Delle opinioni e metodi della procedura criminale in quella occasione

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IV VI



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§. V.

Delle opinioni e metodi della Procedura criminale in quella occasione.

Acciocché poi si possa concepire un’idea precisa e originale del modo di pensare in quel tempo, credo opportuno di trascrivere un esame, che sta nel corpo di quest’orribile processo: veramente serve egli di episodio alla tragedia del Piazza e del Mora; ma siccome originalmente vi si vedono la feroce pazzia, la superstizione, il delirio, io lo riferirò esattamente, ponendo in margine distintamente le osservazioni che mi si presentano. Ecco l’esame:

« Die suprascripto, octavo Julii:

« Vocatus ego notarius Gallaratus, dum discedere vellem a loco suprascripto appellato la Cassinazza, juvenis quidam mihi formalia dixit: Io voglio che V. S. mi accetti nella sua squadra, ed io dirò quello che so.

« Tunc ei delato juramento etc. [p. 20 modifica]

« Interrogatus de ejus nomine, cognomine, patria.

« Respondit. lo mi chiamo Giacinto Maganza, e sono figliuolo di un frate, che si chiama frate Rocco, che di presente si trova in S. Giovanni la Conca, e sono Milanese, e molto conosciuto in porta Ticinese.1

« Int. Che cosa è quello che vuol dire di quello che sa.

« Resp. titubando. Io dirò la verità, è un cameriere, che dà quattro doble al giorno. - Deinde obmutuit stringendo dentes2.

« Et institus denuo a dir l’animo suo, e finire quanto ha cominciato a dire.

« Resp. È il Baruello padrone dell’osteria di S. Paolo in Compito: mox dixit, è anche parente dell’oste del Gambaro.

« Int. Che dica come si chiama detto Baruello.

« Resp. Si chiama Gian-Stefano.

« Int. Che dica cosa ha fatto detto Baruello.

« Resp. Ha confessato già, che si è trovato delle biscie e de’ veleni nella sua canepa.

« Int. Dica come sa lui esaminato queste cose.

« Resp. Il suo cognato mi ha cercato a voler andar a cercare delle biscie con lui.

« Int. Che dica precisamente che cosa gli disse detto cognato, e dove fu.

« Resp. Me lo ha detto con occasione che in porta Ticinese mi addimandano il Romano, così per soprannome, e mi disse: Andiamo fuori di porta Ticinese, lì dietro alla Rosa d’Oro ad un giardino che ha fatto fare lui, a cercare delle biscie, dei zatti e dei ghezzi ed altri animali, quali li fanno poi mangiare una creatura morta, e come detti animali hanno mangiato quella creatura hanno le olle sotto terra e fanno gli unguenti, e li danno poi a quelli che ungono le porte; perché quell’unguento tira più che non fa la calamita3.

« Int. Dica se lui esaminato ha visto tal unto. [p. 21 modifica]

« Resp. Signor si, che l’ho visto.

« Int. Dica dove ed a chi ha visto l’unto.

« Tunc obmutuit, labia et dentes stringendo4, et institus a rispondere allegramente alla interrogazione fattagli:

« Resp. Io l’ho visto nella osteria della Rosa d’Oro.

« Int. Dica chi aveva tal unto, e in che vaso era.

« Resp. L’aveva il Baruello.

« Int. Dica quando fu che aveva tal unto il Baruello.

« Resp. Saranno quindici giorni, ed era un mercoledì, se non fallo, e l’aveva il detto Baruello in un’olla grande, e l’aveva sotterrato in mezzo dell’orto nella detta osteria della Rosa d’Oro con sopra dell’erba5.

« Int. Dica se lui esaminato ha mai dispensato di quest’unto.

« Resp. Se io ne ho dispensato due scattolini mi possa essere tagliato il collo6.

« Int. Dica dove ha dispensato tal unto.

« Resp. Io l’ho dispensato sopra il Monzasco7.

« Int. Dica in che luogo preciso del Monzasco ha dispensato tal unto.

« Resp. Io l’ho dispensato sopra le sbarre delle chiese, perché questi villani subito che hanno sentito messa si buttano giù e si appoggiano alle sbarre, e per questo le ungeva8.

« Int. Dica precisamente dove sono le sbarre da lui esaminato unte, come ha detto.

« Resp. Io ho unto in Barlassina, a Meda ed a Birago; nè mi ricordo esser stato in altro luogo9.

« Int. Dica chi ha dato a lui esaminato l’unto.

« Resp. Me l’ha dato il detto Baruello, e Gerolamo Foresaro in un [p. 22 modifica]palpero sopra la ripa del fosso di porta Ticinese vicino la casa del detto Foresaro, qual sta vicino al ponte de’ Fabbri10.

« Int. Dica che cosa detti Foresè e Baruello dissero a lui esaminato quando gli diedero tal unto.

« Resp. Quando mi diedero tal unto fu quando io fui se non venuto dal Piemonte, e mi trovarono dietro il fosso di porta Ticinese: il Baruello mi disse: O Romano, che fai? Andiamo a bevere il vin bianco; mi rallegro che ti vedo con buona ciera: e così andai all’osteria; mox dixit, all’offelleria delle Sei-dita in porta Ticinese, e pagò il vin bianco e un non so che biscottini, e poi mi disse: Vien qua Romano, io voglio che facciamo una burla a uno, e perciò piglia quest’unto11; quale mi diede in un palpero; e va all’osteria del Gambaro, e va là di sopra dove è una camerata di gentiluomini12; e se dicessero cosa tu vuoi, di’ niente, ma che sei andato là per servirli, e poi che gli ungessi con quell’unto13, e cosi io andai, e gli unsi nella detta osteria del Gambaro, qual erano là: io era dissopra della lobbia a mano sinistra; e m’introdussi là a dargli da bevere mostrando di frizzare un poco, cioè per mangiare qualche boccone; e così gli unsi le spalle con quell’unguento, e con mettergli il ferrajuolo gli unsi anco il collaro e il collo con le mani mie, dove credo sono poi morti di tal unto14.

« Int. Dica se sa precisamente che alcuno di quelli che furono unti da lui esaminato, come sopra, siano poi morti, o no.

« Resp. Credo che saranno morti senz’altro, perché morono solamente a toccargli i panni con detto unto: non so poi a toccargli le carni come ho fatto io.

« Int. Dica come ha fatto lui esaminato a non morire, toccando questo unto tanto potente, come dice15.

« Resp. El sta alle volte alla buona complessione delle persone.

« Quo facto cum hora esset tarda fuit dimissum examen.

Da questo esame solo ne ricaverà chi legge l’idea precisa della maniera [p. 23 modifica]di pensare e procedere in quei disgraziatissimi tempi. Ho creduto bene di riferire fedelmente un esame, acciocché si vedano le cose nella sorgente, e non resti dubbio che mai l’amore del paradosso, il piacere di spargere nuova dottrina, o la vanità di atterrare una opinione comune, mi facciano aggravare le cose oltre l’esatto limite della verità. Il metodo, col quale si procedette allora, fu questo: Si suppose di certo che l’uomo in carcere fosse reo. Si torturò sintanto che fu forzato a dire di essere reo. Si forzò a comporre un romanzo e nominare altri rei: questi si catturarono, e sulla deposizione del primo si posero alla tortura. Sostenevano l’innocenza loro; ma si leggeva ad essi quanto risultava dal precedente esame dell’accusatore, e si persisteva a tormentarli sinché convenissero d’accordo.

Altra prova di pazzia di que’ tempi è l’esame lunghissimo fatto il 12 settembre a Gian-Stefano Baruello, il quale ebbe la sentenza di morte dal Senato il giorno 27 agosto (morte, che dopo le tenaglie, il taglio della mano, la rottura delle ossa e l’esposizione vivo sulla ruota per sei ore, terminava coll’essere finalmente scannato), e fu sospesa proponendogli l’impunità se avesse palesato complici e esposto il fatto preciso. Questi dunque tessè una storia lunghissima e sommamente inverosimile, per cui il figlio del castellano di Milano compariva autore di quest’atrocità, a fine di vendicarsi di un insulto stato fatto in porta Ticinese, e si voleva che il signor D. Giovanni Padilla, figlio del castellano, avesse lega col Foresè, Mora, Piazza, Carlo Scrimitore, Michele Tamburino, Giambattista Bonetti, Trentino, Fontana ecc. e varj simili uomini della feccia del popolo. Redarguito poi, come avendo egli il mandato per la uccisione di porta Ticinese, ne facesse spargere in altre porte, e convinto d’inverosimiglianza somma nel suo racconto, ecco cosa si vede che rispondesse esso Gian-Stefano Baruello nel suo esame 12 settembre, 1630:

« Et cum haec dixisset, et ei replicaretur haec non esse verisimilia, et propterea hortaretur ad dicendam veritatem

« Resp. Uh! uh! uh! Se non la posso dire, extendens collum et toto corpore contremiscens, et dicens: V. S. m’ajuti, V. S. m’ajuti.

« Ei dicto: che se io sapessi quello vuol dire potrei anco ajutarlo, che però accenni, che se s’intenderà in che cosa voglia essere ajutato, si ajuterà potendo.

« Tunc denuo incepit se torquere, labia aperire, dentes perstringendo, tandem dixit: V. S. mi ajuti; signore, ah Dio mio! ah Dio mio!

« Tunc ei dicto: avete forse qualche patto col Diavolo? Non vi dubitate e rinunziate ai patti, e consegnate l’anima vostra a Dio che vi ajuterà.

« Tunc genuflexus dixit: dite come devo dire, signore.

« Et ei dicto: che debba dire: io rinunzio ad ogni patto che io abbia [p. 24 modifica]fatto col Diavolo, e consegno l’anima mia nelle mani di Dio e della B. Vergine, col pregarlo a volermi liberare dallo stato nel quale mi trovo, ed accettarmi per sua creatura.

« Quae cum dixisset, et devote et satis ex corde, ut videri potuit, surrexit, et cum loqui vellent, denuo prorupit in notas confusas porrigendo collum, dentibus stringendo volens loqui, nec valens, et tandem dixit: Quel prete Francese.

« Et cum haec dixisset statim se projecit in terram, et curavit se abscondere in angulo secus bancum, dicens: Ah Dio mi! ah Dio mi! ajutatemi, non mi abbandonate.

« Et ei dicto: Di che temeva?.

« Resp. È là, è là quel prete Francese con la spada in mano, che mi minaccia, vedetelo là, vedetelo là sopra quella finestra.

« Et ei dicto: Che facesse buon animo, che non vi era alcuno, e che si segnasse, e si raccomandasse a Dio, e che di nuovo rinunziasse ai patti che aveva col Diavolo, e si donasse a Dio ed alla Beata Vergine.

« Cum haec verba dixissem, dixit iterum: ah signore, ei viene, ei viene colla spada nuda in mano: quae omnia quinquies replicavit, et actus fecit quos facere solent obsessi a Daemone, et spumam ex ore sanguinemque e naribus emittebat, semper fremendo et clamando: Non mi abbandonate, ajuto, ajuto, non mi abbandonate.

« Tunc jussum fuit afferri aquam benedictam, et vocari aliquem sacerdotem, quae cum allata fuisset, ea fuit aspersus: cum postea supervenisset sacerdos, eique dicta fuissent omnia suprascripta, sacerdos, benedicto loco et in specie dicta fenestra ubi dicebat dictus Baruellus extare illum praesbiterum cum ense nudo prae manibus et minantem, variis exorcismis tamen usus fuit, et auctoritate sibi uti sacerdoti a Deo tributa, omnia pacta cum Daemone innita, irrita et nulla declarasset immo ea irritasset et annullasset, interim vero dictus Baruellus stridens dixit: Scongiurate quello Gola Gibla, contorquendo corpus more obsessorum, et tandem finitis exorcismis sacerdos recessit.

« Excitatus pluries ad dicendum, tamen in haec verba prorupit: Signore, quel prete era un Francese, il quale mi prese per una mano, e levando una bacchettina nera, lunga circa un palmo, che teneva sotto la veste, con essa fece un circolo, e poi mise mano a un libro lungo in foglio, come di carta piccola da scrivere, ma era grossa tre dita, e l’aperse, ed io vidi sopra i fogli dei circoli e lettere attorno, e mi disse che era la Clavicola di Salomone, e disse che dovessi dire, come disse queste parole: Gola Gibla; e poi disse altre parole ebraiche, aggiungendo che non dovessi uscir fuori del cerchio perché mi sarebbe succeduto male, e in quel punto comparve nello stesso circolo uno vestito da Pantalone, allora detto [p. 25 modifica]prete, ecc.» Cade la penna dalle mani, e non si può continuare a trascrivere un tessuto simile di pazzie troppo serie e funeste in que’ tempi. Il risultato di un lunghissimo cicalìo di questo disgraziato, che sperava la vita e l’impunità con un romanzo di accuse, fu di far credere autore il cavaliere D. Giovanni di Padilla delle unzioni venefiche, sparse coll’opera di certi Fontana, Mora, Piazza, Vaccaria, Licchiò, Saracco, Fusaro, un barbirolo di porta Comasina, certo Pedrino daziaro, Magno Bonetti, Baruello, Girolamo Foresaro, Trentino, Vedano e simili infelici della più bassa plebe.

Quanto poi alle vociferazioni pubbliche, alcune attribuivano queste unzioni ai Tedeschi, altre ai Francesi che tentavano di distruggere l’Italia, altre agli eretici e particolarmente Ginevrini, altre al duca di Savoja, altri, non si sa poi bene come, ad alcuni gentiluomini milanesi, fatti prigionieri dal Papa e mandati in Milano; altri finalmente al conte Carlo Rasini, a D. Carlo Bossi, e più che ad ogni altro si attribuirono al cavaliere di Padilla. Si diceva che per ogni quartiere della città vi fossero due barbieri destinati a fabbricare gli unti, e che più di cento cinquanta persone fossero adoperate a spargere l’unzione. Che varj banchieri pagassero largamente questi emissarj, e fra questi Giambattista Sanguinetti, Gerolamo Turcone e Benedetto Lucino, e che questi sborsassero qualunque somma, senza ritirarne quitanza, a qualunque uomo si presentasse loro in nome del cavaliere Padilla. Sopra simili assurdità, sebbene esaminati minutamente i libri de’ negozianti suddetti non si trovasse veruna annotazione nemmeno equivoca, si passò a crudeli torture contro di essi. Il cavaliere Padilla si trovò che nel tempo, in cui si diceva che in Milano avesse formato e diretto questo attentato, egli era a Mortara e in altre terre del Piemonte, ove combatteva alla testa della sua compagnia in difesa di questo stato. Merita di essere trascritta la risposta ch’ei fece in processo quando fu costituito reo di queste unzioni. Così egli dice: Io mi maraviglio molto che il senato sia venuto a risoluzione così grande, vedendosi e trovandosi che questa è una mera impostura e falsità fatta non solo a me, ma alla giustizia istessa. Ed aveva ben ragione di dirlo, perché dalla narrativa istessa del reato appariva la grossolana impostura. Come, proseguì esso cavaliere, un uomo di mia qualità, che ho speso la vita in servizio di S. M., in difesa di questo stato, nato da uomini che hanno fatto lo stesso, avevo io da fare, nè pensare cosa che a loro e a me portasse tanta nota di infamia? E torno a dire che questo è falso, ed è la più grande impostura che ad uomo sia mai stata fatta. Questa risposta, detta nel calore di un sentimento, è forse il solo tratto nobile che si legga in tutto l’infelice volume che ho esaminato. Il delitto non parla certamente un tal linguaggio, e il cavalier Padilla era sicuramente assai al dissopra del livello de’ suoi giudici e del suo tempo.

La serie del delitto contestato al cavaliere di Padilla si ricava dalla [p. 26 modifica]narrazione medesima del reato, e vi si scorge il sugo de’ romanzi forzatamente creati colla tortura: io ne compilerò l’estratto semplicemente, giacché troppo riuscirebbe di tedio l’intiera narrazione, e porrò in margine le osservazioni opportune. Risultò adunque la diceria seguente:

Circa al principio del mese di maggio il cavaliere di Padilla vicino alla chiesa di S. Lorenzo parlò al barbiere Giacomo Mora16, ordinandogli che facesse un unto da applicare ai muri e porte onde risultasse la morte delle persone17, assicurandolo che danari non ne sarebbero mancati, e non temesse, perché avrebbe trovato molti compagni18. Indi altra volta, pochi giorni dopo, gli diede delle dobble perché ungesse, e vi era presente un gentiluomo Crivelli; e il trattato fu fatto da certo D. Pietro di Saragozza19; indi il barbiere allora fu avvisato che i banchieri Giulio Sanguinetti e Gerolamo Turcone avevano ordine di somministrare tutto il danaro occorrente a chiunque andava da essi in nome di D. Giovanni de Padilla20. Carlo Vedano poi, maestro di scherma, fu il mezzano per indurre Gian-Stefano Baruello a fare di queste unzioni21, e condusse il Baruello sulla piazza del Castello, ove ritrovavansi Pietro Francesco Fontana, Michele Tamburino, un prete e due altri vestiti alla francese, ove dal [p. 27 modifica]cavaliere furongli dati dei danari perché il Baruello ungesse e facesse parimente ungere le forbici delle donne da Gerolamo Foresaro, e gli consegnò un vaso di vetro quadrato, dicendogli: Questo è un vaso d’unguento di quello che si fabbrica in Milano, ed ho a centinara de’ gentiluomini che mi fanno questi servizi, e questo vaso non è perfetto; quindi gli ordinò di prendere de’ rospi, delle lucertole ecc., e farle bollire nel vino bianco e mischiare tutto insieme. Poi temendo il Baruello di proprio danno col toccarlo, gli fece vedere il cavaliere a toccarlo senza timore. Poi viene il circolo fatto dal prete e il pantalone, del quale ho già data notizia. Indi si vuole che il cavaliere dicesse al Baruello di non dubitare, che se la cosa andava a dovere, esso cavaliere sarebbe stato padrone di Milano, e voi vi voglio fare dei primi; soggiungendo di nuovo che se per sorte fosse pervenuto nelle mani della giustizia, non avrebbe in alcun tempo confessato cosa alcuna. Tale è la serie del fatto deposto contro il figlio del castellano, la quale sebbene smentita da tutte le altre persone esaminate (trattine i tre disgraziati Mora, Piazza e Baruello che alla violenza della tortura sacrificarono ogni verità), servì di base a un vergognosissimo reato.

  1. È da notarsi che al giorno d’oggi se un frate ha a fare con una donna lo è più alla sfuggita, per modo che difficilmente potrebbe assicurare che il figlio che possa nascerne sia suo. Se ciò anche fosse non ardirebbe di riconoscerlo, e il figlio non lo saprebbe. Conviene che allora il costume fosse più rilasciato.
  2. Comincia da pazzo, o vero da indemoniato.
  3. Un pazzo legato non potrebbe fare un dialogo più privo di senso di questo, e allora seriamente veniva scritto. L’unto malefico, secondo il romanzo del Mora, era di bava, sterco e ranno; ora, secondo il figlio del frate Maganza, era di serpenti, rospi, ecc., nodriti di carne umana; e non si sapeva allora che questi animali non mangiano carni.
  4. Dialogo veramente da forsennato
  5. A un sì strano e bestiale racconto conveniva di opporre alcune interrogazioni troppo necessarie. Chi ha dato a voi questa ricetta dell’unto, quando e dove? A quai segnali conoscete voi quest’uomo? Come sapete che l’abbia fatto il Baruello? Come sapete che sia mortifero? Quai prove ne avete vedute? Come si maneggia senza pericolo? Tutto si omise. Il fanatismo voleva trovare il reo dopo di avere immaginato il delitto.
  6. Risposta indiretta, alla quale nemmeno si fece redarguazione.
  7. Pare una pomata odorosa che si dovesse dispensare.
  8. La risposta non ha che fare colla interrogazione. Questi era un imbecille, e non più. Così per diporto da una terra all’altra si divertiva maneggiando veleni a far morire gli uomini!
  9. E questi si chiamano luoghi sopra il Monzasco? Chi conosce la carta del ducato ravviserà che sono in tutt’altra parte: Monza è al Nord di Milano, e i siti nominati sono all’Ovest.
  10. Si noti che dunque l’unguento lo ebbe dal coltellinaro, vicino al Ponte de’ Fabbri, e in una carta, non più in due scatolini.
  11. L’unto ora non l’ebbe più sopra la ripa del fosso di porta Ticinese vicino la casa del coltellajo, ma lo ebbe nella offelleria delle Sei-dita.
  12. Se l’osteria del Gambari allora era dove attualmente si trova, così discosto, era difficile l’assicurarsi che vi fosse tuttavia quella brigata.
  13. Per una burla. Che pazzie!
  14. E tutto per fare una burla! Questa è la narrativa di un furioso insensato.
  15. Ecco uno de’ rarissimi lampi di ragione che si vedono in questa tenebrosa procedura.
  16. Il cavaliere di Padilla risulta dallo stesso processo, che non fu a Milano che un giorno di volo la settimana santa, e un altro di volo il giorno di S. Pietro. Lo dicono tre suoi servitori esaminati; lo dice il Vedano esaminato. Risulta, che nel rimanente fu sempre all’armata verso Casale, Mortara, ecc., alla testa della sua compagnia. Dunque al principio di maggio non poteva essere a parlare col Mora vicino a S. Lorenzo in Milano.
  17. Bella e verisimile ordinazione! Questa è veramente una commissione di leggiera importanza, e soprattutto facilissima ad eseguirsi! Questa proposizione si farebbe poi così di slancio a un padre di famiglia, che vive onoratamente del suo mestiero? Si crederà che io mutili il reato, tanto è irragionevole.
  18. Appunto il pericolo da temere in ogni caso era d’aver compagni che lo scoprissero
  19. Dieci persone esaminate del castello ed altri se conoscessero D. Pietro di Saragozza, nessuno seppe dare indizio che fosse al mondo uno di questo nome, e il cavaliere di Padilla disse di non averlo mai inteso nominare.
  20. I due miserabili banchieri furono crudelmente torturati, perchè dissero di non aver ricevuto quest’ordine e di non aver consegnato danaro alcuno. Ne’ loro libri non si trovò annotazione veruna, e si credette che dessero il danaro a chiunque si presentava col nome di Padilla, senza riceverne una quitanza.
  21. Il miserabile Vedano torturato con il canapo potè fra gli spasimi reggere, e in mezzo agli orrori sostenne di non ne sapere niente.