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(1249-1250) pensieri 33

nella stessa greca e latina, della quale ho parlato p. 1240-42, non da altro deriva che dall’idioma popolare, giudiziosamente e discretamente applicato dagli scrittori alla letteratura.

4o, Con questi vantaggi vennero anche dalla stessa fonte molti abusi. Li condanniamo altamente e conveniamo in questo cogli scrittori che oggidí alzano contro di essi la voce in Italia, senza convenire in questo che ogni genere di bellezza in una lingua non debba per necessità riconoscere come sua fonte essenziale e principale l’idioma popolare. Dico della bellezza ec., la quale conviene alla vera poesia ed alla bella letteratura, essenzialmente distinta nel suo linguaggio da quello che conviene alle scienze ec. Negando questo, io non so com’essi ammirino tanto, per esempio, il Caro, la massima parte delle cui verissime, finissime e carissime bellezze, sí nelle prose come ne’ versi dell’Eneide, ognun può vedere a prima giunta che derivano originalmente da un grandissimo uso e possesso del linguaggio toscano volgare (o anche degli altri volgari d’Italia: vedi Monti, Proposta, vol. I, parte 1, p. XXXV) e da una giudiziosissima applicazione di questo ai diversi generi della letteratura, dai piú bassi fino ai piú alti, dalle lettere familiari fino all’epopea. Del resto, ben fecero gli scrittori italiani attingendo al volgare toscano piú che agli altri volgari d’Italia, e ciò  (1250) per le ragioni che tutti sanno e che abbiam detto p. 1246, fine-47, principio. Ma sciocca, assurda, pedantesca, ridicola è la conseguenza che dunque non si possa attingere se non da quel volgare; che gli scrittori non possano scrivere se non come e quanto dice e parla quel popolo; che la lingua e letteratura italiana dipenda in tutto e per tutto dal volgo toscano (quando non dipende neppure in nessun modo dal volgo, ma solamente se ne serve, se le pare); che in Toscana e fuori lo scrittore italiano non possa formar voce né frase