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518 osservazioni sulla morale cattolica


Bisognerebbe domandare a que’ parrochi zelanti e misericordiosi i quali, girando per le case affollate dell’indigenza, e dopo aver soddisfatto, con lacrime di tenerezza e di consolazione, a degli estremi bisogni, ne trovano ancora de novi, e non possono altro che mischiare le loro lacrime con quelle del povero, bisognerebbe domandar loro se, quando ricorrono al ricco per avere i mezzi di saziare la loro carità, non gli parlano che dell’anima sua, se non gli dipingono le miserie e i patimenti e i pericoli del bisognoso, e se quelli a cui sono rivolte preghiere così sante e così generose, le ascoltano con una fredda insensibilità; se l’immagine del dolore e della fame è esclusa da sentimenti che li movono a convertire in un mezzo di salute quelle ricchezze le quali sono così spesso un inciampo, un mezzo di piaceri che portano alla dimenticanza, e fino all’avversione per l’uomo che patisce.

San Carlo, che si spogliava per vestire i poveri, e che, vivendo tra gli appestati per dar loro ogni sorte di soccorso, non dimenticava che il suo pericolo; quel Girolamo Miani, che andava in cerca d’orfani pezzenti e sbandati, per nutrirli e per disciplinarli, con quella premura che metterebbe un ambizioso a diventar educatore del figlio d’un re, non pensavano dunque che all’anime loro? E l’intento di sollevare i loro simili non entrava per nulla in una vita tutta consacrata a loro? L’uomo che vive lontano dallo spettacolo delle miserie, sparge qualche lacrima sentendole descrivere; e quelli che un’irrequieta carità spingeva a cercarle, a soccorrerle, ci avrebbero portato un core privo di compassione?

Certo, non occorre di far qui un’enumerazione degli atti di carità di cui è piena la storia del cattolicismo: ne scelgo uno solo, insigne per delicatezza di commiserazione; e lo scelgo perchè, essendo recente, è un testimonio consolante dello spirito che c’è sempre vivo. Una donna che abbiamo veduta in mezzo a noi, e di cui ripeteremo il nome a’ nostri figli, una donna cresciuta tra gli agi, ma avvezza da lungo tempo a privarsene, e a non vedere nelle ricchezze che un mezzo di sollevare i suoi simili, uscendo un giorno da una chiesa di campagna, dove aveva ascoltata un’istruzione sull’amore del prossimo, andò al casolare d’un’inferma, il di cui corpo era tutto schifezza e putredine; e non si contentò di renderle, com’era solita, que’ servizi pur troppo penosi, coi quali anche il mercenario intende di fare un’opera di misericordia, ma trasportata da un soprabbondante impeto di carità, l’abbraccia, la bacia in viso, le si mette al fianco, divide il letto del dolore e dell’abbandono, e la chiama più e più volte col nome di sorella1.

Ah! il pensiero di sollevare una creatura umana, non era certamente estraneo a que’ nobili abbracciamenti. Mangiare il pane della liberalità altrui, ottener di che raddolcire i mali del corpo, e prolungare una vita di stenti, non è il solo bisogno dell’uomo sul quale pesa la miseria e l’infermità. Sente d’esser chiamato anche lui a questo convito d’amore e di comunione sociale: la solitudine in cui è lasciato, il pensiero di far ribrezzo al suo simile, il riguardo con cui gli si avvicina quel medesimo che gli porge soccorso, il non veder mai un sorriso, è forse il più amaro de’ suoi dolori. E il core che pensa a questi bisogni, e li soddisfa, che vince la repugnanza de’ sensi, per veder solamente l’anima immortale che soffre e si purifica, è il più bel testimonio per le dottrine che l’hanno educato, è una prova che queste non mancano mai all’ispirazioni più ardenti e ingegnose della carità universale.

Donde è dunque potuta venire un’opinione così arbitraria e opposta al

  1. Vita della virtuosa matrona milanese, Teresa Trotti Bentivogli Arconati; pag. 82.