Orazioni di Buonaccorso da Montemagno il Giovane/Orazione in favore di Catilina contra Tullio

Orazione in favore di Catilina contra Tullio

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Avvertenza Orazione prima fatta per M. Stefano Porcari

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ORAZIONE

DI

m. buonaccorso da montemagno in favore di
l. catilina contra m. t. cicerone.1


A tutti gli uomini, i quali vivono in grandissimi principati, o delle cose pubbliche o private consigliano, diligentemente si confà considerare, che alla voluttà d’alcuno stoltamente non consentano, e lo ingegno libero con furore, e iracundia aggravando non occupino; ma vigilantemente sforzarsi, che con gli animi invitti perseverando durino, e il bisogno di qualunque egualmente risguardino, nè in alcuna parte in clinati sieno, insino a tanto che le ragioni di ciascuno, più chiare che luce, aperte e manifeste, e assai discusse e trattate sieno. Imperocchè egli è difficile, commossi già gli animi e concitati gl’ingegni, alcuna cosa vera persuadere, tanta è stata alle volte la forza, e la veemenza dell’orazione. Questa considerazione se presso a voi fosse stata, Padri Coscritti, quando il nostro Consolo male de’ miei costumi con tanta acerbità poco innanzi parlava; quando con perversa ed inusitata eloquenzia contro alla mia vita e i vostri animi allettava, e la sua orazione con soave modo e voce pronunziava: certo mi confiderei, che la sua pessima e ostinata malizia dalla nostra innocenzia in questo giorno saria cancellata. Ma veggio già [p. 2 modifica]per la operazione del Consolo, le vostre menti2 alle mie cose avere invidia, e la mia orazione appena sopportare; credere già alla sua autorità, e della mia pudicizia in tutto diffidarsi. Per la qual cosa facilmente temo, che tarda non sia la difensione della mia salute, e che molti innocenti alla invidia o alla ingiustizia di pochi non possiamo resistere. Le quali cose, nè alla constanzia degli uomini illustri, nè alla Romana disciplina, nè alla Senatoria degnità per alcun modo convenienti paiono. Il perchè per gl’Iddii immortali, Padri Coscritti, voi e la vostra umanità appello, che in cose di tanta importanza maturamente il giudicio riceviate. Restituite nella pristina integrità gli animi mollificati per la copia e facundia della orazione di Cicerone; e in tal modo quegli restituite, che qualche volta le parole di Catilina Romano e Patrizio finalmente intendiate. Se in alcuna cosa contro alla Repubblica ho peccato, Quiriti, nè grazia da voi, nè misericordia addimando. Rimovete allora da questa luce questa misera anima: lacerate crudelmente questo afflitto corpo, e queste membra impudentissime tagliate. Non si adirizza al presente la nostra orazione, che della vita di Catilina abbiate misericordia; imperocchè egli è somma misericordia verso quegli che fanno contro alla Patria, la subita pena e repentino supplicio. Ma io priego voi di questa clemenzia, Padri Coscritti, che la mia innocenzia in tutto non abbandoniate, e, mentre che la libertà difendete, per la iniquità di pochi, molti senza colpa non condanniate ingiustamente. Dimostrerò a voi, dimostrerò, ed apertamente dichiarirò, non la salute della Republica, ma l’acerba inimicizia nel nostro Consolo di tutte queste cose essere stata cagione, e lui per furore e invidia tanta sceleraggine avere incominciata; e qualunque cose per cupidità d’imperio, non per conservazione della vostra libertà, avere tentate. Perocchè negli anni passati quanto meco si sia discordato; quanto le sue immoderate ini[p. 3 modifica]micizie me abbiano perseguitato; con quante e quante spesse villanie e ingiurie insieme siamo conversati, non racconterò al presente, Quiriti: a tutti voi in verità sono note e manifeste. Ma le cose più tosto ho disposto dire, che nei prossimi Comizii, da poi che consolo fu designato, sanza alcuna vergogna e con gran temerità finalmente l’ha divulgate; cioè, che per nessun’altra cosa, che per la morte di Catilina, il Consolato adimanda. Due testimoni sono qui presenti, uomini chiarissimi, Marco Antonio Consolo, e Caio Cesare, per l’autorità dei quali quello minacciamento in quel tempo, come mal consigliato, non fu approvato.

Gite ora, Padri Coscritti, e a tali uomini i Romani Imperii concedete, i quali con maggior cura le private inimicizie, che la salute di tutta la Republica perseguitano. Non disidera Cicerone il Consolato per sovvenire a’ miseri, per costrignere la potenzia de’ pessimi cittadini, difendere la Città, e alla sua Repubblica fedelmente provvedere; ma solo per potere Catilina dispergere, e in esilio mandare. È questo l’ufficio e il debito d’uomo clarissimo e consulare? Son queste le instituzioni d’un cittadino glorioso e santissimo? Proponete tali uomini alla vostra nobilità nel dimandare i magistrati, i quali sono di tanto e si grande animo a spegnere in tutta la Romana nobilità. Imperocchè quello, di che me solo più volte ha mi nacciato, assai più volentieri contro a voi convertirebbe. Credete a me, Padri Coscritti, credetemi,3 rade volte è tra gli animi tanto dissimili alcuno consenso di benivolenzia e carità. Costui è della Villa di Arpina, in questa città nuovamente ricevuto; e quella nuova ingenerata rabbia e invidia rivolge, la quale a’ nuovi e strani cittadini, non tanto i costumi, ma essa natura, per antica consuetudine ha data e conceduta. Oggi è il secondo giorno, che nella petizione del Consolato, la [p. 4 modifica]Patria aliena gli fu rimproverata; alcuna volta la novità della schiatta in vituperio ricordata. E con quale animo stimate voi quello uomo impazientissimo tanta ingiuria avere sopportata? Era in quel tempo incitato con crudele spirito il suo offeso e provocato ingegno, e come uno viperino serpente col petto enfiato e venefico, il suo feroce e dispietato animo era commosso. Questo4, il quale sè padre della patria nomina, el quale è usato dire, questa bellissima Repubblica del suo splendore essere adornata, e le famiglie di tutti gli uomini illustri, e prestantissimi non solamente coi suoi costumi avere agguagliato, ma eziandio con ogni virtù degli antichi avere superate; con che animo pensate avere sostenuto, veggendo a sè la novità del sangue essere rimproverata? Strideva allora maravigliosamente coi denti, e contro a voi tutti con rabbioso anelito la concetta ira occultamente incitava; la quale non pensate, per avere il Consolato ottenuto, pel tempo futuro essere mitigata: conciossiachè non per le vostre grazie, ma per le sue eccellenti virtù e infinite, tanta degnità dovere conseguire stimava. Il perchè ora col medesimo empito, che innanzi, seguita; ora con queste opere la Città perturbare e molestare ordina: ora con questi consigli vendicarsi apparecchia, e la nobilità Romana a quello riducere, che mai per alcuno tempo la novità a lui sia rimproverata. La qual cosa, per certo sarà, Padri Coscritti, se ’l vostro prudentissimo animo alla nostra salute, e di tutta la Republica non riguarda e provede. Già innanzi da questo principe d’ogni perversità, da questo artefice di tutti gli scelerati, di sì crudele e pestifera corruzione, la nostra Città è stata maculata, e tanto pernizioso seme, e mortale nella Patria sparto5, che se mai dalle radici un [p. 5 modifica]poco più allo elevato sia, si guasterà per certo questa vostra Repubblica, e questo bellissimo e nobilissimo imperio dalla sua stirpe e fundamenti ruinerà. Perocchè nessuna cosa è tanto pericolosa a tutte le Città, che quando i cittadini eletti intra loro si discordano. Imperocchè la discordia è inimica delle cose grandissime. Quella solamente le fortissime cose distrugge e guasta, quella tutto il mondo suggiogato, al Romano imperio solamente può nuocere. Questa contagione ha sparta costui nella nostra Città, e questa calamità intra noi recata; la quale se sia con tardità proveduta, veggio già nel grembo delle male fortune questa città essere collocata: veggio già l’armi nelle vostre mani, e l’uno all’altro essere contrario; alcuno grave mente essere condannato, e altri con gravissima crudelità della vita privato.

E volesse Iddio che di tanti mali Catilina innocente fosse ultimo fine, come originale principio! Nessuno pericolo a me saria grave per la Republica sopportare. Sosterrei come con giurato essere condannato. Sosterrei in esilio essere mandato; di tutti gli onori e magistrati privato; e finalmente a crudelissima morte essere giudicato. Ma non è sempre uno medesimo animo in tutti gli uomini. Sarà un altro più impaziente che vorrà più tosto la vendetta fare, che dei pessimi cittadini le ingiurie sopportare. Allora è necessario, che a civile discordia la cosa si riduca. Allora perirà in tutto la Patria, e in casi dubbiosi con certissima distruzione al fine diverrà da dovere di subito colla sua ruina finire. Allora con grandissima lelizia esulterà Cicerone, e stimerà avere ottenuto il suo disiderio, allorchè e’ vedrà questa Patria risplendere d’arme, e questa Repubblica di prossimi fuochi e incendi ardere. Allora lauderà i suoi consigli; e inalzando l’animo invitto, assai delle ricevute ingiurie sè e i suoi maggiori avere vendicati giudicherà. Perocchè alle volte è usato dire, la sua generazione avere avuto origine dalla famiglia di Tullio Ostilio per adrieto6 Re dei Volsci, dello [p. 6 modifica]Imperio Romano sempre inimicissima. La quale occasione sola in tutto è nota, che a lui sia invidioso il nome della Repubblica, ed egli questa Città abbia sempre in dispetto ed odio; per la potenzia della quale è oscurata la fama de’ suoi maggiori, e il suo imperio distrutto e ruinato. Le quali cose di quanta cura sieno negli umani ingegni, voi medesimi dovete estimare. Io solamente questo di Cicerone posso credere; che quella antica invidia, e vecchie inimicizie de’ suoi maggiori il suo impazientissimo ingegno al continuo incitino, che mai da impeto e rabbia non si riposi; tanto è immoderata la voluntà del suo animo a sovvertere e ruinare questo Imperio. Vede certissimo, pacificato e quieto tutto l’universo Mondo, tanti Re e Popoli superati, tante genti, e nazioni strane vinte e suggiogate. Le terre, i mari da ogni parte al nostro Imperio ubbidire; e nessuno inimico al Popolo Romano essere restato, al quale la nostra virtù assai cognita e provata non sia. Per la qual cosa ogni speranza di poter ruinare il nostro Imperio certissimamente a lui è mancata. Tutte le cose a noi sono sicure e quiete. Ciascuno a noi volontario ubbidisce. Volendo adunque sè e i suoi maggiori in tutto vendicare, nè potendosi mai da quella opinione il suo indurato e ferocissimo animo per alcuno modo posare, è rifuggito a queste perturbazioni, per le quali imprima essendosi meco di private inimicizie assai vendicato, il medesimo di tutta la Repubblica fare finalmente pensa. Il perchè accusa Lucio Catilina a lui inimico, e alquanti altri, della medesima congiurazione partefici7 e avvisati, la Romana Republica volere occupare; disfare la Patria; la Città di case e di dificii guastare; a’ Templi degli Iddii incendi apparecchiare; violare le vergini e fanciulli e vecchi, la plebe e i nobili per forza uccidere, da nessuna parte all’ira, e al ferro perdonare, insino che questa dell’altre Città bellissima imperatrice dai fondamenti in tutto ruinata sia. [p. 7 modifica]

Ma, per gli Dei immortali, non so a che fine tenda questa vana opinione; che alcuno creda trovarsi uno uomo tanto scelerato, o tanto al tutto di ragione ignaro, che in lui non intenda essere innata qualche pietà e amore della Patria, il quale con una certa tacita e potentissima forza di natura nei petti umani è sempre infuso. Quale animo Romano adunque tanta calamità a questa Republica veder disiderrebbe? Qual tanto asprissimo8 inimico a questo popolo, quello ancora crudelissimo Duce de’ Cartaginesi, Annibale, maggiori cose, o simili a queste contro a noi avrebbe potuto pensare? Io, Patrizio, la Romana Republica assalire vorrei, il quale tante volte grandissimi pericoli per la sua salute ho sostenuti? Io, Senatore, la Città guastare, la quale di tanti amplissimi edificii della nostra famiglia si vede ornata? Io, Romano, i Templi incendere, i quali tanti segni, tante tabule, tante immagini dei miei maggiori da ogni parte dimostrano? Io, togato e i Patrizi e Senatori scannare e uccidere, il quale tra esse degnità con sommo onore tante volte mi sono trovato? Io, candidato, con gli altri obbrobri la Città maculare, il quale infinite volte, che da altri non sia guasta, con grandissima forza e ardire l’ho difesa! Quale speranza, quale animo, qual commodo a tanta scelerata, e inonesta impresa me commoverebbe? Forse quello appetito di dominare, che poco innanzi racconto Cicerone? Or non ho io quietamente qualunque onore e dignità acquistata? Non ho io per l’avvenire tale speranza, quale ad alcuno uomo è lecito desiderare? Certo, nè la degnità Patrizia, nè la podestà Senatoria a me è mancata, nè per il tempo futuro il Consolato e la Dittatura potranno mancare. I quali onori sono tanti e tali, che non solamente in questa Città prestantissima, ma in tutto il Mondo gl’imperii, e i principati di tutte le genti e nazioni avanzano. Che era adunque bisogno quello con discordia e dificultà cercare, che a me spontanea[p. 8 modifica]mente e in pace era apparecchiato? O forse quello mi commosse, che, insieme con l’altre cose, Cicerone mi rimprovera, grandissimo debito d’infinita pecunia; incredibile necessità di cose familiari; e finalmente immoderata avarizia di rapire e predare le sustanze aliene. Ma in uno uomo stoltissimo saria temerario questo stimare; che, per avere alquante ricchezze, alcuno ordini tante turbazioni e discordie alla sua Repubblica. Conciossiachè a un uomo Patrizio, e Consulare in una Città tanto abbondantissima9 oneste ricchezze non possano mancare. Tanti guadagni voluntariamente innanzi s’offerano, e tanto entrate del pubblico erario; che se alcuno un poco la coscienza maculare volesse, nè in tutto al debito della onestà non ubbidire; incredibile è a dire quanto facilmente di qualunque ricchezza diventi copiosissimo. E per tacere degli altri, tu solo, Cicerone, mi se’ manifesto e attissimo esemplo, il quale quasi innanzi a ieri in questa Città venuto, di ciascuna cosa mendico e bisognoso, dappoi che i magistrati hai ottenuto, tanta moltitudine di ricchezze quasi in uno momento hai ragunate, che tutte le Colonie e Ville di questa città, appena sarieno a sufficienza ai tuoi contratti, e sontuosi mercati. Adunque a me inconsideratamente rimproveri l’avarizia e povertà, e uno grave peso di presente debito, le quali cose tutte per più sicuro modo avrei potuto mitigare, che la Republica quieta e pacifica perturbare; cose incerte per certe tentare; e me finalmente per un piccolo comodo a gravissimi casi e pericoli sottomettere. Nè per cagione ancora di private inimicizie, delle quali io sono accusato, tanta sceleraggine avrei incominciata. Nessuno è in questa Republica, Padri Coscritti, il quale io per inimico abbia. Solo Cicerone a me sommamente è odioso e molesto; che le sue iniquità, le quali occultamente commette, mai per alcuno tempo non ho potuto tacere. Le cui [p. 9 modifica]stultizie, se da me in tutto rimuovere e discacciare avessi voluto, senza pericolo pubblico mille vie a me alle vendette erano aperte; e non mi era bisogno alla ruina e al danno della Republica rifuggire. Nè a me la paura, nè i pericoli ostavano, conciossiache, se della vita degli uomini Marco Tullio fosse privato, non solo a vendicare, ma nè appena a piangere il suo corpo morto resterebbe. Ma gli Dii vietino, che io mai la mia intenzione per la sua temerità disonesti; perocchè nessuna vendetta agli uomini illustri contro ai vili e scelerati può es sere laudabile. La quale nondimeno se a caso più tosto avessi voluto, non è da pensare, o Quiriti, che in quel tempo l’avessi presa, nel quale a me poca opportunità, a esso di molto favore e commodo potea essere. Certo se alcuna volta la mia casa nel tempo notturno di moltitudine d’armati fortificai; amici assai e compagni condussi, guardie e vigilie ancora ordinai (delle quali cose nessune nego) feci, Padri Coscritti, non per fare ad alcuno ingiuria, ma per rimuoverla in tutto, e da me vietarla. Temevo l’impeto e il furore del Consolo, e il suo ingegno aveva notissimo. Sapeva le inimicizie; aveva inteso, questa congiurazione da lui ordinata a me proprio essere attribuita. Aveva terrore, che per la sua facundia in uno subito momento i vostri animi contro a me non sdegnassino; e innanzi alla esaminazione designati i pericoli, con vostra licenzia supplicio e pena di me si prendesse. E che se una volta sola nelle sue scellerate mani fossi divenuto, in vano poi alla mia defensione qualunque cosa era apparecchiata.

Adunque la vita mia con grandissima diligenzia in tante perturbazioni insino a questo giorno ho prolungata: ed ora, quando per tua persuasione ciascuno me come reo accusava, ora, quando a te, Cicerone, non era utile, fuor di ogni tua aspettazione nel Senato sono venuto; e quanto a me assai essere pareva, certi tuoi delitti minori ho manifestati; i quali più tosto avresti voluto essere occulti, che mai [p. 10 modifica]a sì scelerata impresa la tua opera e intenzione avere accomodata. Non ho alquanto della tua iniquità e malizia temuto. Nè la tua orazione minacce e terrori ora in alcuna parte me hanno spaventato; perocchè qual paura in tanta frequenzia di uomini Senatorii, in tanto e tale splendore di cittadini, l’animo d’alcuno al tutto innocente potrebbe per alcun modo commuovere o perturbare? Adunque io sono venuto finalmente a quel dì, il quale già è più tempo ho tanto desiderato, il quale tu per certo ora non aspettavi. Ho il Senato, il quale in tende la mia innocenzia, e presso il quale i tuoi vizii fieno divulgati. Con ottimo sussidio ai miei pericoli adunque ho sovvenuto, se mai colla moltitudine degli uomini armati il tuo furore da me ho discacciato: se sanza paura alcuna nella Republica fermo sono stato; se, mentre con ogni dimostrazione al fuggire mi confortavi, a me al contrario di rimanere l’animo è bastato. Ma, o Dii immortali, in qual luogo siam noi? Chi non vede l’aperta e palese ingiuria? E che altro contenne tutta la tua orazione, se non ch’io al tutto mi fuggissi? Ma se, come tu di’, tutti i miei fatti a te sono noti, se i miei consigli sono più chiari che risplendente luce; per qual cagione con tanta perseveranza mi conforti al fuggire? Sono qui da nessuno aiuto o favore circundato? È presente il Senato, il quale a te essere fatto forza o violenza vieterà. Dimostra queste cose tanto scelerate; manifesta la congiurazione, apparecchia il supplicio. Non si confà in tanti pericoli essere, nè parere essere misericordioso. Qualunque indugio assai può nuocere, e nessuno aiuto o sovvenimento dare. Se tu hai il principe della congiurazione, se tu hai l’imperatore dei nimici, perchè più tardi? perchè disideri di qui discacciarlo? Assai è utile, che lo esercito manchi del duce; perocchè subito diventeranno alle battaglie pigri. Ma veggio in verità, come suole avvenire nel mezzo dei mali, che l’animo tuo, per la coscienzia della iniquità, si comincia a raffreddare; imperocchè la rovina, la quale a me e alla Republica ap[p. 11 modifica]parecchiavi, in te certamente vedi essere conversa. La cosa ora, altrimenti che tu non pensavi, si tratta con grandissimo pericolo della tua vita. Dubitavi allora, ch’io non rimproverassi a te le tue fortune, ma che io venissi nel Senato già non pensavi, e però come quivi10 giunsi, timido e pauroso diventasti. Ora con minacce e terrore mi pensi spaventare? Non sai quanto sia grande l’animo dell’uomo innocente? Vuoi ch’io fugga, Cicerone; eh, per certo mai non fuggirò; ma starò più fermo e costante, e vincerò il tuo ardire, e la tua inaudita arroganzia. Necessario è, che io riprovi la perversità di tutti i tuoi consigli. Vengano in questo luogo ora i testimoni, de’ quali tu dici, che tanta copia a te avanza, che nessuna cosa delle mie opere a te sia già celata e nascosa. Chi producerai? Quinto Curio, uomo di fama perfetta e d’ottima vita? O quello il quale coi suoi vizii questo grado e ordine Senatorio ha più volte corrotto e maculato, e per male operare da tale degnità è stato rimoto?11 O forse Fulvia alla sua libidine equale12 e simile,13 la quale mai d’alcune occasioni non tenne il segreto, nè d’alcuno adulterio, d’alcuno sagrilegio, d’alcuna impudicizia è stata autore14? Certo costei in tal modo è vivuta, che come uno esemplario d’ogni sceleraggine tutte l’arti delle disfacciate meretrici egregiamente coi suoi vizii abbia superato? Questi sono gli uomini clarissimi, ai quali la perturbazione e discordia di questa Repubblica è tanto suspetta e mo[p. 12 modifica]lesta, e de’ quali i testimoni contro a me sono apparecchiati. Ma, per gli Iddii immortali, tu medesimo, Cicerone, co’ tuoi costumi ora ti dimostri. Il tuo furore troppo impudentemente alquanto usi. Non era in questa congiurazione da domandar la fede al Popolo Romano, se me scacciare e distruggere disideravi. Quegli dovevi eleggere, la vita dei quali più oscura, e i fatti un poco più occulti fossono stati. Molti per certo colla medesima pecunia alla tua ambizione più utilmente avrebbono acconsentito; ma il mal dire di quegli nessuno buono cittadino debbe temere, perchè facilmente possono essere ripruovati; conciossiachè la fortuna loro, la fede, e i fatti assai apertamente sieno manifesti. Quelli i quali a me avessono a nuocere o a giovare, più tosto che avversi e contrarii, che propizii o benigni mi fossono vorrei, acciò che la mia famigliarità, la mia vita con essi egualmente in dispregio non conducessi.

Adunque ora a voi, Padri Coscritti, tutti i fatti del Consolo vi sono noti e aperti. Ora eziandio a voi la mia innocenzia può essere manifesta. Che cose lui alla morte di Catilina, e a perturbare la Republica hanno commosso, chiaramente vedete. Meco da private inimicizie era stimolato; e per essergli stata la novità rimproverata, tutta la nobilità gravemente ha in odio, e secondo il costume de’ suoi antichi, naturalmente questa Patria inimica. E per tal cagione discordie e perturbazioni al continuo apparecchia, semina scandoli; nè mai il suo animo impazientissimo al nostro male e ruina si riposa. Accusa innanzi agli altri di prodizione15 della Patria me Romano, Patrizio e Senatore, del quale tante opere, tanti imperii, tanti magistrati, tanti benefici dei miei antecessori con amplissimo splendore di tutta la Repubblica sono evidentissimi; e a me per ingiuria la povertà rimprovera, la quale in una città ricchissima ancora ai minori Magistrati mai non potè nuocere, [p. 13 modifica]e oltre a questo gli odii e inimicizie, le quali a perturbare la Republica a me certamente non paiono convenienti. Vedete i testimoni da esso produtti, i quali sono tali, che avanzano gli ingegni di tutti gli scelerati. Le quali cose insieme, poiché con altri effetti, che già non pensava, gli sono riuscite, e me nel Senato presente vede, da improvviso timore è stato contenuto, e a me il fuggire con minacce comanda, che, avendo io errato, nessun supplicio, benchè grandissimo, tanto delitto potrebbe vendicare.

Se ora adunque, Padri Coscritti, la mia innocenzia aperta vedete; se del suo animo la ferocità intendete; se i pericoli della Republica ne’ vostri ingegni aperti avete; destatevi finalmente e del caso e fortuna dell’Imperio Romano abbiate misericordia. Avete un serpente nascoso nelle vostre interiora. Avete la calamità di tanta Repubblica in questo ordine serrata e rinchiusa, la quale vegghia a sempiterno esterminio del Popolo Romano. Voi quella in sommo onore avete allocata. Guardate che tal male tutto l’altro corpo della Repubblica non abbracci, e quasi come contagione intra voi si distenda. Discacciate presto, e diminuite questo ricettaculo e refugio di scelerati. Private questo uomo del supremo Consolato, acciò che i suoi orrendissimi vizii tanta degnità non abbiano a maculare. Rimovete quello da questa Repubblica; che queste santissime e religiosissime mura, esso attento e sollecito alla ruina della vostra Città dentro di sè giammai non riguardino. Se a voi son care le antiche memorie di questa Città; se a voi è giocondo l’aspetto dei figliuoli; se a voi è cara la pudicizia delle vostre vergini; se i Templi degli Iddii e ’l Pontificato, e’ Sacerdozii, le compagnie, le case, le ricchezze, le famiglie, e i clienti, le fortune di ciascuno, e i comodi di tutta la patria a voi sono suavi e accetti; eradicate ora dalla vostra Repubblica questo seme di tutti i mali; separate costui dal cospetto dei cittadini, il quale voi, e tutti i vostri beni distruggere pensa; il quale lo splendore del Popolo Ro[p. 14 modifica]mano con odii e discordie perturbare ordina. Soccorrete a questi pericoli, ovviate a questa calamità. Allora ogni suspezione fia mitigata, quando quello inganno dall’occulte insidie fia manifesto, quelli eserciti parati, quelle schiere degli uomini armati saranno dissipate. In questo uomo è posta solamente ogni loro fede e speme. Imperocchè quale altro contro a questo grandissimo e singularissimo imperio, contro a questo dominio di tutto il mondo l’animo e l’audacia di pochi scelerati avrebbe potuto innalzare e commuovere? Quale Cittadino Romano tanta atroce sceleraggine mai pensare? Questo, questo Cicerone nuovo d’Arpina della famiglia dei Tullii, occulti inganni alla nostra vita apparecchia solamente, e verso Catilina la congiurazione finge, acciò che più liberamente al suo consiglio possa divenire16; e alquanti di noi in giudicio conduce, acciocchè, sotto il nostro nome ragunate le moltitudini, la via a lui più facilmente ad occupare la Repubblica atta sia. Voi, Padri Coscritti, non vedete i vostri pericoli? Abbracciate adunque la Repubblica, misera e rovinata; sovvenite alla Patria, la quale perisce, e insiememente della salute comune e delle vostre fortune abbiate misericordia. E me, Cittadino, Consulare e Patrizio, amico e benivolo al Popolo Romano dalla rabbiosa gola del Consolo inimico liberate, e preghevole17 e innocente, all’usato splendore, e alla carità, e amore di tutti i cittadini, e alla vostra grazia e benivolenzia restituite.


Note

  1. Il Montemagno prende in questa orazione a difendere Catilina in nome e per bocca di costui parlando.
  2. Qui menti sta pel latino: pectora.
  3. Credete a me.... credetemi. Nota efficacia di modo in questa ripetizione alcun poco variata, nella quale la lingua meditata e scritta si accosta con bell’arte del dire alla lingua parlata.
  4. Secondo i grammatici si dovrebbe leggere questi, ma gli antichi sottointendendo uomo non serbavano questa regola.
  5. Sparto add. m. da spargere, diffuso, sparso, divulgato. Dante, Purg. C. 1. -

    Ambo le mani in sull’erbette sparte
    Soavemente il mio maestro pose,

  6. Adrieto. per Addietro.
  7. Partefice. V. A. Partecipe.
  8. Su questo modo vedi la nota appresso.
  9. Questo accrescimento al superlativo è modo molto efficace, usato da gli scrittori del buon secolo; pur non di meno conviene che si adoperi quando la materia il richiede e con diligente temperanza.
  10. Quivi per qui, da schivare.
  11. Rimoto per Rimosso. Dante Par. I. 48. Ringrazio lui, lo qual dal mortal mondo mi ha rimoto.
  12. Equale V. A. Eguale o uguale. Bemb. Lett. V.1.° 1.9. p. 210. Mi doni N. S. Dio grazia di poter per lei alcuna cosa equale a quello che ella ha per me fatto.
  13. O forse Fulvia alla sua libidine compagna: mss. R. Io ho lasciato la lezione del Manni, perchè modo più antico.
  14. Autore accorda con Fulvia, si noti, ed è qui femminino; alla stessa guisa che Giudice viene adoperato dal Guar. Post. Fido; Atto 2. Sc. 1. v.165. La bellissima giudice si assise. Si noti ancora a questo proposito che autrice de’ moderni non è di buono conio.
  15. Prodizione, tradimento, inganno, ordito contra la fede.
  16. Divenire per semplicemente venire; ma ha un cotal che di più forza ed eleganza, che non si può dire a chi non la senta.
  17. Preghevole vale supplichevole.