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Ma, per gli Dei immortali, non so a che fine tenda questa vana opinione; che alcuno creda trovarsi uno uomo tanto scelerato, o tanto al tutto di ragione ignaro, che in lui non intenda essere innata qualche pietà e amore della Patria, il quale con una certa tacita e potentissima forza di natura nei petti umani è sempre infuso. Quale animo Romano adunque tanta calamità a questa Republica veder disiderrebbe? Qual tanto asprissimo1 inimico a questo popolo, quello ancora crudelissimo Duce de’ Cartaginesi, Annibale, maggiori cose, o simili a queste contro a noi avrebbe potuto pensare? Io, Patrizio, la Romana Republica assalire vorrei, il quale tante volte grandissimi pericoli per la sua salute ho sostenuti? Io, Senatore, la Città guastare, la quale di tanti amplissimi edificii della nostra famiglia si vede ornata? Io, Romano, i Templi incendere, i quali tanti segni, tante tabule, tante immagini dei miei maggiori da ogni parte dimostrano? Io, togato e i Patrizi e Senatori scannare e uccidere, il quale tra esse degnità con sommo onore tante volte mi sono trovato? Io, candidato, con gli altri obbrobri la Città maculare, il quale infinite volte, che da altri non sia guasta, con grandissima forza e ardire l’ho difesa! Quale speranza, quale animo, qual commodo a tanta scelerata, e inonesta impresa me commoverebbe? Forse quello appetito di dominare, che poco innanzi racconto Cicerone? Or non ho io quietamente qualunque onore e dignità acquistata? Non ho io per l’avvenire tale speranza, quale ad alcuno uomo è lecito desiderare? Certo, nè la degnità Patrizia, nè la podestà Senatoria a me è mancata, nè per il tempo futuro il Consolato e la Dittatura potranno mancare. I quali onori sono tanti e tali, che non solamente in questa Città prestantissima, ma in tutto il Mondo gl’imperii, e i principati di tutte le genti e nazioni avanzano. Che era adunque bisogno

quello con discordia e dificultà cercare, che a me spontanea-

  1. Su questo modo vedi la nota appresso.