Pandemonio/Parte V. Avvenimenti mondiali fra Calabria e Sicilia/Il suicidio del papato
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IL SUICIDIO DEL PAPATO
Quando nel 1884 a Napoli, cattolica e credente, il colera, ivi detto lo zingaro, menava innumeri stragi, come un tempo la peste, e da tutta l’Italia vi accorrevano i volontarj della carità, giovani eletti, garibaldini della morte, capitanati da Cavallotti, e poi vi andò Umberto, papa Leone XIII voleva andarvi anch’esso. Ma non vi andò.
Quando nel 1905 il terremoto mise sotto sopra le contrade della Calabria, paese della cieca fede dove si recarono squadre di salvezza da tutte le regioni dell’Italia, Piodecimo voleva andarvi anch’esso. Ma non vi andò.
Quando il 28 Dicembre 1908 un grido disperato invase l’Italia per la distruzione di Reggio e di Messina si può dire che tutto il mondo ne gemesse; lo stesso individuo voleva andarvi anch’esso, ma — recidivo — non vi andò.
All’incirca duecentomila Cristiani pel terremoto versavano fra vita e morte, popoli che invocavano Iddio. Dove dunque avrebbe potuto essere maggiormente il posto del papa?
Là sotto quelle rovine in quelle latebre o spente o semi spente, i fedeli sentendolo, se anche soffocati, affranti, avrebbero potuto raccogliere l’ultimo fiato, le forze estreme e mandare un grido supremo e mettere i salvatori sulle loro tracce e venire estratti.
Potentissimo l’ultimo sforzo che un moribondo può fare per conservare la vita a sè e ai suoi. Sì, sì, se non tutti i martoriati nel loro sepolcro, certo una parte avrebbe potuto venire salvata, e un’altra morire almeno confortata dalla voce del pontefice.
E i superstiti, consolati pensando i loro cari in grazia di dio, avrebbero recitato solennemente il miserere o come altro si chiamino questi biglietti orali d’ingresso pel paradiso.
La sua parola sarebbe stata forse ripetuta dai sepolti, onde ben si sarebbe potuto dire con Mercantini:
Si scopron le tombe, si levano i morti,
I martiri nostri son tutti risorti.
Mi giova dimorare in questo pensiero del pontefice benedicente tutti, dando l’assoluzione in articolo mortis, l’indulgenza plenaria, l’apostolica benedizione che manda ai sovrani tutti e le altre cose ch’aprono le porte del paradiso, il requiem, il miserere, il de profundis. I morenti sarebbero stati assolti e quelli in pericolo avrebbero potuto sopportare di più. E molti padri di famiglia avrebbero proferito con voce soffocata: «No, figli miei, il pontefice non vi abbandonò; sarete salvi, sperate, addio!»
Così Manzoni dipinge il cardinale Borromeo che porta consolazione fra i morenti di peste. Se anche soccombevano, pure confortati.
Così il 30 Aprile 1849 vidi io Ugo Bassi sulla strada fuori Villa Pamfili, chino fra la polvere e il sangue, confortare i nostri moribondi e assolverli. Come la fede in Pionono era risorta, ad onta della sua fuga con la Spaur da Roma e la chiamata delle truppe francesi, del pari si sarebbe accesa in molti vivissima, se Piodecimo si fosse portato sui luoghi del disastro.
Fu una fortuna per l’intelligenza umana che il papa non si movesse dalla sua reggia per la nuova religione dell’individuo e del dovere che si son messe al posto del dogma nel tribunale della coscienza che è da Dio.
È lo stesso padre Ugo Bassi che fu sconsacrato. Gli venne dolorosamente raschiato a sangue dai preti la chierica, prima del supplizio dall’arcivescovo di Bologna invocato ed ottenuto dagli Austriaci.
Ah, io ho una grande colpa verso questa vivente poesia di libertà e d’amore! Poco prima dell’assedio di Roma mi fece richiedere se lo volessimo cappellano del Battaglione Universitario, allora arruolato per ripartire di nuovo per tutta la durata della guerra dell’indipendenza italiana, e gli mandai in risposta: non abbiamo bisogno di preti. Ah, non era, no, prete come i preti, quella splendida figura di bellezza fisica e d’entusiasmo! Che differenza dal ciarliero Gavazzi!
Sarebbe stata, quella di Piodecimo, al cospetto di tanti popoli diversi, accorsi sul luogo della catastrofe, una messa funebre pontificale mondiale, più solenne che a Sampietro in Roma, coi biglietti d’invito, in grandi uniformi e pompe bizantine. E mercè l’ali angeliche del telegrafo tutti nello stesso giorno avrebbero plaudito e ammirato.
Nè ad uomo nell’età virile, vivo e vegeto, sarebbe stato d’incomodo il viaggio, che avrebbe avuto dappertutto onori divini; egli che, come scrisse il troppo ingiustamente dimenticato Dall’Ongaro.... «trincia l’aria assiso in faldistoro.»
Badate che nè vescovi, nè canonici, nè preti pensarono ai rovinati, ma scapparono.
Perchè non rimasero?
Perchè non vi andò?
Fu un errore madornale il non andare. Siccome tutto è finzione, mirabilmente si sarebbe detto, il pellegrino apostolico sopra la navicella di Sampietro; ed essendo quivi il mare sempre un po’ mosso, ecco la nave in tempesta, come nelle allocuzioni papali retoricamente è ripetuto. Uno dei promontorj devastati si chiama «Vaticano». La notte avrebbe potuto riposare là.
Insomma io chiamerei l’astensione il vero suicidio del papato.
Ora si dirà: Il Faro, simbolo della fratellanza dei popoli, senza l’opera del governo e del papato, che nell’ultimo terremoto. restando indifferente, si suicidò.