Piccola morale/Parte prima/IV. La credenza e la credulità

Parte prima - IV. La credenza e la credulità.

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IV.


LA CREDENZA E LA CREDULITÀ.


Pochi hanno, credo, la diffidenza in quell’orrore che ho io; pochi in maggior concetto la buona fede. Quella può considerarsi come forza nemica che risolve e disperde, questa come forza propizia che raccoglie e congiunge. Dalla prima procedono virtù passive e colpe vigliacche; dalla seconda virtù attive e magnanimi errori. La virtù si trova frequentemente in compagnia della seconda; il delitto non può far lega che rado, o mai, colla prima. Concorrono nella buona fede il cuore e l’ingegno; quando parla da diffidenza il cuore sta zitto. Ma perchè dunque si ha un certo, quasi dirò, involontario disprezzo della buona fede, quando ecceda anche un poco soltanto i limiti della prudenza? Perchè un certo involontario rispetto, o per lo meno una certa involontaria ammirazione per la diffidenza, quando anche sia delle più ributtanti? Perchè nel primo caso, sentir [p. 18 modifica]subito odore di balordaggine; nel secondo, attribuire anche i trascorrimenti della ragione a soverchianza d’ingegno?

Molte sono le cose che potrebbero dirsi in questo proposito; a me basterà di notare per ora una di quelle che stimo principali cagioni a siffatti torti giudizii, il confondere cioè colla credenza la credulità, quantunque tra loro grandemente diverse. Sì, il fondamento de’ gravi errori ne’ quali incorriamo a giudicare della buona fede sta in questo, che prendiamo presso che sempre il credere per sinonimo d’ignorare. Credere non è sapere, mi si risponde; ma io soggiungo, che credere non è né anche ignorare. Se io ascoltassi un tale parlare una lingua da me non intesa, potrei dire ragionevolmente di prestar fede a quel dato racconto, che in quella data lingua mi fosse fatto? A ben considerare la cosa, altro non è il prestar fede al detto d’altrui, salvo che il far altri depositario di quel capitale di buon senno che crediamo ci abbia dato madre natura; nel che alcuna volta ci accade che il capitale ne frutti, alcun altra che rimanga scemato, secondo la dose di buon giudizio e di alacrità che ha colui, cui affidiamo di fare in vece nostra un uffizio tanto importante quanto si è quello del ragionare. In due modi si può da noi fare questa cessione rilevantissima; o assolutamente senza limitazione di tempo e di argomenti, in riguardo alla persona; o spezialmente, rispetto ad un solo fatto e dentro [p. 19 modifica]un dato confine di tempo. Sempre però richiedesi in prevenzione un esame, più accurato ed esteso nel primo caso, più sbrigativo, ma da dover essere indi a poco ripetuto, nel secondo. Ciò posto, può egli dirsi che il credere ignorare, e che la buona fede sia da confondere culla dappocaggine?

Il credere senza esame di sorte, ch’è credulità, non è cedere la porzione del nostro intendimento perchè sia adoperata alluopo da altri, come abbiamo detto accadere nella credenza; nessuno difatti può concedere ad altri ciò che non possiede egli stesso. Il credulo adunque noa può dirsi che creda, bensì che ignori e lasci ad altri il sapere. Qualunque sia la lingua nella quale altri gli parli, per esso è tutto uno; tanta cura si prende egli del significato delle parole, quanta della coscienza e dell’ingegno del parlatore. Si farebbe a questo imbecille un onore ch’egli non si merita, con aggregarlo a quella comunione di sapienti che si regolavano secondo il principio dell’Ipse dixit. Tra il maestro e il discepolo non c’è divario; hanno ambidue la stessa autorità al suo tribunale. Il teologo giovinetto, che, udendosi dire dal maestro dell’asino che volava, corse alla finestra a vedere, non era de’creduli, ma de’ credenti; e anzichè dar luogo alle beffe de’ suoi compagni, col magnanimo assoggettamento del proprio intelletto alla ragione di quello, cui correva obbligo sopra ogni altro [p. 20 modifica]di mantenersi e dimostrarsi verace, palesò assai per tempo l’acuto ragionatore ch’egli sarebbe diventato, e come avrebbe saputo sorvolare i particolari, o farsene scala per ascendere alla confemnlazione dell’infinito. Ma Gregorio che strignesi nelle spalle, e contentasi di dire: quando lo ha detto il tale sarà vero (senza prima conoscere che genere di verità sia poi quella onde si parla, e quale relazione ci corra tra essa verità e chi ne parla), Gregorio, dico, è credulo e non credente.

Dopo questa importantissima distinzione fra credenza e credulità, è da por mente ad un altro errore assai grossolano e comune, cioè di pensare che quanto più cieca è la credulità tanto più torni ad onore di quello in cui si ripone. Ma, domando io, che onore ne verrebbe alla bellezza che fosse tale giudicata da un cieco? Chi si terrebbe onoralo dagli omaggi di un pazzo? Non altrimenti accade della stolida credulità di certuni, colla quale si pensano far manifesta la propria devozione. Molto simili sono costoro a que’ lodatori stucchevoli, che non ti lasciano aprir bocca che prima non ti abbiano dato dell’uomo grande; o meglio a que’ servi balordi, i quali come cominci a dir loro di doverne andare in qualche sito, e di porsi a qualche faccenda, si mettono in via, o cacciano le mani all’opera, senza prima ascoltare nè dove andare, nè che far si debbano. — Credereste? — Già. — Ier sera... — [p. 21 modifica]Appunto. — Girando la cantonata che mette... — Non c’è dubbio. — Mi scontrai in... — Ci avrei scommesso! Questa è formula di discorso che udrete ripetere assai di sovente, cangiata forse alcun poco nell’espressioni, ma poco diversa nella sostanza. Tra questa balorda credulità, che mortifica le più nobili facoltà del nostro intelletto, e la malvagia diffidenza che le pervertisce, per poco che la mia scelta non rimarrebbe perplessa, in onta a quel mio naturale ribrezzo del sospettare che ho fin dalle prime confessata. Al credulo si fa rugginosa la memoria, si spunta la volontà, l’attitudine al raziocinio rimane prostrata. Non così del credente, il quale tenendo sempre vivi in sè stesso i fondamenti del retto discorso, gl’impiega a condegnamente apprezzare quel tale cui ne deve far dono.

A due capi per tanto riescono tutte le ciance fatte finora. Primo, a non reputare la credenza prerogativa d’ingegni poltroni, bensì doversi stimar tale la credulità; secondo, a non credere che si possa onorare chicchessia facendosi credulo a quanto da esso si dice o si fa, bensi potersi ciò ottenere credendogli dopo quel tanto esame che rende diversa dalla credulità la credenza. E qual pro da questi due capi? La credulità genera la debolezza, vuoi fisica, vuoi morale; la credenza la forza: da quella gli uomini rimangono a caso addossati come le pecore ignare; da questa si trovano congiunti in [p. 22 modifica]onesta e ragionevole famiglia. La credulità è tutta propria di selvaggi, la civiltà ha principio e vien prosperando colla credenza. Dalla credulità è assai agevole e breve il passaggio alla diffidenza, per quell’antico adagio che gli estremi si toccano: chi ha gustato una volta il sommo diletto che ci ha nel credere assennatamente, quando anche ritorni breve ora a diffidare, non tarderà molto a riporsi sul cammino migliore. Le facoltà dell’intelletto e del cuore, ove ci siano, sebbene abusate, non tolgono la speranza che possano essere adoperate a bene; ma dove mancano? Il giuoco delle lenti può fare alcuna volta travedere; ma il cieco darà di traverso o di fronte nelle muraglie ad ogni ora.