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[p. 150 modifica] non c’è un libro francese dove non troviate a ogni occhiata grace, grace, massime parlando dei libri della loro nazione, encomiandoli ec.: grace, grace, mi viene allora in bocca, et non erat grace (pax pax et non erat pax, ma non so se cosí veramente dica S. Paolo, o qual altro scrittor sacro). Vedi questi pensieri p. 92-94.


*   Stridore notturno delle banderuole traendo il vento.


*   Si suol dire che la resistenza stimola e dà forze di compire e condurre a fine quello che si è tentato. [p. 151 modifica]Ora io soggiungo che spessissimo se io senza resistenza avrei fatto dieci, sopraggiunta la resistenza farò quindici e venti. E questo spesso di assoluta e determinata volontà, non già per soprabbondanza meccanica degli effetti della forza impiegata, maggiore del bisognevole per la resistenza incontrata e non contrappesata diligentemente alla resistenza, come se io voglio spingere una cosa da un luogo all’altro, provo che non cede alla prima spinta, accresco la forza, e questa me la caccia piú lontano ch’io non voleva. Ma dico per deliberata volontà: per esempio, do una spinta e non giova, un’altra e non fa, la terza parimente, alla fine mi piglia la rabbia, acchiappo la cosa colle mani e la strascino molto piú in là ch’io non voleva prima ch’ella andasse, e volendo ch’ella stia dove dee, bisogna che la riporti indietro al luogo conveniente, e cosí fo. E la distanza, alla quale l’ho portata, è spesso piú che doppia ed anche tripla di quella a cui la voleva spingere. Questo accade perch’io allora non considero piú e non ho per fine della mia azione di farla andare in quel tal luogo, ma propriamente di vincere e vendicare quella resistenza e mostrare la superiorità del mio volere e della mia forza sopra il suo volere e la sua forza, la quale tanto piú si dimostra, e la vendetta e la vittoria è tanto maggiore quanto io la porto piú lontano; e insomma vòlti allora a quel fine miriamo alla perfezione di esso che cosí si conseguisce, e perciò non c’importa che veniamo a nuocere a quel primo fine del quale effettivamente in quel punto siamo dimenticati. Applico ora questo caso fisico ai morali.

Si vuole che le parole che si hanno da aggiungere alla nostra lingua o per arricchirla o per necessità ec. si prendano dal latino e non dal francese né dal tedesco ec., chiamando quelle buone e approvandole e queste barbare; perché quelle ordinariamente o almeno assai piú spesso e facilmente consentono [p. 152 modifica]coll’indole della lingua nostra, e le lasciano la sua forma e sembianza nativa e la sua grazia ec., ma queste dissuonano manifestissimamente e sconvengono, e sconvenendo fanno la barbarie, e se son molte guastano le forme native e la venustà e grazia propria e primitiva della lingua. E questa sconvenienza si scorge anche nelle semplici parole, com’è chiaro, vedendosi subito che vengono da un’altra fonte, laddove le latine non possono venire da un’altra fonte, essendo da quella stessa fonte venuta si può dir tutta intera la lingua italiana; e benché da essa sia venuta anche la francese, non però la italiana è venuta dalla francese, e quindi per quanto la sorgente sia la stessa, nel corso si può bene il rivo essere, anzi s’è, mutato e alterato, ed ha acquistato proprietà tali, che non ha piú nessun diritto di dare ad un altro rivo nato dalla stessa sorgente le sue acque, come