Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
Così, volgo maligno, entro il mio core,
Nell’opre mie, ne’ detti miei sfavilla
Con alterna costanza odio ed amore:
Non l’amor tuo, che il mondo gabba e i santi;
Non l’odio tuo, che frigido distilla
Da la lingua de’ preti e de’ pedanti.
XII.
O dell’Etere padre, unico, immenso
Poter che tutto crei, tutto governi,
E in elettrici flutti il raro e il denso
Vorticoso mutando, il tutto eterni;
Se inanellata in vincoli fraterni
A’ soli, a’ mondi esser mia vita io penso,
Della terra e del ciel comprendo il senso,
La forza, i moti, i volgimenti alterni.
Ma se da te, dagli altri esseri scisso
Il mio stato io mi fingo, e la distesa
Del ciel contemplo e il cieco uman soggiorno,
Nell’infinito baratro sospesa
L’anima si spaura, e non che intorno,
Spalancar dentro a sè vede l’abisso.
XIII.
Chi diede a’ polsi tuoi l’anima invitta,
Onde potevi, o tarda eraclia prole,
Sossoprar l’are e campeggiar la possa
De’ regnanti Vampiri? Umile or ora
Te vide il mondo strascinar pe’ solchi
Fecondati di sangue il ferreo giogo
De la miseria, ed all’errore, al pianto
Te predicò perennemente addetto.
Oh veder bieco! Nel servil travaglio
Maturava la grande anima il seme
De la Redenzion; crescea nell’ombra
In lenti strati, in turbinosi flutti
La tua coscienza, sì che alfin gli esosi
Chiostri squarciando, con fulminea possa
La terra invase e volse in fuga i numi.
Lentamente così ne’ fianchi brulli
Nuova forza di lave Etna concrea:
Spregian la pace del Titan dormente
Greggi incaute e pastori; a lui sul dorso
Si aggrappan qua e là, quasi per gioco,
Capanne e ville, e con sovrano orgoglio
Spensierato e canoro il bosco ondeggia.
Ma se improvviso ei si ridesti, e il corpo
Ruggendo scrolli, nelle fauci immani
Ecco precipitar ville e capanne,
Cigolando e scoppiando arder le selve,
E di fumo e di fiamme atre ravvolto
Impallidir, bieco guatando, il Sole.
XIV.
Precipita la notte, infuria il mare,
Lontano è il lido, e frale, ahimè, la barca,
Di merci no, ma di Chimere càrca,
Molte odíose altrui, tutte a me care.
Orsù, gridan le ciurme, il legno scarca;
Scegli fra tante forme or le più chiare
Con sottile giudicio e con man parca;
Gitta l’altre animoso all’onde avare.
Tacito sulla prua l’onda mugghiante
Diritto io solco, e forse a nuova aurora
Afferrerò dell’alta Isola il porto;
E forse tu, se già dal ciel m’hai scorto,
Sorriderai benignamente allora,
Navigator dell’Infinito, o Dante.
XV.
Fra le rovine di famosi liti,
Fra scheletri e deserti a che m’inviti?
Prische età, morte genti io non descrivo:
All’avvenir, non al passato, io vivo.
XVI.
Come dai gorghi della notte enorme
Siderali fulgori apre Natura,
E dal sen della terra atro e difforme
Próvvide spiche e florida verzura;
Così da questa vita egra ed oscura
Al sorriso d’Amor che mai non dorme,
Emergono talor nitide forme
D’intelligenza e di bellezza pura.
Le raccoglie presago entro al suo specchio
Magico il Genio; ed una primavera
Sparge intorno di sogni alti e divini;
E porgendo a sublimi inni l’orecchio,
Gitta audace dall’una all’altra sfera
Di crisóliti un ponte e di rubini.
XVII.
O torreggiante su le tristi case
Del sobborgo operoso, aerea mole,
Che la terra opprimendo, al cielo aspiri.
Non aspettar che i tuoi fastigi io lodi
E l’ampie luci e le terrazze apriche,
Onde al beato possessor dintorno
Un diverso si schiude aspetto immenso
Di villaggi, di boschi e di marine.
Calcareo mostro io ti dirò, che usurpi
Con cento occhi l’azzurro, e da le cento
Stupide bocche a’ quattro vènti aperte
L’aria tracanni a’ petti altrui rapita.
Te non visiti mai raggio d’amore,
Magion superba all’ozio sacra e al fasto!
Per l’ampie sale tue striscino l’ore,
Di colpevoli giuochi e d’ozíosi
Studj ministre; ed a le mense, a’ letti
Vigili il tedio, e il crasso ospite uccida!
Ma dentro a voi, grigi tugurj, dove
La solerte fatica ansa, e l’industre
Strumento stride. e poco pane ha il desco,
Incoronata di vermigli fiori
La speranza si assida, e con l’arguto
Canto, che le duranti anime allena,
Al novo regno dell’Amor le guidi!
XVIII.
Cime noi siam di solitarj monti
Col ghiaccio in dosso e con le fiamme in seno;
L’invide nubi ci avvolgon le fronti,
Noi guardiamo, oltre ad esse, il ciel sereno.
Chiare su’ fianchi nostri esultan fonti,
Che all’estivo fervor non vengon meno;
Settemplici giardini, aerei ponti
Ordisce sopra a noi l’arcobaleno.
Che fa, se un gregge di nettunj mostri
Ringhia irato al piè nostro e si convelle?
Hanno stanza fra noi l’aquile altere.