meglio affatica l’acciar benedetto
     Speranze più cèrte sorride il domán.

Lavora, ma pensa che aspra fatica
     Di sacro sudore quest’erbe annaffiò;
Che storia d’affanni compila ogni spica,
     Che febbri, che pianto, che fame costo.

Rammenta, che il prato che araro i tuo’ buoi,
     Le zolle già morte che floride or son,
I pingui ricolti, che un dì saran tuoi,
     Or nutrono il fasto d’un bieco padron.

Rammenta, che ancora son bronchi, son sterpi,
     Che attorconsi al braccio, che squarciano il piè;
Son lubriche insidie di viscide serpi,
     (O sacra impostura, somigliano a te);

Son lappole irsute, zizzanie crudeli,
     Che al provvido pane contendono il suol;
Papaveri vani, che in esili steli
     Rosseggiano, audaci cullandosi, al sol.

Oh dolce, se l’opra diurna è fornita,
     Attorno a la mensa tranquilli seder;
In crocchio adagiati su l’erba fiorita
     Mandare a la sposa lontana il pensier!

Quand’Espero imbianca le biade su l’aja,
     Veder le fanciulle vezzose danzar;
E cèrti d’un caro convegno, la gaja
     Canzone a’ silenzi notturni affidar!

Ma fin che il lavoro, salute del mondo,
     Al plaustro è legato d’un nume crudel,
Non pace agli schiavi, non lume giocondo,
     Non riso d’amore concesso è dal ciel.

Affanna, augurale falange, a le glebe
     Che tanto travaglio, tant’ossa inghiottir;
(Deh presto, dall’opra redenta, la plebe
     Raccolga la mèsse del sacro avvenir!)

Rotando concorde l’acciaro, ti avanza
     Pe’ campi feraci che t’apre il destin;
Diradica i bronchi dell’irta ignoranza,
     Atterra l’errore che ingombra il cammin.

Su, sterpa animosa con l’erbe nemiche
     L’ignavia che impolpa dell’opra servil,
L’invidia che morde le oneste fatiche,
     La turpe ingiustizia che inalza il più vil.

Domani la fiamma nemica agl’ignavi
     Le glebe mietute più pingui farà;
Il regno augurato dai padri e dagli avi,
     La Pace, sospiro del mondo, verrà.


XI.


Odio, nol nego, e di sì fosche bende
     L’ira talor gli aeri miei sensi allaccia,
     Che con furor di flutti il cor si caccia
     Contro chi il giusto opprime e il vero offende.

Ma come prima a’ torvi occhi si affaccia
     L’Idea che le mie notti unica accende,
     Ecco, Amor torna, e in cerala bonaccia
     Sotto a lui la selvaggia anima splende.