Opere di Niccolò Machiavelli/Avvertimento
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AVVERTIMENTO
SUl terminare di quella nostra edizione ci è pervenuta alle mani una lettera del Machiavelli, appartenente alla sua prima Legazione in Francia del 1500. mediante la quale abbiamo scoperto un abbaglio da noi preso nella Vita dell’Autore, relativamente all’epoca della morte di Bernardo Machiavelli suo padre. Appoggiati ad un antico Manoscritto di memorie, esistente presso un erudito Cavaliere, il quale fissava la morte Bernardo all’anno 1485 noi dicemmo che il nostro Niccolò aveva perduto il genitore in età di 16 anni. Ciò non è altrimenti vero: visse questi fino alla metà del 1500 e vedde per conseguenza il figliuolo incamminato nella carriera degli onori, ed impiegato dalla Repubblica in importanti ed onorevoli incombenze. La Lettera che accenniamo è la seguente, che posta a suo luogo sarebbe la XXIV della prima Legazione in Francia.
Magnifici & Excelsi Domini &c.
ANcora che io creda non essere necessario che io preghi le Signorie Vostre per la mia licenzia, stimando al fermo che quelle me l’abbino mandata con l’Ambasciatore, rimanendo quà per la venuta sua superflua l’opera mia; non dimanco mi stringe tanto la necessità dell’essere costì, che io ho voluto, quando tale licenzia non fussi seguita, non mancare a me medesimo, e pregarvi con ogni reverenzia piacciavi contentarmi di questa grazia; perchè mio padre, avanti il mio partire un mese, si era morto, dipoi si è morta una mia sorella; e restano le cose mie in aria, e senza essere ordinate, e in più modi mi consumo. Sicchè le Signorie Vostre, acciò mi possa riordinare costì, saranno contente farmi questa grazia; e io stato sarò costì un mese, sarò contento stare, non che in Francia, ma in ogni altro luogo, dove venga a comodità di Vostre Signorie; alle quali mi raccomando umilmente, quae bene valeant.
E. Ex. M. D.
- Die 25. Octbris 1500.
servitor |
Parimente nel tempo che noi producevamo la più completa edizione dell’opere di questo insigne Scrittore, sono stati tradotti in Francese, e pubblicati colla data di Amsterdam in due tomi in 8. i Discorsi del Machiavelli sopra la prima Deca di Tito Livio con questo titolo: Reflexions de Muchiavel sur la premiere Decade de Tite Live. Nouvelle traductions, prècedèe d’un discours preliminaire par M. D. M. M. D. R. a Amsterdam, & se trouve a Paris chez Lonbert le jeune. 1782. L’idea del discorso preliminare, premesso a quella traduzione è nobile e vasta, e perfettamente analoga a quella dello scrittore Fiorentino. Trattasi di applicare all’accrescimento e alla perfezione di cui sono suscettibili i governi de’ nostri tempi, i principj fondamentali de’ governi antichi, specialmente quelli che servirono di base alla grandezza de’ Romani. Anche senza modellarsi sul loro spirito di conquista, che non sarebbe conforme all’attuale sistema di equilibrio e di umanità che regna nell’Europa, i principj costitutivi della grandezza di quella maravigliosa nazione, possono stabilire la felicità, e la forza delle moderne monarchie. Le virtù politiche possedute in un grado eminente da’ Romani, furono i principj della loro grandezza; ma queste virtù medesime discendevano anch’esse da un principio superiore, ammesso il quale emaneranno sempre necessariamente simili conseguenze. La somma adunque delle cose starà nel ritrovare e dar moto a questo principio. Siano gli uomini persuasi della parte che hanno nello Stato, più o meno sensibilmente secondo le specie diverse de’ governi, rappresentando sempre il governo per presunzione la volontà generale di tutti i cittadini; siano persuasi del dovere e del diritto che ha ciascun cittadino di concorrere a tutti gli oggetti generali che interessano la Società in proporzione dell’interesse particolare che può avere ciascheduno in tutti questi oggetti; siano persuasi che la quiete, la sicurezza, la felicità d’ogni individuo dipende essenzialmente dalla prosperità dello Stato; che lo Stato non può prosperare senza che tutti i membri cospirino nel fine principale della Società; ed ecco sorgere l’amore della patria e dello Stato, che è il principio grande, il principio produttivo, il quale dilatando la sua energia in ragione della sua intensità, ed estendendosi a fecondare tutti i rami dall’albero politico, produrrà l’obbedienza alle leggi, lo zelo per l’osservanza delle medesime, l’austerità ne’ costumi, la temperanza nel bene, la sofferenza nel male, l’intrepidezza ne’ pericoli, il sacrifizio de’ particolari interessi, la retta educazione, tutte in somma le virtù, che rendono una nazione potente, moderata, leale, rispettata, e felice. Sarebbe superfluo il fermarsi a calcolare la forza di questo gran mobile. Un occhiata che si getti da una parte sui secolo di Cammillo, di Fabrizio, di Cincinnato, di Regolo; dall’altra su’ tempi delle irruzioni de’ Goti, degli Unni, de’ Vandali, e de’ Longobardi, ne risulterà una prova di fatto irrefragabile e decisiva, superiormente a qualunque raziocinio. Come mai uomini nati sotto un medesimo clima, sono in un tempo virtuosi fino al prodigio, in un altro vili e dispregevoli sino alla maraviglia? Niuna causa fisica ha potuto produrre sì enorme differenza in un medesimo popolo. La degradazione dunque, e l’avvilimento, nel quale si è veduto precipitare, dopo aver toccato il più sublime punto della gloria, è un effetto visibile della mala disposizione morale del suo corpo politico. Estintosi lo spirito di questo corpo per la dissoluzione de’ vincoli reciprochi della patria co’ cittadini, e de’ cittadini colla patria, si è esso illanguidito, e tutte le membra si sono adulterate e corrotte. È questo per altro il destino di tutte le nazioni. L’esperienza, si può dire, di cinquanta secoli, toglie ogni speranza che uno Stato o una nazione si conservi nel medesimo punto di grandezza. Un sistema più perfetto di legislazione, una serie o una ricorrenza di favorevoli circostanze può prolungare, ma non riparare affatto, o impedire la corruzione e la decadenza. Un popolo che nel formarsi in Società, o nell’emergere dal caos dell’anarchia e della confusione, ha la fortuna d’istituirsi nel buon ordine e nella virtù, passa sollecitamente alla prosperità e alla quiete, da queste all’opulenza ed all’ozio, dall’ozio alla licenza e alla rovina. È quello il vortice sul quale si sono aggirate, e che ha finalmente assorbite tutte le più potenti nazioni. Per trattenerle nella carriera precipitosa della distruzione, o per rialzarle dalla caduta, non resta altro rimedio che ritirarle verso i principi, e richiamarle a quelle cause che le hanno fatte prosperare. Una mente illuminata e sublime, che specoli e rinvenga queste cause, una mano potente e coraggiosa, che di nuovo le metta in moto, potrebbero operare questo risorgimento maraviglioso, e far nascere questo nuovo ordine di cose. Tale appunto a’ tempi del Machiavelli era il bisogno dell’Italia. Gli Stati innumerabili, ne’ quali era divisa questa provincia, sembravano non avere altro scopo che distruggersi reciprocamente. La Corte di Roma troppo debole per soggettargli tutti, e troppo ambiziosa per non immaginarne il disegno, dava moto a una successione continovata di estranee irruzioni, contrarie fra di loro, secondo che le speranze o i timori agitavano la sua inquieta e sospettosa politica. Talvolta e non di rado gl’interessi della Sede cedevano a quelli de’ figliuoli e de’ nipoti de’ Sedenti, e questi richiedevano nuovi piani e nuovi partiti. Per fabbricare a costoro fortuna, bisognava formare de’ disegni sopra gli Stati limitrofi, ed insidiare o la libertà delle minute Repubbliche, o la sicurezza de’ piccoli Sovrani. Questi occupati sempre in sostentare una esistenza pericolante, trattavano gli altri come si vedevano loro stessi trattati; s’insidiavano a vicenda, e i tradimenti, le frodi, le superchierie, gli assassinamenti, le violenze, non costavano altro che la fatica e il pensiero di fargli riescire. Mai non ebbe l’Italia nel suo grembo maggior numero di Repubbliche, nè mai fu tanto nemica della sua libertà. Divise queste fra di loro d’interessi e di mire, invece di sostenerli per mezzo dell’unione contro i prepotenti, godevano reciprocamente dell’altrui abbassamento, e prestavano la mano alla vicendevole rovina. Nell’interno di esse non amor di patria, non soggezione alle leggi, ma l’amor delle parti, le sette, e la licenza dominavano. Ogni cittadino considerava se stesso come un essere isolato, ed il suo proprio interesse come il centro di tutte le pubbliche e private operazioni. Quindi sciolto il vincolo della società, che è la mira al ben comune, tutto si faceva o in sodisfazione di qualche ambizioso, che ambiva o esercitava la tirannia, o per privata passione ed interesse. Tutto corrispondeva a un sistema così rovinoso, e a una depravazione cosi dichiarata degli elementarj principj di governo. Le armi che debbono nascere ed essere sostenute dalle buone leggi, delle quali sono reciprocamente il sostegno, erano tanto vili, quanto infedeli invalide in faccia al nemico, formidabili a quelli che le pagavano, e che invece di difendere i popoli e gli Stati, gli assassinavano e gli tradivano. Questi sconcerti erano una conseguenza necessaria del sistema militare di quel tempo. La milizia, istromento privativamente appartenente alla Sovranità, divenuta una professione affatto mercenaria e privata, si esercitava per mestiero, o per dir meglio come una mercatura, in cui i soldati erano la merce, e i capitani gl’incettatori e i mercanti. L’idea d’interesse prevalendo alla fedeltà degl’impegni, restavano i Principi ed i governi inermi ed abbandonati, subito che i Condottieri venivano dal nemico tentati con più vantaggiose condizioni. Aggiungasi che facendo a proposto per costoro la guerra, procuravano di fomentare le turbolenze, o le facevano nascere a bella posta, come l’unico mezzo per essi di sostenere e tener ferma una truppa di facinorosi sotto la loro bandiera. Questa specie di soldatesca non poteva essere nè valorosa nè disciplinata, non avendo subordinazione, e non essendo mossa da alcun virtuoso e nobile motivo. Niun piano ben concertato di operazioni, dova la somma delle forze consisteva nella raunanza di più schiere di Venturieri, ignoranti della tattica, senza infanteria, e molte volte fra di loro nemici. Le battaglie si riducevano a un urto di cavallerìa, la quale composta di mass inflessibili, sconcertata che fosse una volta, tutto era perduto senza rimedio. Ed ecco in qual maniera la Nazione Italiana, più memorabile per le sue virtù, che rispettata per le sue vittorie, e per l’immensa estensione del vasto suo Impero, ridotta per la sua corruzione ad essere calpestata da un capo all’altro da ventimila Francesi sotto Carlo VIII. saccheggiata dipoi da un pugno di Spagnuoli e di Alemanni, non riteneva più del suo antico splendore, che un funesto allettamento ad essere invasa, e non presentavasi, che come una preda fra i denti di diversi mastini, che si battevano fra di loro per istrapparsela di bocca. In quello stato di cecità, d’inerzia, e di miseria ella comparve al genio superiore del Machiavelli, il quale per mezzo di uno studio profondo, e di una perfetta penetrazione nell’anima e nella midolla della storia, giunto a discuoprire le vere cagioni dell’antica sua prosperità, e della sua moderna rovina, le aperse agli occhi della sua patria, ed azzardò una rivoluzione ed una riforma, che avrebbe potuto con una nuova creazione modellarla su quella de’ Fabj, e de’ Catoni. Questo generoso tentativo, non conosciuto dal volgo, e mascherato con atri colori dalle passioni che esso andava ad urtare, guadagnò al Machiavelli, invece della stima e della riconoscenza universale che si meritava, un odio e un aversione, in cui non si saprebbe dire, se spicchi meglio la cecità o la malizia degli uomini. Checchè però fia di ciò, e dell’influenza delle sue vedute sul sistema politico dell’Italia, egli sarà sempre riguardato come il padre, o il ristoratore almeno della savia politica. Finchè vi saranno uomini che intendano la scienza del governo, vi saranno ammiratori del Machiavelli, che negli scritti di lui cercheranno il sistema più sicuro e più ragionato di politica, e nelle sue intenzioni le mire più vaste, più generose, e più patriottiche. In questo giustissimo punto di vista lo ha considerato il moderno dotto traduttore Francese de’ Discorsi sopra Tito Livio, dietro a una serie di uomini intelligenti, continovata da’ tempi dell’Autore fino a’ dì nostri. I rapidi progressi, che a colpo d’occhio si vedono fare nelle profonde ed utili cognizioni, ci fanno prevedere che non passerà molto tempo, che qualunque vorrà passare per persona culta, si vergognerà di non conoscere a fondo gli scritti del Machiavelli, come arrossiìrebbe adesso chi non avesse notizia di Polibio, di Senofonte, di Tacito.