Osservazioni sulla morale cattolica/Capitolo XV
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CAPITOLO DECIMOQUINTO
La charité est la vertu par excellence de L’Évangile mais le casuiste a enseigné à donner au pauvre pour le bien de sa propre âme, et non pour soulager son semblable... Pag. 420.
Dare al povero per il bene dell’anima propria, non è suggerimento di casisti, ma insegnamento della Chiesa.
Escludere dall’elemosina il fine di sollevare il prossimo, è un raffinamento anti-cristiano, il quale non so se sia mai stato dottrinalmente insegnato da alcuno: ma credo che non ce ne sia vestigio in Italia.
Per ciò che riguarda il proporsi, in quella come in ogni altra opera, il bene dell’anima propria, la Chiesa non fa altro che insegnare ciò che ha imparato dal suo Fondatore. E non c’è forse nel Vangelo verun altro precetto, al quale vada così spesso unita la promessa della ricompensa. Nel Vangelo, l’elemosina è un tesoro che uno s’ammassa nel cielo: è un amico che ci deve introdurre nei padiglioni eterni; nel Vangelo, il regno è promesso ai benedetti del Padre, i quali avranno satollati, vestiti, ricoverati, visitati coloro, che il Re, nel giorno della manifestazione gloriosa, non sdegnerà di chiamare suoi fratelli1, memore d’avere avute comuni con loro le privazioni e i patimenti, d’esser passato, anche lui, come uno sconosciuto, davanti agli sguardi distratti de’ fortunati del mondo. Tutta la Scrittura parla così: Non avrà bene chi non fa elemosina2. Che più? le parole stesse che qui si danno come insegnamento di casisti, sono quelle della Scrittura: Il misericordioso fa del bene all’anima sua3.
Questo motivo va unito a tutti i comandamenti: la sanzione religiosa non si fonda che su di esso.
Dopo di ciò, non c’è bisogno certamente di giustificare, su questo punto, la dottrina della Chiesa. Non sarà però fuori di proposito l’osservare come una tale dottrina sia superiore bensì, ma insieme consentanea alla ragione, e quanto sia opposto ad essa il supporre che il motivo d’una ricompensa, di qualunque genere sia, possa, per sè, detrarre alla perfezione e al merito dell’azioni virtuose. Illusione, nella quale sono caduti anche degli ingegni tutt’altro che volgari; e dalla quale, se è lecito il dirlo, è venuto il rimprovero fatto dall’illustre autore all’insegnamento cattolico sui motivi dell’elemosina.
La virtù, si dice, è tanto più pura, più nobile, più perfetta, quanto più è disinteressata. Sentenza verissima, quando alla parola «disinteresse» s’applichi un concetto giusto e preciso. Per disinteresse s’intende in astratto, e un poco in confuso, la disposizione a rinunziare a delle utilità. E cos’è che fa riguardare come bella questa disposizione, come ignobile, o meno nobile, la disposizione contraria? In primo luogo, l’essere, in molti casi, un’utilità d’un uomo opposta a un’utilità d’un altro, o d’altri; dimanierachè il rinunziare a quella sia posporre un godimento privato alla benevolenza; sentimento più nobile, per consenso universale; anzi il solo de’ due, al quale s’attribuisca questa qualità. L’altra cagione è il consenso divenuto comune dopo il Cristianesimo (quantunque più o meno avvertito e ragionato), che tutte l’utilità nelle quali è unicamente contemplato il godimento di chi le acquista, sono d’un prezzo inferiore a quello della virtù: d’onde viene che il non proporsi alcuna di esse, o in altri termini alcuna ricompensa, come motivo, nemmeno accessorio, d’un’azione virtuosa, è avere una giusta stima della virtù, e riconoscere col fatto, che essa è un motivo sufficiente, anzi soprabbondante, di qualunque azione. Ragioni vere, ma che non sono intrinseche all’idea stessa di ricompensa; e non si possono quindi applicare a ogni genere di ricompensa, se non per uno di que’ sofismi che scappano così facilmente nelle conclusioni precipitate. Considerata in astratto, l’idea di ricompensa non è altro che quella d’un bene dato al merito, cioè l’idea d’una cosa, non solo bona e giusta, ma la sola bona e giusta: nel caso, s’intende, d’un vero merito e d’una vera ricompensa. Si supponga quindi una ricompensa, contro la quale non militi nè l’una nè l’altra di quelle due ragioni; e il proporsela per motivo non potrà levar nulla alla nobiltà dell’azioni e de’ sentimenti; il non proporsela (senza cercare ora come deva qualificarsi), non potrà meritare l’onorevole qualificazione di disinteresse.
Di questo genere appunto, anzi l’unica di questo genere, è la ricompensa di cui si tratta. Essendo infinita, non può essere da verun uomo ceduta a verun altro, come il goderla non può mai essere a scapito di verun altro. E non può nemmeno essere inferiore in dignità alla virtù, poichè, non è altro che il più perfetto esercizio della virtù medesima.
Infatti, cosa intende il cristiano per il bene dell’anima sua? Riguardo all’altra vita, intende, una felicità di perfezione, un riposo che consisterà nell’esser assolutamente nell’ordine, nell’amar Dio pienamente, nel non avere altra volontà che la sua, nell’esser privo d’ogni dolore, perchè privo d’ogni inclinazione al male. «Beati», disse la sapienza incarnata, «quelli che hanno fame e sete della giustizia; perchè saranno satollati»4; che è quanto dire: saranno eternamente giustissimi.
E riguardo alla vita presente, il cristiano intende una felicità di perfezionamento; che consiste nell’avanzarsi verso quell’ordine. Felicità non intera, certamente; ma la maggiore, come la più nobile, che si possa godere in questa vita; felicità che nasce da quella stessa fame e sete, accompagnata dalla speranza che conforta, e dalla carità che fa pregustare. Così «la pietà è utile a tutto, avendo con sè la promessa della vita presente e della futura5.»
Posto ciò, si dovrà dire che, in quelli a cui una tale ricompensa è stata annunziata, il non proporsela per motivo, non che aggiunger perfezione alla virtù, non può nascere che dal disprezzo di questa perfezione medesima, essendo essa inseparabile dalla ricompensa medesima, cioè dal gaudio celeste; il quale, per ripeter la cosa con parole e più autorevoli e migliori delle mie, «non è altro che il colmo, la soprabbondanza, la perfezione dell’amor di Dio6,» val a dire della virtù che sovrasta a tutte, e le comprende tutte.
Che, tra i gentili, i quali non avevano cognizione di questo Bene, ma solo de beni temporali , alcuni abbiano pensato che ogni ricompensa sia indegna della virtù, non c’è da maravigliarsene. È piuttosto una cosa degna d’osservazione, che, col solo lume naturale, siano arrivati a vedare la verità, sulla quale formarono questo loro errore. Nel confuso, tronco e, dirò così, acefalo concetto che avevano della virtù, videro, dico, una relazione speciale di questa con l’infinito; e ne dedussero che nessun bene finito poteva esser per essa materia di compensazione. E, dopo averla spogliata così d’ogni premio, dovendo però riconoscere che premio e virtù sono idee correlative, e che ciò che forma questa relazione tra di loro è l’idea di giustizia, troncarono il nodo col dire che la virtù è premio a sè stessa. Parale più vere del pensiero che esprimevano; perchè, nella loro generalità, comprendono il concetto intero, e di virtù e di premio, che non era nella mente di chi le metteva insieme; cioè il concetto di quella virtù, e di quel premio, che non si realizzano se non nell’altra vita, e per il possesso di Dio. Potrebbbe bensì parer più strano, che, anche nella luce del Vangelo, alcuni abbiano potuto immaginarsi una maggior perfezione della virtù, e della virtù cristiana, nell’escludere da’ suoi motivi ogni ricompensa. Ma l’ingegno umano può abusare delle verità rivelate, come di quelle che conosce naturalmente. Essendo l’annegazione, e il disprezzo de’ piaceri, il precetto continuo, e lo spirito del Vangelo, s’è potuto voler estender quest’annegazione anche alla vita futura, applicando, con un accecamento volontario, le qualità de’ beni che Gesù Cristo c’insegna a disprezzare, al bene proposto da Gesù Cristo medesimo. Una dottrina così opposta alla sua e, per necessità, alla retta ragione, fu come doveva essere, condannata dalla Chiesa7
La ragione dice e, per dir così, sente che il desiderio della felicità è naturale all’uomo; la religione, nella quale (non sarà mai ripetuto abbastanza) la ragione trova il suo compimento, insegna che il desiderio della felicità eterna, inseparabile dalla santità, è un dovere. All’amor di sè, che i sistemi di morale puramente umana si studiano, ora di combattere, ora di soddisfare, e sempre con mezzi insufficienti, la religione apre una strada verso l’infinito, nella quale può correre con l’illimitata sua forza, senza mai urtare il più piccolo dovere, senza offendere alcun nobile sentimento. Per questa strada, essa ha potuto condur l’uomo al massimo grado di vero disinteresse, e far che disprezzi i beni della terra, appunto perchè mira alla ricompensa8. Essa ha potuto farle rinunziare, non solo ai piaceri che sono direttamente dannosi agli altri, ma a molti ancora, che la morale del mondo, economa imprevidente, approva o promette. Perciò Gesù Cristo, dove appunto dà il motivo dell’elemosina, comanda non solo l’azione, ma il segreto; e levando la sanzione umana dell’amor della lode, ci sostituisce quella della vita futura. Il tuo Padre, che vede nel segreto, le ne darà egli la ricompensa9. Non vuol guarire l’avarizia con la vanità, non vuole che l’uomo si prenda nello stato presente le ricompense riservate all’altro, e colga, nella stagione in cui deve solo attendere a coltivarla, una messe che, recisa, s’inaridisce e non riempie la mano10; non vuol solamente de’ poveri sollevati, ma degli animi liberi, illuminati e pazienti. Cos’importa, dice spesso il mondo, da che fine provengano l’azioni utili, perchè ce ne siano molte? Domanda inconsiderata quanto si possa dire, e alla quale è troppo facile rispondere che importa di non distrarre gli uomini dal loro fine, di non ingannarli, di non avvezzarli all’amore di que’ beni per i quali si troveranno un’altra volta in contrasto tra di loro; di que’ beni che, goduti, accrescono bensì la sete di possederli, ma non la facoltà di moltiplicarli. Questa facoltà ammirabile non appartiene se non ai beni spirituali, che sono beni assolutamente veri, anche in questa vita, e perchè partecipano del Bene sommo e infinito, e perchè conducono a possederlo eternamente.
S’è fatto più volte alla morale cattolica un rimprovero opposto; cioè che non si faccia carico dell’amore di sè, quando prescrive l’annegazione, e l’amare il prossimo come sè stesso. Ma annegazione non vuol dire rinunzia alla felicità: vuol dire resistenza all’inclinazioni viziose nate in noi dal peccato, le quali ci allontanano dalla vera felicità. E in quanto al precetto d’amare il prossimo come sè stesso, ciò che ha potuto farlo parere ad alcuni eccessivo, ineseguibile, contrario alla natura dell’uomo, non è altro che l’ignorare o lo sconoscere quel bene che si può volere agli altri come a sè, perchè, essendo infinito può riempir ciascheduno, senza esser mai nè esaurito, nè diminuito da alcuno. L’amor permanente, irresistibile, incondizionato di sè, è certamente una legge naturale d’ogni anima umana non amar gli altri come sè, non è punto una conseguenza di questa legge, ma un’aggiunta arbitraria, fondata unicamente sulla supposizione, che non ci siano per l’uomo altri beni fuori di quelli, il possesso de’ quali ha per condizione che gli altri ne siano privi. La religione, per chi vuole ascoltarla, ha levata di mezzo questa supposizione; e, con la sua scorta, è anche facile il riconoscere che amare il prossimo come sè stesso, non è altro che un precetto di stretta giustizia; perchè la ragione di questi due amori è uguale, anzi la stessa. Qual’è, infatti, la ragione d’amare, non l’uno o l’altro o alcuno de’ nostri simili, ma il nostro prossimo, cioè ognuno de’ nostri simili, independentemente da ogni nostra particolare inclinazione, da ogni sua particolare qualità, e da ogni suo merito verso di noi? Dove si può, dico, trovar la ragione di questo amore per tutti gli uomini, se non in ciò che è comune a tutti gli uomini, e insieme degno d’amore, cioè la natura umana medesima, l’essere nobilissimo di creatura intelligente, formata a immagine di Dio, e capace di conoscerlo, d’amarlo e di possederlo, val a dire d’un’altissima perfezione morale? Così il precetto divino, non che essere in opposizione col vero e giusto amore di noi medesimi, ce ne fa trovar la ragione nell’amore dovuto a tutti gli uomini: ragione, senza la quale questo invincibile amore di noi medesimi potrebbe parere nulla più che un cieco istinto. Se l’uomo avesse bisogno d’un insegnamento per amarsi, lo troverebbe sottinteso e implicito in questo precetto, che gl’impone d’amar l’umanità intera. Ne ha però bisogno, e quanto! per amarsi rettamente; e lo trova, come in tutti i precetti divini, così anche in questo, il quale, prescrivendogli d’amare il prossimo come sè stesso, gl’insegua a amar sè stesso come il prossimo, cioè a volere a sè quel bene che deve, e può ragionevolmente, volere agli altri: il bene sommo e assoluto, prima di tutto, e i beni finiti e temporali, in quanto possano esser mezzo a quello.
Ora, come mai da questa dottrina d’amore, di comunione e, dirò così, d’assimilazione tra gli uomini, potrebbe venire che s’abbia a escludere dall’elemosina il motivo di sollevare il suo simile? Certo, non è impossibile che ciò sia entrato in qualche mente, come c’entrano tant’altre contradizioni; ma oso asserir di novo, che non fa parte dell’insegnamento religioso in Italia, e che il Segneri ha parlato il linguaggio comune di quest’insegnamento, quando ha detto che «due solamente sono alla fine le porte del cielo: l’una, quella del patire; e l’altra, quella del compatire.» I ministri del Vangelo, quando inculcano di soccorrere i poveri, rappresentano sempre l’angosce del loro stato; e, nella trascuranza di questo dovere, condannano espressamente la durezza e la crudeltà, come disposizioni ingiuste e anti-evangeliche.
Quando Gesù Cristo moltiplicò i pani, per satollare le turbe che, con tanta fiducia, correvano dietro alla parola, l’opera dell’onnipotenza fu preceduta da un ineffabile movimento di commiserazione nel core dell’Uomo Dio. «Ho pietà di questo popolo, perchè sono già tre giorni, che non si distaccano da me, e non hanno niente da mangiare; e non voglio rimandarli digiuni, perchè non svengano per la strada11.» La Chiesa ha ella potuto cessare un momento di proporre per modello i sentimenti di Gesù Cristo?
Bisognerebbe domandare a que’ parrochi zelanti e misericordiosi i quali, girando per le case affollate dell’indigenza, e dopo aver soddisfatto, con lacrime di tenerezza e di consolazione, a degli estremi bisogni, ne trovano ancora de novi, e non possono altro che mischiare le loro lacrime con quelle del povero, bisognerebbe domandar loro se, quando ricorrono al ricco per avere i mezzi di saziare la loro carità, non gli parlano che dell’anima sua, se non gli dipingono le miserie e i patimenti e i pericoli del bisognoso, e se quelli a cui sono rivolte preghiere così sante e così generose, le ascoltano con una fredda insensibilità; se l’immagine del dolore e della fame è esclusa da sentimenti che li movono a convertire in un mezzo di salute quelle ricchezze le quali sono così spesso un inciampo, un mezzo di piaceri che portano alla dimenticanza, e fino all’avversione per l’uomo che patisce.
San Carlo, che si spogliava per vestire i poveri, e che, vivendo tra gli appestati per dar loro ogni sorte di soccorso, non dimenticava che il suo pericolo; quel Girolamo Miani, che andava in cerca d’orfani pezzenti e sbandati, per nutrirli e per disciplinarli, con quella premura che metterebbe un ambizioso a diventar educatore del figlio d’un re, non pensavano dunque che all’anime loro? E l’intento di sollevare i loro simili non entrava per nulla in una vita tutta consacrata a loro? L’uomo che vive lontano dallo spettacolo delle miserie, sparge qualche lacrima sentendole descrivere; e quelli che un’irrequieta carità spingeva a cercarle, a soccorrerle, ci avrebbero portato un core privo di compassione?
Certo, non occorre di far qui un’enumerazione degli atti di carità di cui è piena la storia del cattolicismo: ne scelgo uno solo, insigne per delicatezza di commiserazione; e lo scelgo perchè, essendo recente, è un testimonio consolante dello spirito che c’è sempre vivo. Una donna che abbiamo veduta in mezzo a noi, e di cui ripeteremo il nome a’ nostri figli, una donna cresciuta tra gli agi, ma avvezza da lungo tempo a privarsene, e a non vedere nelle ricchezze che un mezzo di sollevare i suoi simili, uscendo un giorno da una chiesa di campagna, dove aveva ascoltata un’istruzione sull’amore del prossimo, andò al casolare d’un’inferma, il di cui corpo era tutto schifezza e putredine; e non si contentò di renderle, com’era solita, que’ servizi pur troppo penosi, coi quali anche il mercenario intende di fare un’opera di misericordia, ma trasportata da un soprabbondante impeto di carità, l’abbraccia, la bacia in viso, le si mette al fianco, divide il letto del dolore e dell’abbandono, e la chiama più e più volte col nome di sorella12.
Ah! il pensiero di sollevare una creatura umana, non era certamente estraneo a que’ nobili abbracciamenti. Mangiare il pane della liberalità altrui, ottener di che raddolcire i mali del corpo, e prolungare una vita di stenti, non è il solo bisogno dell’uomo sul quale pesa la miseria e l’infermità. Sente d’esser chiamato anche lui a questo convito d’amore e di comunione sociale: la solitudine in cui è lasciato, il pensiero di far ribrezzo al suo simile, il riguardo con cui gli si avvicina quel medesimo che gli porge soccorso, il non veder mai un sorriso, è forse il più amaro de’ suoi dolori. E il core che pensa a questi bisogni, e li soddisfa, che vince la repugnanza de’ sensi, per veder solamente l’anima immortale che soffre e si purifica, è il più bel testimonio per le dottrine che l’hanno educato, è una prova che queste non mancano mai all’ispirazioni più ardenti e ingegnose della carità universale.
Donde è dunque potuta venire un’opinione così arbitraria e opposta al fatto, come quella che s’è esaminata nel presente capitolo? Se non m’inganno, da un’estensione affatto abusiva, anzi dall’alterazione manifesta di quell’insegnamento, non italiano, ma veramente cattolico, che il solo motivo di sollevare il suo simile non basta a render cristiana e santa l’elemosina, e a darle un merito soprannaturale. Mi servirò anche qui d’alcune parole del Segneri, che esprimono questo sentimento, senza contradire, ne punto nè poco, all’altre sue citate dianzi: «Se non che, avvertite che non basta a un vero limosiniere quella pietà naturale, con la quale si compatisce un uomo perch’egli è uomo. Fin qui sanno anche giungere gl’infedeli..... Troppo più alto prende però la mira l’occhio d’un limosiniere fedele, qual noi cerchiamo. Non solo ha egli compassione del povero, ma gliel’ha per amor di Dio. Anticamente sopra il fuoco che s’era acceso a bruciar la vittima, pioveva Iddio un’altro fuoco più segnalato e più sacro che, giunto al primo, desse compimento più nobile al sacrifizio. Or figuratevi che così faccia la carità sopra quelle fiamme di compassion naturale, per sè lodevole: aggiunge ella anche altre fiamme d’amor cristiano, per cui si compiste l’olocausto in odore di soavità13.»
Ora, se quella falsa credenza ha avuta occasione da quest’insegnamento (e non saprei immaginarmi da cos’altro) basterà, se non è superfluo, l’osservare la differenza, anzi la diversità, che passa tra l’insegnare che l’elemosina dev’esser fatta, non solo per sollevare il suo simile, e l’insegnare che non dev’esser fatta per sollevare il suo simile. E d’altra parte, chi può non vedere quanto sia cosa giusta per sè, e independentemente da qualunque altro riguardo, il riferire ogni nostro sentimento verso qualunque creatura, all’Autore di tutte? chi non riconosce in questo una condizione essenziale e universale del culto medesimo? giacchè, quali nostri sentimenti si dovranno riferire a Dio, se non tutti? Che parte fargli? Quali cose amare per Lui, dependentemente da Lui, e relativamente a Lui, e quali altre per loro medesime, come nostro fine, come ultimo e unico termine dal nostro affetto? È dunque verissimo che, per un insegnamento essenziale del cristianesimo, depositario della vera nozione di Dio e delle creature, e non già per un ritrovato di casisti, l’intento di sollevare il suo simile, si trova subordinato a un intento superiore. Ma è forse a scapito di quella compassione naturale per sè lodevole? Quando mai un bon sentimento qualunque ha potuto perdere la sua giusta attività, per esser collocato nel suo ordine? E nel caso presente, chi non vede quanto l’inclinazion naturale a sollevare il suo simile (naturale bensì, ma da quante inclinazioni opposte combattuta!) deva, acquistar di forza, di prevalenza, d’universalità, dall’amarlo per Dio, e in Dio, come fatto a di Lui immagine, redento da Lui, come quello nel quale Egli ama d’abitare come in suo tempio? Perchè, tale è la sublime estensione data dal cristianesimo alla significazione di quel simile, così ristretta, e, per conseguenza, così poco efficace e feconda, nel solo senso naturale. In un animo dove regni veramente l’amor di Dio, non può aver luogo l’indifferenza per i patimenti del prossimo. «O Seigneur! esclama il Bossuet, si je vous aimois de toute ma force, de cet amour j’aimerois mon prochain comme moi même. Mais je suis si insensible à ses maux, pendant que je suis si sensible au moindre des miens. Je suis si froid à le plaindre, si lent à le secourir, si foible à le consoler; en un mot, si indifférent dans ses biens et dans ses maux14.» Non è raro il trovar degli uomini che si lamentino d’esser troppo sensibili ai mali altrui. Tra questo querulo vanto di sentir troppo, e quell’umile confessione di non sentire abbastanza, qual è che annunzi una contentatura più difficile, e, per conseguenza, un principio più imperioso e più attivo?
Note
- ↑ Si vis perfectus esse, vade, vende quæ habes, et da pauperibus, et habebis thesaurum in cælo. Matth. XIX, 21.
Facite vobis amicos de mammona iniquitatis, ut, cum defeceritis, recipiant vos in æterna tabernacula. Luc. XVI, 9.
Tunc dicet Rex his qui a dextris eius erunt: Venite, benedicti Patris mei, possidete paratum vobis regnum a constitutione mundi: esurivi enim, et dedistis mihi manducare; sitivi, et dedistis mihi bibere; hospes eram, et collegistis me; nudus, et cooperuistis me; infirmus, et visitastis me, in carcere eram, et venistis ad me.... quamdiu fecistis uni ex fratribus meis minimis, mihi fecistis. Matth. XXV, 34 et seq. - ↑ Non est enim ei bene qui assiduus est in malis, et eleemosynas non danti. Eccl. XII, 3.
- ↑ Benefacit animæ suæ vir misericors. Prov. XI, 17.
- ↑ Per questa ragione, si chiamano spesso indifferentemente, santi, o beati, quelli che possiedono la vita eterna.
- ↑ Pietas autem ad omnia utilis est, promissionem habens vitæ quæ nunc est, et futuræ. I Tim. IV, 8.
- ↑ Non pas méme sur les joies du Paradis, quoique ces joies du Paradis ne soient autre chose que le comble, la surabondance, la perfection de l’amour de Dieu! Bossuet Instruction sur les états d’oraison, III, 5; dove confuta la strana proposizione, che un’anima arrivata, nella vita presente, a un certo grado di perfezione, est dans une si entière désappropriation, qu’elle ne sauroit plus arrêter un seul dèsir sur quoi que ce soit.
- ↑ Tale fu, come è noto, la dottrina sulla quale disputarono il Fenélon e il Bossuet. Il nome de’ due gran contendenti ha attirata spesso l’attenzione de’ loro posteri su questa controversia; e i giudizi che se ne fecero, sono molti e vari: il meno sensato di questi mi pare quello che la dichiara una questione frivola.
Questa è l’idea che ne volle dare il Voltaire (Siècle de Louis XIV, Chap. XXXVIII, du Quiétisme). Certo, se ogni ricerca sulle ragioni di volere, e sui doveri, e sul modo di ridurre tutti i sentimenti dell’animo a un centro di verità, si riguarda come frivola, tale sarà anche questa, poiché è di quella categoria. Ma in quel caso, quale studio sarà importante all’uomo? I filosofi che vennero dopo il Voltaire continuarono a trattar questo punto di morale, benchè in altri termini, e lo considerarono come fondamenrale (V. tra gli altri «Woldemar par Jacobi, trad. de l’allemand par Ch. Wanderbourg.» T. I, pag. 151 e seg.). Le controversie sulla relazione dell’interesse con la morale, sull’amore della virtù per sè stessa, si riducono, nella parte essenziale a quella del Quietismo; a decidere cioè, se il motivo della propria felicità deva entrare nelle determinazioni virtuose. Senonchè, nelle dispute su questa materia, chiamate a torto filosofiche, nelle quali non si contempla che la vita presente, la questione è necessariamente piantata in falso: poichè, o c’è supposto tacitamente che non ci sia un’altra vita, o, ammettendola, almeno come possibile, non se ne fa caso: due modi di ragionare, de’ quali non si saprebbe dire qual sia il più anti-filosofico. Nella disputa teologica di cui s’è fatto cenno, l’errore aveva qualcosa di più strano, appunto perchè la questione era posta nella sua integrità. Quest’errore, confutato dal Bossuet con quella sua sapiente eloquenza, non tendeva niente meno che a metter l’amor di Dio in opposizione con una legge necessaria dell’animo, qual è il desiderio della felicità, e a far posporre la perfezione possibile, e promessa, a una perfezione arbitraria e assurda. È inutile aggiungere che queste conseguenze erano ben lontane dall’intenzioni del Fénelon. La sua pronta e costante sommissione alla condanna delle sue proposizioni, l’altre sue opere, e tutta la sua vita sono una prova della sincerità con cui non cessò mai di protestare che non intendeva, nè di proporre, nè d’accettare cosa alcuna che deviasse menomamente dalla fede della Chiesa. - ↑ Maiores divitias æstimans thesauro Ægyptiorum, improperium Christi: aspiciebat enim in remunerationem. Paul. ad Hebr. XI, 26.
- ↑ Ut sit eleemosina tua in abscondito; et Pater tuus, qui videt in abscondito, reddet tibi. Matth. VI, 4.
- ↑ De quo non implevit manum suam qui metit. Psal. CXXVIII, 7.
- ↑ Misereor turbæ, quia triduo jam perseverant mecum, et non habent quod manducent; et dimittere eos jejunos nolo, ne deficiant in via. Matth, XV, 32.
- ↑ Vita della virtuosa matrona milanese, Teresa Trotti Bentivogli Arconati; pag. 82.
- ↑ Il Cristiano istruito. Parte I. Ragionamento 18.°
- ↑ Méditations sur l’Évangile; Sermon de Notre Seigneur sur la montagne, XLVIII jour.