Pensieri e discorsi/Il sabato/VIII

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Il sabato - VII Il sabato - IX
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VIII.


Dal cristianesimo egli certo prese un suo paragone che riassume il concetto ch’egli ha, della vita umana:

Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle

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.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge...

Non è questo il cristiano, che a imitazione del divino maestro, deve prendere la croce, cadendo sott’essa, risorgendo sempre con essa? “Dalla tua mano ricevetti la croce, la porterò e la porterò sino alla morte, così come m’imponesti„. Quella del vecchierello non è una croce ma un fascio. Il poeta dissimula, il poeta sdegna l’imagine vera, che certo gli si era affacciata alla mente, ma è quella. Il Petrarca ha dato qualche colore e non altro: chè il fanciullo antico si è ridestato nel giovane trentenne e ha parlato col suo linguaggio d’allora. Solo in fine, in vece della gloria e della felicità ultima, è un

Abisso orrido, immenso,
Ov’ei precipitando il tutto oblia.

Un altro paragone è in lui che compendia la sua filosofia. Il paragone del letto. Ognuno ricorda, sì questo del Leopardi, sì l’altro del Manzoni: i quali furono ingegnosamente paragonati tra loro da un terzo valentuomo. Il Manzoni e il Leopardi si assomigliano molto in quello in cui differiscono: sono due convertiti; ma l’uno a rovescio dell’altro. Il loro piccolo sunto di filosofia sembra ritratto e ricorretto di su un modello comune. Che non è, io credo, di Dante; di Dante proprio, nè del Petrarca, nè d’altri, sebbene e in essi e in altri si trovi. È del cardinale Melchiorre di Polignac nel suo poema postumo Anti-Lucretius. Il poema fu tradotto due volte in versi italiani: e tutte e due le traduzioni, una col testo a [p. 80 modifica]fronte, si trovano nella biblioteca dei conti Leopardi. Il paragone del cardinale arcade è questo: “Come un malato si avvoltola nel letto con le membra inferme, ora adagiandosi sul lato sinistro, ora sul destro: e non giova: di che alza gli occhi, resupino: e non trova il sonno e sempre lo cerca; ciò che prima gli piaceva, poi lo tormenta e tortura; e non guarisce il suo male e nemmeno ne inganna la noia„. Si vede che dai tre versi di Dante “simigliante a quella inferma Che non può trovar posa in sulle piume Ma con dar volta suo dolore scherma„, si sono svolti alcuni particolari, che poi si ritrovano nel Manzoni e nel Leopardi.

Dice per esempio il Polignac: “Quod illi Primum in deliciis fuerat„; dice il Manzoni: “e si figura che ci si deve star benone„. Dice il Polignac: “Ceu lectum peragrat... In latus alternis laevum dextrumque recumbens: Nec iuvat... Nusquam inventa quies; semper quaesita„; e il Leopardi: “comincia a rivolgersi sull’uno e sull’altro fianco... sempre sperando di poter prendere alla fine un poco di sonno... senza essersi mai riposato, si leva„. Ma si può opporre che tutto era già in Dante o, prima di lui, in Giobbe, e che non c’è bisogno di credere che il Leopardi e il Manzoni vedessero il Polignac. Or bene: nella prefazione dell’Anti-Lucretius, si racconta che il Cardinale, malato a morte, non trovando pace nel suo letto di dolore, si ricordò di quei suoi versi “nei quali paragona l’anima che ammalata e agitata dalla passione delle cose terrene non trova mai pace, a un corpo infermo„. Si ricordò di quei versi e ripetè quel suo pensiero in alcuni altri versi bellissimi, cui gli astanti nel loro dolore, dimenticarono tutti, fuori, di uno: [p. 81 modifica]

Quaesivit strato requiem ingemuitque negata,

verso imitato dal Virgiliano:

Quaesivit caelo lucem ingemuitque reperta.

Questo racconto è tale, che i due nostri grandi scrittori doveva fermare, invogliare e commuovere. Il Polignac morendo applicava, in certo modo, il suo paragone non più dell’anima insaziata dell’epicureo, ma alla vita umana. E la reminiscenza di Virgilio colpì particolarmente il Leopardi. Si direbbe che sulla fine della lugubre comparazione egli lasciasse il Polignac per Virgilio. Non c’è in lui quel gemito che chiude così tristamente la lotta; ma l’uomo, per lui, muore, come Elissa, quando vede la luce: la luce, ossia la morte. “Venuta l’ora, senza essersi mai riposato, si leva„. Qual ora? L’ora del mattino, poichè ha durato a rivolgersi, “sempre sperando (spem elusam, ha il Polignac) tutta la notte„. Con l’aurora la morte, disse il Mantis a Leonida. Ma possiamo noi esser certi che il Leopardi conoscesse quel poema? Certo egli l’aveva nella biblioteca; e si può supporre facilmente che egli ammiratore di Lucrezio (che negli Errori Popolari è citato spessissimo) dovesse sin da fanciullo, quando la mente è di cera, leggere l’Anti-Lucrezio. Il padre non doveva lasciargli bere il veleno senza propinargli il contraveleno. Così questo, si può dire, lasciò nella sua anima più traccie di quello. Egli ricavò bensì dal poeta romano la descrizione dei primi momenti della vita dell’uomo, quando “La madre e il genitore Il prende a consolar dell’esser nato„; ma quanto più ha ricavato dal poeta franco-gallo! “Che ha a far teco la Natura? [p. 82 modifica]Matrigna certo, non madre la dirai, e invano la chiamerai, molto gemendo„. Non aveva egli con queste parole appreso, fin da fanciullo, forse, a maledire la natura? Non discendono da queste parole i suoi rimproveri, tante volte poi ripetuti e in tante forme, a quella che “dei mortali È madre in parto ed in voler matrigna„? “O natura, o natura, Perchè non rendi poi Quel che prometti allor? perchè di tanto Inganni i figli tuoi?„ In questo libretto, forse, egli apprese a disprezzare la felicità umana: “Appena le hai ottenute, le prendi a noia, cercando sempre in cose nuove ciò stesso che ti deluse quando lo provasti, e ti lasciò avido e desideroso di meglio„. Da questo libretto forse egli apprese il presentimento di quel vano pentirsi, di quel volgersi indietro, quando la vecchiezza abbia inaridito le fonti del piacere, e siano “le pene Sempre maggiori e non più dato il bene„. Trovava egli infatti qua e là nel savio e pio libro: “Ti staranno avanti gli occhi le gioie della vita trascorse e ti trafiggeranno il memore cuore, come saette. Reo di lesa voluttà quegli che a sè fiero nemico si astenne dall’amore e dal vino, seguendo più gravi consigli„. E il Leopardi scrisse:

A me se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all’altrui core
5E lor fia voto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest’anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
10Ma sconsolato, volgerommi indietro.

[p. 83 modifica]Nel libro declamatorio e, diciamolo, pedantesco egli notò forse prima che in Giovanni le lugubri parole: “Tu segui, invece della luce, dolci tenebre. Già, ti piacciono; la morte ti piace!„. Potrei fare altre citazioni; potrebbe, chi volesse, trovare altri raffronti sfuggiti a me. S’intende che il Pastore errante dell’Asia e il Gallo silvestre cantano con ben altra dolcezza e altezza. Ma qualche loro lugubre nota risonò nell’anima del poeta dalla lettura destinata forse dal padre a premunirlo o guarirlo. Sono, per esempio, al bel principio del libro V alcuni versi, che dovettero fermarsi nella mente del giovinetto lettore, per poi più tardi ridestarsi e riecheggiare: “Non sei simile a quelli cui, dopo aver fatti dolci sogni, è in uggia veder la luce del giorno quando... l’Aurora... li sveglia mal loro grado e dissipa le ombre soavi. Chè l’errore piace piú e sogliono sospirare trovando la luce, per la quale ritornano le noie del Vero„. Pensate come comincia il suo cantico il Gallo silvestre: “Su, mortali, destatevi. Il dì rinasce: torna la verità in su la terra e partonsene le imagini vane. Sorgete, ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero„.

Dunque il cardinale di Polignac è un ispiratore del Leopardi? In vero questi vuol dimostrare, nel primo libro e altrove, che la felicità umana è nulla e falsa senza e fuor di Dio. E le argomentazioni sue s’impressero nel fanciullo credente. Poi Dio gli tramontò dall’anima... e allora, “all’apparir del vero„, la Speranza cadde, e mostrava a lui “La fredda morte ed una tomba ignuda„, ignuda, senza la felicità infinita ma postuma, che sola è, se è.

E intanto il Manzoni, sulla fine del suo Romanzo, [p. 84 modifica]tirava “un po’ cogli argani„ una morale nuova dal vecchio paragone, di cui non poteva disconoscere la giustezza, e concludeva: “E per questo si dovrebbe pensare più a far bene che a star bene, e così si finirebbe a star meglio„.