Orlando innamorato/Libro primo/Canto sesto

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CANTO SESTO




        Stati ad odir, segnor, la gran battaglia,
     Che un’altra non fu mai cotanto oscura.
     Di sopra odisti la forza e la taglia1
     De Zambardo, diversa creatura.
     Ora odireti con quanta travaglia,
     Fu combattuto, e la disaventura
     Che intravenne ad Orlando senatore,
     Qual forse non fu mai, nè fia maggiore.2

        Lo ardito cavallier monta su il ponte;
     Zambardo la sua mazza in mano afferra.
     A mezza cossa non li aggiunge il conte,
     Ma con gran salti si leva da terra,
     Sì che ben spesso li tien fronte a fronte.
     Ecco il gigante che il baston disserra:
     Orlando vede il colpo che vien d’alto,
     Da l’altro canto se gittò de un salto.

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        Forte se turba quel saracin fello;
     Ma ben lo fece Orlando più turbare,
     Perchè nel braccio il gionse a tal flagello,
     Che il baston fece per terra cascare.
     Subitamente poi parve uno uccello,
     Che l’altro colpo avesse a radoppiare;
     Ma tanto è duro il cor’ di quel serpente,
     Che sempre poco ne tocca, o nïente.

        La simitara avea tratto Zambardo,
     Da poi ch’in terra gli cadde il bastone.3
     Ben vide quel barone esser gagliardo,
     E de adoprar la rete fa rasone;
     Ma quello aiuto vol che sia il più tardo.
     Or mena della spada un riversone;
     A meza guancia fu il colpo diverso:
     Ben vinti passi Orlando andò in traverso.

        Per questo è il conte forte riscaldato,
     Il viso gli comincia a lampeggiare;
     L’un e l’altro occhio aveva stralunato.
     Questo gigante ormai non può campare:
     Il colpo mena tanto infulminato,
     Che Durindana facea vinculare,
     Ed era grossa, come Turpin conta,
     Ben quattro dita da l’elcio alla ponta.

        Orlando lo colpisce nel gallone,
     Spezza le scaglie e il dosso del serpente.
     Avea cinto di ferro un corrigione:
     Tutto lo parte quel brando tagliente.
     Sotto lo usbergo stava il pancirone,
     Ma Durindana ciò non cura niente;4
     E certamente per mezo il tagliava,
     Se per lui stesso a terra non cascava.

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        A terra cadde, o per voglia, o per caso,
     Io nol scio dir; ma tutto se distese.
     Color nel volto non gli era rimaso,
     Quando vidde il gran colpo sì palese;
     Il cor gli batte, e freddo ha il mento e ’l naso.
     Il suo baston, ch’è in terra, ancor riprese;
     Così a traverso verso Orlando mena,
     E gionsel proprio a mezo alla catena.5

        Il conte di quel colpo andò per terra,
     E l’un vicino a l’altro era caduto.
     Così distesi, ancora se fan guerra;6
     Più presto in piedi Orlando è rivenuto.
     Nella barbuta ad ambe man lo afferra;
     Lui anco è preso dal gigante arguto,
     E stretto se lo abbraccia sopra al petto;
     Via ne ’l porta nel fiume il maledetto.

        Orlando ad ambe man gli batte il volto,
     Chè Durindana in terra avea lasciata;
     Sì forte il batte, che ’l cervel gli ha tolto:
     Cadde il gigante in terra un’altra fiata.
     Incontinente il conte si è rivolto
     Dietro alle spalle, e la testa ha abbracciata.7
     Balordito è il gigante, e non gli vede,
     Ma al dispetto de Orlando salta in piede.

        Or si rinova il dispietato assalto:
     Questo ha il bastone, e quello ha Durindana.
     Già nol puotea ferire Orlando ad alto,
     Standose fermo in su la terra piana;
     Ma sempre nel colpire alciava un salto:
     Battaglia non fu mai tanto villana.
     Vero è che Orlando del scrimire ha l’arte;
     Già ferito è il gigante in quattro parte.

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        Mostra Zambardo un colpo radoppiare,
     Ma nel ferire a mezo se rafrena;
     E, come vede Orlando indietro andare,
     Passagli adosso, e forte a due man mena.
     Non vale a Orlando il suo presto saltare;
     Sibilla il cielo e suona ogni catena.
     Non se smarisce quel conte animoso,
     Col brando incontra ’l colpo roïnoso:

        Ed ha rotto il bastone e fraccassato.
     E non crediati poi ch’el stia a dormire;
     Ma d’un riverso al fianco gli ha menato,8
     Là dove l’altra volta ebbe a colpire.
     Quivi il cor’ del serpente era tagliato:
     Or che potrà Zambardo ben guarnire?9
     Chè Durindana vien con tal furore,
     Che la saetta [d]e ’l tron non l’ha maggiore.

        Quasi il parte da l’uno a l’altro fianco
     (Da un lato se tenea poco, o nïente).
     Venne il gigante in faccia tutto bianco,
     E vede ben che è morto veramente.
     Forte la terra batte col piè stanco,
     E la rete si scocca incontinente,
     E con tanto furor agrappa Orlando,
     Che nel pigliar de man li trasse ’l brando.

        Le braccia al busto li strengie con pena,
     Che già non si poteva dimenare;
     Tanto ha grossa la rete ogni catena,
     Che ad ambe man non si puotria pigliare.
     O Dio del celo, o Vergine serena,
     Diceva il conte, debbiame aiutare!
     Alor che quella rete Orlando afferra,
     Cadde Zambardo morto in su la terra.10

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        Solitario è quel loco e sì diserto,
     Che rare volte gli venìa persona.
     Legato è il conte sotto il celo aperto;
     Ogni speranza al tutto l’abandona.
     Perduto è de l’ardire ogni suo merto:11
     Non gli val forza, nè armatura buona.
     Senza mangiare un dì stette in quel loco,
     E quella notte dormì molto poco.

       Così quel giorno e la notte passava;12
     Cresce la fame, e la speranza manca.
     A ciò che sente d’intorno, guardava:
     Ed ecco un frate con la barba bianca.13
     Come lo vidde, il conte lo chiamava,
     Quanto levar puotea la voce stanca:
     Patre, amico de Dio, donami aiuto!
     Ch’io sono al fin della vita venuto.

         Forte si meraviglia il vecchio frate,
     E tutte le catene va mirando;
     Ma non sa come averle dischiavate.
     Diceva il conte: Pigliate il mio brando,
     E sopra a me questa rete tagliate.
     Rispose il frate: A Dio te racomando,
     S’io te occidessi, io serìa irregulare;
     Questa malvagità non voglio fare.

        Stati securo in su la fede mia,
     Diceva Orlando, ch’io son tanto armato,
     Che quella spada non mi tagliaria.
     Così dicendo tanto l’ha pregato,
     Che il monaco quel brando pur prendia:
     Apena che di terra l’ha levato.
     Quanto può l’alcia sopra alla catena:
     Non che la rompa, ma la segna apena.

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        Poi che se vidde indarno affaticare,
     Gietta la spada, e con parlare umano
     Comincia ’l cavalliero a confortare:
     Vogli morir, dicea, come cristiano,
     Nè ti voler per questo disperare.
     Abbi speranza nel Segnor soprano,
     Chè, avendo in pacïenzia questa morte,
     Te farà cavallier della sua corte.

        Molte altre cose assai gli sapea dire,
     E tutto il martilogio gli ha contato;
     La pena che ogni Santo ebbe a soffrire:
     Chi crucifixo, e chi fo scorticato.
     Dicea: Figliolo, il te convien morire:
     Abbine Dio del celo ringraziato.
     Rispose Orlando, con parlar modesto:
     Ringraziato sia lui, ma non di questo;

        Perch’io vorrebbi aiuto, e non conforto.
     Mal aggia l’asinel che t’ha portato!
     Se un giovane venìa, non serìa morto:
     Non potea giunger qui più sciagurato.
     Rispose il frate: Ahimè! barone accorto,
     Io vedo ben che tu sei disperato.
     Poi che ti è forza la vita lasciare,
     L’anima pensa, e non l’abbandonare.14

        Tu sei barone di tanta presenza,
     E lascite alla morte spaventare?
     Sappi che la divina Provvidenza
     Non abandona chi in lei vol sperare:
     Troppo è dismisurata sua potenza!
     Io di me stesso ti voglio contare,
     Che sempre ho, la mia vita, in Dio sperato:15
     Odi da qual fortuna io son campato.

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        Tre frati ed io di Ermenia se partimo,16
     Per andar al perdono in Zorzania;
     E smarrimo la strata, come io stimo,
     Ed arivamo quivi in Circasia.
     Un fraticel de’ nostri andava primo,
     Perchè diceva lui saper la via.
     Ed ecco indietro correndo è rivolto,
     Cridando aiuto, e pallido nel volto.

        Tutti guardamo; ed ecco giù del monte
     Venne un gigante troppo smisurato.17
     Un occhio solo aveva in mezo al fronte;
     Io non ti sapria dir de che era armato:
     Pareano ungie di draco insieme agionte.
     Tre dardi aveva e un gran baston ferrato;
     Ma ciò non bisognava a nostra presa,
     Che tutti ce legò senza contesa.

        A una spelonca dentro ce fe’ entrare,
     Dove molti altri avea nella pregione;
     Lì con questi occhi miei viddi io sbranare
     Un nostro fraticel, che era garzone;
     E così crudo lo viddi mangiare,
     Che mai non fo maggior compassïone.
     Poi volto a me dicea: "Questo letame
     Non se potrà mangiar, se non con fame";

        E con un piè mi trabuccò del sasso.
     Era quel scoglio orribile et arguto:
     Trecento braccia è dalla cima al basso.
     In Dio speravo, e Lui mi dette aiuto;18
     Perchè ruinando io giù tutto in un fasso,19
     Me fo un ramo de pruno in man venuto,
     Che uscia del scoglio con branchi spinosi;20
     A quel me appresi, e sotto a quel me ascosi.

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        Io stavo queto e pur non soffiava,21
     Fin che venuto fu la notte oscura.
     Mentre che ’l frate così ragionava
     Guardosse indietro, e con molta paura
     Fuggìa nel bosco. Ahimè tristo! cridava22
     Ecco la maladetta creatura,
     Quel che io t’ho detto ch’è cotanto rio.23
     Franco barone, io te acomando a Dio.24

        Così li disse, e più non aspettava,
     Chè presto nella selva se nascose.
     Quel gigante crudel quivi arivava:
     La barba e le mascielle ha sanguinose;
     Con quel grande occhio d’intorno guardava.
     Vedendo Orlando, a riguardar se il pose;
     Sul col lo abbranca e forte lo dimena,
     Ma nol può sviluppar della catena.

        Io non vo’ già lasciar questo grandone,
     Diceva lui, dapoi ch’io l’ho trovato;25
     Debbe esser sodo come un bon montone:
     Integro a cena me lo avrò mangiato.
     Sol de una spalla vo’ fare un boccone.
     Così dicendo, ha il grande occhio voltato,
     E vede Durindana su la terra:
     Presto se china e quella in mano afferra.

        E’ soi tre dardi e il suo baston ferrato
     Ad una quercia avea posati apena,26
     Che Durindana, quel brando afilato,
     Con ambe mano adosso a Orlando mena;27
     Lui non occise, perchè era fatato,
     Ma ben gli taglia adosso ogni catena;
     E sì gran bastonata sente il conte,
     Che tutto suda dai piedi alla fronte.

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        Ma tanto è l’allegrezza de esser sciolto,28
     Che nulla cura quella passïone;
     Dalle man del gigante è presto tolto;
     Corre alla quercia, e piglia il gran bastone.
     Quel dispietato se turbò nel volto,
     Chè se ’l credea portar come un castrone:29
     Poi che altramente vede il fatto andare,
     Per forza se il destina conquistare.

        Come sapiti, essi hanno arme cambiate.
     Orlando teme assai della sua spada,
     Però non se avicina molte fiate;
     Da largo quel gigante tiene a bada.
     Ma lui menava botte disperate:
     Il conte non ne vol di quella biada;
     Or là, or qua giamai fermo non tarda,
     E da sua Durindana ben se guarda.

        Batte spesso il gigante del bastone,
     Ma tanto viene a dir, come nïente,
     Chè quello è armato d’ungie de grifone:30
     Più dura cosa non è veramente.
     Per lunga stracca pensa quel barone
     Che nei tre giorni pur sarà vincente;
     E mentre che ’l combatte in tal riguardo,
     Muta pensiero, e prende in mano un dardo.

        Un di quei dardi che lasciò il gigante;
     Orlando prestamente in man l’ha tolto.
     Non fallò il colpo quel segnor d’Anglante,
     Chè proprio a mezo l’occhio l’ebbe còlto.
     Un sol n’avea, come odisti davante,
     E quel sopra del naso in cima al volto:
     Per quello occhio andò il dardo entro al cervello;
     Cade il gigante in terra con flagello.31

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        Non fa più colpo a sua morte mistiero:
     Orlando ingenocchion Dio ne ringraccia.32
     Ora ritorna il frate in sul sentiero,33
     Ma come vede quel gigante in faccia,
     Ben che sia morto, li parve sì fiero,
     Che ancor fuggendo nel bosco si caccia.34
     Ridendo Orlando il chiama et assicura:
     E quel ritorna, ed ha pur gran paura.

        E poi diceva: O cavallier de Dio,
     Chè ben così ti debbo nominare,
     Opera de un baron devoto e pio
     Serà de morte l’anime campare35
     Che avea nella pregion quel mostro rio:
     Alla spelonca te saprò guidare.36
     Ma se un gigante fosse rivenuto,
     Da me non aspettare alcuno aiuto.

        Così dicendo alla spelonca il guida,
     Ma de entrar dentro il frate dubitava.
     Orlando in su la bocca forte crida:
     Una gran pietra quel buco serrava.37
     Là giù se odino voce in pianto e strida,38
     Chè quella gente forte lamentava.
     La pietra era de un pezzo, quadra e dura;
     Dece piedi ogni quadro per misura.39

        Aveva un piede e mezo di grossezza,
     Con due catene quella si sbarava.
     In questo loco infinita fortezza
     Volse mostrare il gran conte di Brava;
     Con Durindana le catene spezza,
     Poi su le braccia la pietra levava;
     E tutti quei prigion subito sciolse,
     Ed andò ciascadun là dove volse.

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        De qui se parte il conte, e lascia il frate;
     Va per la selva dietro ad un sentiero,
     E gionse proprio dove quattro strate
     Faceano croce; e stava in gran pensiero
     Qual de esse meni alle terre abitate.
     Vede per l’una venire un correro;
     Con molta fretta quel correro andava:
     Il conte de novelle il dimandava.

        Dicea colui: Di Media son venuto,40
     E voglio andare al re di Circasia;
     Per tutto il mondo vo’ cercando aiuto
     Per una dama, che è regina mia.
     Ora ascoltati il caso intravenuto:
     Il grande imperator di Tartaria
     De la regina è inamorato forte,
     Ma quella dama a lui vol mal di morte.41

        Il patre della dama, Galifrone,
     È omo antiquo ed amator di pace;
     Nè col Tartaro vol la questïone,
     Chè quello è un segnor forte e troppo audace.
     Vol che la figlia, contra a ogni ragione,
     Prenda colui che tanto li dispiace:
     La damigella prima vol morire
     Che alla voglia del patre consentire.

        Ella ne è dentro ad Albraca fuggita,
     Che longe è dal Cataio una giornata;
     Ed è una rocca forte e ben guarnita,
     Da fare a lungo assedio gran durata.
     Lì dentro adesso è la dama polita,
     Angelica nel mondo nominata;
     Chè qualunche è nel cel più chiara stella,42
     Ha manco luce ed è di lei men bella.43

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        Poi che partito fo quel messagiero,
     Orlando via cavalca alla spiccata;44
     E ben pare a sè stesso nel pensiero
     Aver la bella dama guadagnata.
     Così pensando, il franco cavalliero
     Vede una torre con lunga murata,
     La qual chiudeva de uno ad altro monte;
     Di sotto ha una rivera con un ponte.

        Sopra a quel ponte stava una donzella,
     Con una coppa di cristallo in mano.
     Veggendo il conte, con dolce favella
     Fassigli incontra, e con un viso umano
     Dice: Baron, che seti su la sella,
     Se avanti andati, vo[i] andareti in vano.
     Per forza o ingegno non si può passare:
     La nostra usanza vi convien servare.

        Ed è l’usanza che in questo cristallo
     Bever conviensi di questa rivera.
     Non pensa il conte inganno o altro fallo:
     Prende la coppa piena, e beve intera.45
     Come ha bevuto, non fa lungo stallo
     Che tutto è tramutato a quel che egli era;
     Nè sa per che qui venne, o come, o quando,
     Nè se egli è un altro, o se egli è pur Orlando.

        Angelica la bella gli è fuggita
     Fuor della mente, e lo infinito amore,
     Che tanto ha travagliata la sua vita;
     Non se ricorda Carlo imperatore.46
     Ogni altra cosa ha del petto bandita,
     Sol la nova donzella gli è nel core;
     Non che di lei se speri aver piacere,
     Ma sta suggietto ad ogni suo volere.47

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        Entra la porta sopra a Brigliadoro,
     Fuor di se stesso, quel conte di Brava.
     Smonta a un palagio de sì bel lavoro,
     Che per gran meraviglia il riguardava;
     Sopra a colonne de ambro e base d’oro48
     Una ampla e ricca logia se posava;
     Di marmi bianchi e verdi ha il suol distinto,49
     Il cel de azurro ed ôr tutto è depinto.

        Davanti della logia un giardin era,
     Di verdi cedri e di palme adombrato,
     E de arbori gentil de ogni maniera.
     Di sotto a questi verdeggiava un prato,
     Nel qual sempre fioriva primavera:
     Di marmoro era tutto circondato;
     E da ciascuna pianta e ciascun fiore
     Usciva un fiato di suave odore.

        Posesi il conte la logia a mirare,50
     Che avea tre facce, ciascuna depinta.
     Sì seppe quel maestro lavorare,
     Che la natura vi serebbe vinta.
     Mentre che il conte stava a riguardare,
     Vide una istoria nobile e distinta.
     Donzelle e cavallieri eran coloro:
     Il nome de ciascuno è scritto d’oro.

        Era una giovanetta in ripa al mare,
     Sì vivamente in viso colorita,
     Che, chi la vede, par che oda parlare.
     Questa ciascuno alla sua ripa invita;
     Poi li fa tutti in bestie tramutare.
     La forma umana si vedia rapita;
     Chi lupo, chi leone e chi cingiale,
     Chi diventa orso, e chi grifon con l’ale.51

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        Vedevasi arivar quivi una nave,
     E un cavalliero uscir di quella fuore,
     Che con bel viso e con parlar suave
     Quella donzella accende del suo amore.
     Essa pareva donarli la chiave,
     Sotto la qual si guarda quel liquore,
     Col qual più fiate quella dama altera52
     Tanti baron avea mutati in fera.53

        Poi si vedea lei tanto accecata54
     Del grande amor che portava al barone,
     Che dalla sua stessa arte era ingannata,
     Bevendo al napo della incantasone;
     Et era in bianca cerva tramutata,
     Et da poi presa in una cacciasone
     (Circella era chiamata quella dama):
     Dolesi quel baron che lei tanto ama.55

        Tutta la istoria sua ve era compita,
     Come lui fugge, e lei dama tornava.56
     La depintura è sì ricca e polita,
     Che d’ôr tutto il giardino aluminava.
     Il conte, che ha la mente sbigotita,
     Fuor de ogni altro pensier quella mirava.
     Mentre che de sè stesso è tutto fore,57
     Sente far nel giardino un gran romore.

        Ma poi vi contarò di passo in passo
     Di quel romore, e chi ne fu cagione.
     Ora voglio tornare al re Gradasso,
     Che tutto armato, come campïone,
     Alla marina giù discese al basso.
     Tutto quel giorno aspetta il fio de Amone:
     Or pensati se il debbe aspettare,
     Chè quel dua millia leghe è longe in mare.

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        Ma poi che vede il cel tutto stellato,
     E che Ranaldo pur non è apparito,
     Credendo certamente esser gabato,
     Ritorna al campo tutto invelenito.
     Diciam de Ricciardetto adolorato,
     Che, poi che vede il giorno esserne gito,58
     E che non è tornato il suo germano,
     O morto, o preso lo crede certano.

        De l’animo che egli è, voi lo pensati;
     Ma non lo abatte già tanto il dolore,
     Che non abbia i Cristian tutti adunati,
     E del suo dipartir conta il tenore;
     E quella notte se ne sono andati.
     Non ebbeno i Pagani alcun sentore;
     Chè ben tre leghe il sir di Montealbano
     Dal re Marsilio aloggiava lontano.

        Via caminando van senza riposo,
     Fin che son gionti di Francia al confino.
     Or tornamo a Gradasso furïoso:
     Tutta sua gente fa armare al matino.
     Marsilio da altra parte è pauroso,
     Chè preso è Ferraguto e Serpentino,
     Nè vi ha baron che ardisca di star saldo:
     Fugirno i Cristïan, perso è Ranaldo.59

        Viene lui stesso, con basso visaggio,
     Avante al re Gradasso ingenocchione;
     De’ Cristïani raconta lo oltraggio,
     Che fuggito è Ranaldo, quel giottone.
     Esso promette voler fare omaggio,
     Tenir il regno come suo barone;60
     Ed in poche parole èssi acordato;61
     L’un campo e l’altro insieme è mescolato.62

[p. 126 modifica]

        Uscì Grandonio fuor de Barcellona;
     E fece poi Marsilio il giuramento
     Di seguir de Gradasso la corona
     Contra di Carlo e del suo tenimento.
     Esso in secreto e palese ragiona
     Che disfarà Parigi al fondamento,
     Se non gli è dato il suo Baiardo in mano;
     E tutta Francia vol giettare al piano.

        Già Ricciardetto con tutta la gente,
     È gionto dal re Carlo imperatore;
     Ma di Ranaldo non scia dir nïente.
     Di questo è nato in corte un gran romore.
     Quei di Magancia assai vilanamente
     Dicono che Ranaldo è un traditore.
     Ben vi è chi il niega, ed ha questi a mentire,63
     E vol battaglia con chi lo vol dire.

        Ma il re Gradasso ha già passati i monti,
     Ed a Parise se ne vien disteso.
     Raduna Carlo soi principi e conti,64
     E bastagli lo ardir de esser diffeso.
     Nella cità guarnisce torre e ponti,
     Ogni partito della guerra è preso.
     Stanno ordinati; ed ecco una matina
     Vedon venir la gente saracina.

        Lo imperatore ha le schiere ordinate
     Già molti giorni avanti, nella terra.
     Or le bandiere tutte son spiegate,
     E suonan gl’instrumenti de la guerra.65
     Tutte le gente sono in piaza armate,
     La porta di San Celso se disserra;
     Pedoni avanti, e dietro i cavallieri:
     Il primo assalto fa il danese Ogieri.

[p. 127 modifica]

        Il re Gradasso ha sua gente partita
     In cinque parte, ogniuna a gran battaglia.66
     La prima è de India una gente infinita:
     Tutti son negri la brutta canaglia.
     Sotto a duo re sta questa gente unita:
     Cardone è l’uno, e come cane abaglia;
     Il suo compagno è il dispietato Urnasso,
     Che ha in man la cetta e de sei dardi un fasso.

        A Stracciaberra la seconda tocca.
     Mai non fu la più brutta creatura:
     Dui denti ha de cingial fuor della bocca,
     Sol nella vista a ogni om mette paura.
     Con lui Francardo, che con l’arco scocca
     Dardi ben lunghi e grossi oltra misura.
     Di Taprobana è poi la terza schiera;
     Conducela il suo re, e quello è l’Alfrera.

        La quarta è tutta la gente di Spagna,
     Il re Marsilio ed ogni suo barone.
     La quinta, che empie il monte e la campagna,
     È proprio di Gradasso il suo penone;
     Tanta è la gente smisurata e magna,
     Che non se ne può far descrizïone.67
     Ma parlamo ora del forte Danese,
     Che con Cardone è già gionto alle prese.

        Dodeci millia di bella brigata
     Mena il danese Ogieri alla battaglia,
     E tutta insieme stretta e ben serrata;68
     La schiera de quei negri apre e sbaraglia.
     Contra a Cardone ha la lancia arestata:
     Quel brutto viso come un cane abaglia;
     Sopra un gambilo armato è il maledetto.69
     Danese lo colpisce a mezo il petto.70

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        E non li vale scudo o pancirone,
     Chè giù di quel gambilo è ruinato;
     Or trà di calci al vento sul sabbione,
     Perchè da banda in banda era passato.
     Movese Urnasso, l’altro compagnone:
     Verso il Danese ha de un dardo lanciato.
     Passa ogni maglia, e la corazza, e il scudo,
     Ed andò il ferro insino al petto nudo.

        Ogier turbato li sperona adosso;
     Quel lanciò l’altro con tanto furore,
     Che li passò la spalla insino a l’osso,
     E ben sente il Danese un gran dolore,
     Fra sè dicendo: Se accostar mi posso,
     Io te castigarò, can traditore!
     Ma quello Urnasso e dardi in terra getta,
     E prende ad ambe mani una gran cetta.

        Segnor, sappiate che il caval de Urnasso
     Fu bon destriero e pien de molto ardire:
     Un corno aveva in fronte lungo un passo,
     Con quel suoleva altrui spesso ferire.
     Ma per adesso di cantar vi lasso,
     Chè, quando è troppo, incresce ogni bel dire:
     E la battaglia, ch’ora è cominciata,
     Serà crudele e lunga e smisurata.



  1. P. vaglia.
  2. Ml., Mr. e P, nè la maggiore.
  3. T., Ml. e Mr. cade.
  4. Ml., Mr. e P. Durindana non.
  5. P. a mezzo la.
  6. P. ancor si fanno; Ml. e Mr. ancor.
  7. Ml. omm. è
  8. P. roverso.
  9. P. chi .... guarire. ~ 29. Mr. ciel vergine.
  10. P. morto su.
  11. P. Perduto ’l Conte si vede allor certo.
  12. Mr. possava.
  13. Mr. con barba.
  14. P. A l’alma pensa.
  15. T., Ml. e Mr. in lui.
  16. T. e Mr. Herminia; Ml. Hermenia; P. Erminia.
  17. Ml. Venir un gran g. troppo smis.; Mr. Venir.
  18. P. Ed ei.
  19. P. Chè, rovinando.
  20. P. del sasso.
  21. P. pure.
  22. Mr. Fo gia.
  23. P. che cotanto è.
  24. P. Baron, ti raccomando.
  25. P. Diceva quel.
  26. Ml., Mr. e P. in su.
  27. T. e Mr. possati.
  28. MI. e P. tanta.
  29. P. Che.
  30. T., Ml. e Mr. quel che armato.
  31. P. Cadde.
  32. T. e Mr. ringratia; Ml. rengracia.
  33. P. Or. ’l vero Iddio con larghe braccia Ringrazia; or torna il Frate sul.
  34. P. anco.
  35. MI. e P. da.
  36. Mr. speluncia (v. 17 spelunca).
  37. T. buccho.
  38. P. s’odono voci, pianti e.
  39. Ml. e Mr. è ogni.
  40. T. collui.
  41. P. E quella; T. e Ml. da morte.
  42. P. Che.
  43. Ml. Da manco.
  44. P. alla spiegata.
  45. T., Mr. e P. bene.
  46. P. N’è si.
  47. Ml. sta.
  48. T. Sopra ha; P. Sopra colonne.
  49. T., Mr. e P. il suo.
  50. T. e Mr. Posessi
  51. Ml., Mr. e P. con ale.
  52. P. volte. — T. damma.
  53. P. mutato.
  54. T. e Ml. Poi si vedeva lei.
  55. Ml. Dolise; Mr. Dolisi; T. Dolessi; P. Ulisse.
  56. P. Com’egli f. e dama ella.
  57. P. E mentre di.
  58. Mr. esser
  59. T. Fuggitteno, Ml. Fugiti eno.
  60. T. e Mr. il suo.
  61. Ml.e Mr. e se acordato; P. s’accordaro.
  62. P. insieme mescolaro.
  63. Ml. et a qui a.
  64. P. i suoi.
  65. Mr. li stormenti. T. dalla.
  66. T., Ml. e Mr. ogniuna è (ogniuna; è?).
  67. T., Ml. e Mr. discretione.
  68. P. battaglia; .... serrata.
  69. Mr. omm. è
  70. P. ferisce.