Pandemonio/Parte V. Avvenimenti mondiali fra Calabria e Sicilia
Questo testo è completo. |
◄ | Parte IV. Traguardi, lenti, telescopj, microscopj - La luna la grammatica e la donna | Parte V. Avvenimenti mondiali fra Calabria e Sicilia - Gioia, dolore, morte | ► |
Parte V
AVVENIMENTI MONDIALI FRA CALABRIA E SICILIA
O memorie soleggianti! A voi, a voi io abbandono mente e cuore! O ridenti armonie di luce e di bellezze! Quivi ogni anima, da dove mai ella provenga, ritrova quasi il suo naturale albergo, e vi si indonna come lo spirito nel corpo.
Entrando su nave dal Mar Jonio nello Stretto, i giovani profluvj delle onde sono voluttà che ti penetra in tutte le fibre esultanti, come quando bocca con bocca con l’amata, inspirasti inesauribilmente il suo alito animatore e sentisti possibile una beatitudine eterna.
A diritta, le coste della Calabria, cui incoronano le severe montagne di Aspromonte consacrate dal sangue di Garibaldi e dei Garibaldini poi fucilati; monumento mondiale, arcanamente eretto all’eroe ed agli eroici suoi volontarj, fino dai secoli anteriori; chè di costà fu la vera mossa potente della sua andata morale a Roma. — Speravano ancora di salvare al papa parte del suo regno temporale, non costretti di entrare nell’Urbe. Onde si sentiva in bocca al popolo, giusto giudice, una mestissima cantilena, anzi funebre nénia in diverse varianti, di cui ricordo due sole: Garibaldi fu ferito | Fu ferito in Aspromonte | E il soldato del Piemonte | Lo voleva assassinar. — Garibaldi fu ferito | Fu ferito in Aspromonte | E Vittorio gli domanda | Chi fu mai quel traditor? Ai piedi di quelle aspre rocce, in parte selvaggiamente boscose, è tutto fiorito, è tutto come involto in una pallida nube di pensanti olivi e di sfumanti tamerici. Giardino intorno a quel monumento, anzi come l’aureola della sua gloria. Aspromonte e Mentana, due colonne miliari sul cammino alla emancipazione della mente umana.
Proseguendo sopra il naviglio, ti si dipingono boschi, boschetti con erbe e piante aromatiche che a te mandano profumi. Vedi quell’albero, si bello alla vista e all’odorato, l’arancio, dalle foglie lucide e olenti, col suo frutto d’oro e col fiore che fa beate tante spose quel dì che se ne inghirlandano. Ben giova sperare che molte e molte siano beate per tutta la vita dell’affetto dell’amato e dei figli. Vedi là palme, mirti; l’aloè che lancia in alto, solingo, il suo fiore misterioso; il mandorlo, vessillo e antesignano della primavera; poi l’esuberanza vitale del cacto, crudele della sua potenza, per le foglie armate di spine, ma nutrimento e rifocillazione gratuita ai poveri, e il quale volontario si porge anche agli animali affamati, anzi pare li inviti a cibarsene. Pure l’uomo buono talvolta ha fiera apparenza.
E in mezzo a tutta questa vegetazione festante, come i frutti fra le foglie e la visione di una metropoli ideale che si prolunga a miralonde per tutta la costa. Città fantastica dell’avvenire; quando l’uomo con nuovi ingegni si sarà centuplicata la semovenza, e con sacrifizj di vite avrà vinto tempo e spazio così che pensando a un luogo, già vi sarà. Onde città non aggruppata o murata che la renda pesante, ma aperta e divisata da case, da ville, da orti e paesi; che è sì varia fino a Reggio, suo centro biancheggiante e come foro di convegno. E seguitando per quel littorale calabro, altre borgate, più o meno in declivio, pure in mezzo a cedri, fichi, gelsi, vigneti, verzieri che fanno pensare ai giardini esperidi, giunge fino a Palmi che già è libera nel Tirreno; e vede danzare ed immergersi nei lavacri del mare quelle deliziose sorelle, le isole di Lipari, col sempre desto Vulcano, e di faccia Stromboli, fumante, anelito faticoso di tanto lavorio occulto e perenne della natura.
Sulla spiaggia sinistra, la pertinace Messina, vera Fenice, arsa, riarsa e tante volte risorta e rifiorita e risanguata di novo vigore, che si presenta come una veduta sopra una scena, o come una mostra, o un museo aperto di opere dell’uomo, di attivittà commerciali, svoltesi per tutto il mondo in tanti tempi trascorsi. Il tutto esposto agli sguardi delle nazioni che vi passano sopra le navi. Messina ha per isfondo poggi e colline popolate di ville, case e magioni, le quali, perchè tanto adornate e ridenti, pajono essere contente; sicchè dal fondo del cuore di chi le mira esce, come il respiro, un augurio che veramente in quelle dimore tutti sieno felici.
E vanno seguitando nuove delizie, nuovi incanti fino ai due Laghi e al Faro, cioè allo Stretto, alle Sirti, fra loro non molto distanti. Quivi si alzano opposti due colossi immortali, che già videro e sentirono cotante età del mondo: Scilla e Cariddi, cui i marosi percuotono, facendovi emergere suoni mostruosi, fragori giganti. Scilla e Cariddi, sempre attivi, ma non più spaventevoli, non più potentissimi sopra l’uomo, anzi oggi simboli del progresso, simboli di libertà, saluto alla scienza, al perfezionamento tecnico che disarma la natura, scalza la cieca fede che approfitta dei terrori elementari, per rendere inerti le menti e perciò tributarie.
E’ là, dove una volta quei vortici attiravano i bastimenti e le galere mosse a forza di remi dai miseri schiavi, facendole accostare sia da una parte, sia dall’altra e aggirandole in una danza funebre, le rompevano, e sommergevano inevitabilmente, oggi, le navi moderne, tagliano sicure quei vortici resi inermi; e al più al più i piloti mirano quelle acque inquiete con un sorriso.
— Ahi, vi passano incolumi anche quelle da guerra, fatte per rendere il mare più micidiale, veri draghi romoreggianti e anelanti a distruzione, fatti a prova cogli immani cetacei, riusciti mostri sempre peggiori e più funesti ai popoli, dal cui sangue furono procreati, ma esseri intelligenti, in cui il ferro, il fuoco si uniscono, costretti dalla mente e dal volere di chi le costruì e di chi le governa.
— Così in altri tempi io pensava a queste Sirti, passando la «Porta di Ferro» del Danubio; il mulinello allora tremendo, ora spodestato; e stando sulla prora godeva la voluttà del pericolo, vedendo il piroscafo a un passo dalla morte, segare cauto per mezzo quel formidabile aggiramento e scontro delle acque pronte ad inghiottirci nella loro voragine pesante. —
Una volta, sopra lo scoglio di Scilla, torreggiava la rocca di un re tiranno; poi d’un barone feudatario, contro alla quale il mare stesso in un momento di sdegno fece vendetta e la demolì. — O divo Nettuno padre, perciò io ti adoro e ti ringrazio. —
Sotto ad essa un re ne’ suoi ozj, e per suo spasso, godendo di vedere un corpo umano donde tutti i muscoli, i nervi si incordano, le vene, le carni livido-paonazze si agitano fra vita e morte, per strapparsi dal giro del vulcano delle acque e sommergersi nell’ignoto, imperioso provocando un palombaro, gittò nel mare una tazza d’oro a ludibrio dell’umanità. E alla Sacra-Maestà non bastò sentire e mirare quegli spasimi, ma, ripetendo il giuoco, fece che l’esausto annegasse per divertire gli augusti suoi occhi. E i poeti cantarono, trovando magnifica la scena che un re volle l’impossibile e un palombaro fosse obbediente. Codesto devoto che si affonda, è personaggio storico, chiamato Colla, famoso per il suo coraggio. Quale orpello per la poesia servile romantica: una tazza d’oro che certo non costava nulla a codesto re burlone, e un secondo salto mortale nel mare!
Oggi il suddito e non suddito, rifiutando l’oro, direbbe: Se tanta vaghezza t’ha preso di sapere di quelle profondità perdute, saltavi dentro tu, ovvero: sommergiamoci assieme senza ritorno. Così pensò Agesilao Milano che voleva andare all’inferno col Borbone, nell’uscire dai ranghi e dargli una bajonettata che colpì in fallo, cioè scivolando dalla méta andò a ferire la coscia del cavaliere.
Ma certi capricci di femmine d’animo vile, spesso sono delittuosi come i reali che ora vedemmo. Attorno un antico vaso egiziano sono versi pubblicati a Lipsia nel 1897, dallo Spiegelberg, onde dò il sunto: «Tu, donna, me lo comandi. Ed io senza esitare mi gitto nel Nilo, sebbene un coccodrillo stia qui presso sull’arena.... Ecco, ne sono uscito, portandoti questo gran pesce purpureo, specioso.... Oh mirami ecc.».
A’ tempi nostri la scienza ha costretto la natura a rivelare le vaneggianti caverne di Scilla, onde dall’imo seno parevano uscire latrati; ma quelle immensurabili profondità non sono divinità mitologiche adirate, ma un baratro tale, che soltanto la fantasia lo può attingere inabissandosi e, per così dire, creandolo a prova col vero.
Ora, con lo studio massime dei movimenti sismici di questa regione, la scienza scoprì che in alcuni punti così vacui come grandi conche, franando l’interno della crosta terrestre, forse consciente, e suscitando il contraccolpo dell’aria rimbalzante, producono terremoti dai geologi posti fra i fenomeni tettonici.
Ma anche questa dislocazione, cioè spostamento degli strati rocciosi della materia come viva, questa sua lotta perenne, avviene perchè essa cerca d’equilibrarsi e adagiarsi, unificandosi così alle leggi immortali della divina natura, emanazione del grande principio e mente d’ogni cosa, e così adagiata continuare ad esistere sempre più omogenea al proprio essere.
O ancora lo sguardo ed il cuore si rivolgono estatici, ritornando a sorvolare navigando su quel canale che ha forma di cornucopia, versante intorno ogni bene, ogni abbondanza, e vede che qui il limpido mare specchia tutta questa beatitudine per abbellirsene esso.
Ma questo mare vuole ricevere in sè anche l’azzurro del firmamento, per dare a quelle immagini un doppio fondo glauco, e per farle più vaghe così incielate due volte. In tale guisa le espressioni d’amore affidate all’amata che le accoglie nel cuore, dalle sue labbra ritornano più belle, sublimate dall’estasi sue.
Da qualunque parte riguardi, è un inno festoso che si intende e che pure si rivela all’occhio. Dai due aprichi lidi opposti, ma vicini e un tempo già uniti, lieti canti sì di uomini, sì di volitanti che si sentono più puri in quell’aria purissima. Il gallo mattutino ha dato il segno di quella vita tutta giovane de’ primi albori. — Gli smaglianti colori delle tue penne mi sembrano il riflesso delle nuvole che come te all’alba antivedono il sole, e all’aurora di lui si dipingono purpuree, rance, dorate; che cosa si modifica ancora nella tua pupilla corruscante, altéra, e compenetra lieta l’essere tuo fiammeggiante, quando tutto ride l’oriente e aggiorna tanta parte del mondo? — Più tardi gli alcioni della bonaccia che vanno e vengono per le onde, certo messaggieri di arcani fra loro.
I delfini che si innalzano a galla e conducono rapidamente il loro dosso d’argento. E il tripudio dei pesci minori, che guizzano fuori dai flutti a fior d’acqua, o che fanno una danza aerea. Altri godono sostenersi nell’aria con le pinne: due lampi indorati dal sole. Noto incola di questi paraggi e il luccio volante.
Ecco altri pesci de’ quali i marinari dicono vadano sempre appajati con la compagna, onde questi poeti lavoratori del mare hanno tante vaghe leggende sugli amori di queste vite erranti delle acque.
Talvolta hai la sorpresa di popoli interi di pesci che passano lo Stretto e fanno il giro di tutta l’isola di Sicilia, ritornando nello Stretto. Quanti svariati concetti della natura!
La marea lascia qui pure sui lidi forme belle, direi dell’arte plastica della natura: le conchiglie. Esse dicono quanta vita e dentro questo mare fino al fondo. E quei coralli che perdurano quasi eterni, imporporatisi in arboscelli, perchè fatti ornamenti, in pena della loro bellezza. Dura legge. Entro le sabbie, qua e là gocce d’ambra colorata. Donde venuta?
Ogni stagione, ogni momento della giornata e della notte, recano nuove sorprese, sono come la sintesi delle bellezze di questa regione felice.
Al mattino, come un solo desio, le vele pudiche dei pescatori, bandiere albeggianti sul mare, veri sospiri a parca méta. — Ah! quei proletarj laborosi che si travagliano e periscono innumeri, hanno la menoma mercede delle loro fatiche! —
A sera, nubi rosate, o color di viola, che si adagiano sopra una o altra parte dello Stretto. Poi i lumi che lungo i due lidi si vanno accendendo sui focolari, nelle case dalle porte aperte delle sicure famiglie.
Nelle notti, i focherelli vivi del mare pajono raccolti sopra un drappo fatto ondeggiare da forze amiche in cui quelle luci rimbalzino; che qui la fosforescenza è si piena, che al battere del remo di un navicello, pare fessa in qualche parte la luna che si fosse ascosa sotto le onde brune.
D’estate, nel fervore infocato, quando tutto è animato dal sole, nel mare vicino le prode si creano nove vite che si vanno ramificando rapidissime come in alberelli; almo lavorìo sotto il sole afrodisiaco. Forse la prima forma di vita, il cristallo. Così forse si formò l’albero della Via Lattea, che per un momento fu tutta un essere vivo.
Ma sempre vi spira una vergine brezza amica. Le gentili meduse, variopinte, iridescenti, dalle movenze armoniche, di giorno rallegrano coi loro colori cangianti; di notte, splendono sommessamente una luce eterea.
A primavera, i novelli tepori, come corporei spiriti, ti aleggiano intorno la fronte.
Sorridono anche nei numerosi dì chiari d’autunno, nubi di diversi colori, qua e là forse con mente di non adunare nembi; onde talora viene ad abbellire una fantasia della natura, l’apparizione di un mondo aereo; la Fata Morgana. Anche in noi forse certi sogni sono una fata morgana de’ nostri sani pensieri diurni.
L’inverno, crudele, micidiale in tante contrade, qui lascia il clima quasi sempre mite, ovvero tutto più puro e perciò benefico ai sofferenti.
Questa visione nuova della vita di natura, chiama le navi d’ogni paese a riposarsi in porto de’ più sicuri, quale è quello di Messina, e a sortire poi per lontani viaggi, ricordando i più bei punti del mondo: Ad alcuni la madre patria, ad altri per un momento questa seconda patria di bellezza e di piacere.
Oh mai, mai, io non potei passare lo Stretto, sia andando in Sicilia, sia tornando al continente calabro, in qualunque tempo e stagione, senza piangere per la bellezza paradisiaca di quei lidi e alle loro memorie, pensando che questa non è che una piccola parte dell’Italia. Sicilia e Calabria sedi auguste e attrici di menti sovrane; ma ahi, rigida giustizia in tutto, anche di immani delitti.
E dalla Sicilia io riportava sempre ricordi di grate conoscenze, di amicizie ivi fatte tra giovani, studenti, professori, artisti e poeti.
Pure mi giova di nominare alcuni e anche quei Siciliani conosciuti altrove, perchè all’abbandonare la bella Trinacria tutti mi si affacciavano vivi, veri e cari come amiche figure per darmi l’addio:
Il fratello Mario Rapisardi.
Giuseppe La Masa, al quale in Vienna io rammentai che nel 1848 alla fazione di Cornuda, il mattino del 9 Maggio, esso comparve con cento volontarj siciliani. E per mostrargli come io avessi ancora chiari nella memoria tutti i particolari, gli ricordai che esso portava un elmo dorato e i suoi giovani, berrettini alla siciliana. — Fu una momentanea apparizione; poi quei drappello fantasma sparì, nè per tutta la giornata si battè con noi rimasti impegnati fino nel pomeriggio. — Restammo così legati ed egli tempestò di note la mia tragedia «Bianca della Porta». Mi fece avere de’ suoi libri con amorevoli dediche fra cui i «Documenti della Rivoluzione siciliana» da lui illustrati. Spesso mi parlava come se a lui toccasse per diritto di essere il generalissimo dell’armata italiana.
Il dottissimo direttore dell’archivio di Stato in Palermo, Isidoro La Lumia, del quale ho lettere molte. Mi mandò i suoi studj sulla Storia siciliana e parecchi altri volumi. Mi favorì pure copia di due contratti di vendita di uno schiavo e d’una schiava, entrambi affricani, fatta da due Siciliani nel 1324 e 1483, cui riportai nell’ultima edizione del libro «gli Ezzelini, Dante e gli Schiavi».
Giuseppe Picone, che a Girgenti mi diede le sue preziose «Memorie storiche agrigentine». — A pag. 339 è: «di essi (schiavi) trovasi grande moltitudine in Agrigento ai tempi di Gregorio Magno, che per sovrappiù, tentò accrescerne il numero, dichiarando schiavi dei vescovi agrigentini i calunniatori del nostro S. Gregorio, e le loro future generazioni». —
L’infaticabile Saverio Cavallari; non mica un impiegato che fa per la paga, ma cultore appassionato nell’ufficio di conservatore delle antichità in Sicilia. Mi condusse a vedere i monumenti di Palermo. Ebbi da lui le fotografie in grande formato a que’ tempi meravigliose, dei più insigni monumenti dell’Isola.
Eduardo Pantano, col quale fui in rapporti intimi anche quando io scriveva nel «Dovere». — Ah, qui mi parlano: l’eroico Antonio Fratti e il suo socio defunto, Giuseppe Nathan; ne conservo il carteggio.
Lo storico Francesco Guardione, che mi dedicò il libro «Poeti siciliani del sec. XIX».
Vincenzo Errante. Con lui mi trovai per due stagioni a Recoaro, nel quatuorvirato di Andrea Maffei, Carlo Leoni, e Giacomo Zanella. Egli da Roma mi spedì il volume delle sue «Poesie».
Alfredo Cesareo che mi diede a Catania le sue originalissime «Occidentali».
Finocchiaro Aprile a cui, quando esso era in Campidoglio Commissario Regio, portai il mio libro «Di Antichità e Belle Arti,» raccomandandogli di far cessare certe inutili distruzioni di monumenti romani, per opera dell’ultima discendenza dei Vandali rimasti in Italia: i signori romani bagherini, i capimastri rozzi e affamati, i fondatori delle Banche ladre.
Michele Amari, conosciuto a Pisa in casa D’Ancona, a cui io non finiva di dire quanto «La guerra del Vespro siciliano,» ci ispirasse prima della rivoluzione, e per la rivoluzione, aggiungendo che io, ritornato in Roma dalle Campagne Venete, trovai sulla mia scrivania ancora aperto quel libro, la cui lettura fu interrotta quando si partì.
Filippo Orlando, che si travaglia infaticabilmente di dare alla luce e di rendere popolari in ogni guisa, e anche colle sue cartoline illustrate, i nomi e gli scritti dei nostri autori antichi e moderni, nonchè le vite d’altri che operarono col senno e con la mano.
L’incorrotto ed incorruttibile Napoleone Colajanni, lo smascheratore del Panamino, cui il Giolitti fino che potè trattò di calunniatore, ma che poi.... ma che poi.... Scrisse di me orrevolmente e della mia «Roma nel Mille» nella sua «Rivista popolare».
Nel 1895 io a Messina, dopo essere stato un di extra moenia con Tommaso Cannizzaro, il poeta dalla maravigliosa spontaneità della rima, passai una serata indimenticabile al Faro, presso i Laghi, in plenilunio con amici e una donna gentile. Della brigata era il siciliano prof. Giacomo Boner. Cari luoghi di pace, sui quali que’ due felici lassù parevano accrescere la calma in terra, e nell’acque; e la compagnia per celia mi diceva: «Guardate, guardate, sono nella vostra Luna».