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capitolo decimoquinto | 517 |
non è altro che l’ignorare o lo sconoscere quel bene che si può volere agli altri come a sè, perchè, essendo infinito può riempir ciascheduno, senza esser mai nè esaurito, nè diminuito da alcuno. L’amor permanente, irresistibile, incondizionato di sè, è certamente una legge naturale d’ogni anima umana non amar gli altri come sè, non è punto una conseguenza di questa legge, ma un’aggiunta arbitraria, fondata unicamente sulla supposizione, che non ci siano per l’uomo altri beni fuori di quelli, il possesso de’ quali ha per condizione che gli altri ne siano privi. La religione, per chi vuole ascoltarla, ha levata di mezzo questa supposizione; e, con la sua scorta, è anche facile il riconoscere che amare il prossimo come sè stesso, non è altro che un precetto di stretta giustizia; perchè la ragione di questi due amori è uguale, anzi la stessa. Qual’è, infatti, la ragione d’amare, non l’uno o l’altro o alcuno de’ nostri simili, ma il nostro prossimo, cioè ognuno de’ nostri simili, independentemente da ogni nostra particolare inclinazione, da ogni sua particolare qualità, e da ogni suo merito verso di noi? Dove si può, dico, trovar la ragione di questo amore per tutti gli uomini, se non in ciò che è comune a tutti gli uomini, e insieme degno d’amore, cioè la natura umana medesima, l’essere nobilissimo di creatura intelligente, formata a immagine di Dio, e capace di conoscerlo, d’amarlo e di possederlo, val a dire d’un’altissima perfezione morale? Così il precetto divino, non che essere in opposizione col vero e giusto amore di noi medesimi, ce ne fa trovar la ragione nell’amore dovuto a tutti gli uomini: ragione, senza la quale questo invincibile amore di noi medesimi potrebbe parere nulla più che un cieco istinto. Se l’uomo avesse bisogno d’un insegnamento per amarsi, lo troverebbe sottinteso e implicito in questo precetto, che gl’impone d’amar l’umanità intera. Ne ha però bisogno, e quanto! per amarsi rettamente; e lo trova, come in tutti i precetti divini, così anche in questo, il quale, prescrivendogli d’amare il prossimo come sè stesso, gl’insegua a amar sè stesso come il prossimo, cioè a volere a sè quel bene che deve, e può ragionevolmente, volere agli altri: il bene sommo e assoluto, prima di tutto, e i beni finiti e temporali, in quanto possano esser mezzo a quello.
Ora, come mai da questa dottrina d’amore, di comunione e, dirò così, d’assimilazione tra gli uomini, potrebbe venire che s’abbia a escludere dall’elemosina il motivo di sollevare il suo simile? Certo, non è impossibile che ciò sia entrato in qualche mente, come c’entrano tant’altre contradizioni; ma oso asserir di novo, che non fa parte dell’insegnamento religioso in Italia, e che il Segneri ha parlato il linguaggio comune di quest’insegnamento, quando ha detto che «due solamente sono alla fine le porte del cielo: l’una, quella del patire; e l’altra, quella del compatire.» I ministri del Vangelo, quando inculcano di soccorrere i poveri, rappresentano sempre l’angosce del loro stato; e, nella trascuranza di questo dovere, condannano espressamente la durezza e la crudeltà, come disposizioni ingiuste e anti-evangeliche.
Quando Gesù Cristo moltiplicò i pani, per satollare le turbe che, con tanta fiducia, correvano dietro alla parola, l’opera dell’onnipotenza fu preceduta da un ineffabile movimento di commiserazione nel core dell’Uomo Dio. «Ho pietà di questo popolo, perchè sono già tre giorni, che non si distaccano da me, e non hanno niente da mangiare; e non voglio rimandarli digiuni, perchè non svengano per la strada1.» La Chiesa ha ella potuto cessare un momento di proporre per modello i sentimenti di Gesù Cristo?
- ↑ Misereor turbæ, quia triduo jam perseverant mecum, et non habent quod manducent; et dimittere eos jejunos nolo, ne deficiant in via. Matth, XV, 32.