Occhi e nasi/Un cavaliere del secolo XIX
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Un cavaliere del secolo XIX
Aspettò con rassegnazione fino al 1880: ma poi gli scappò la pazienza, e cominciò a dire a tutti che lui di gingilli cavallereschi non voleva saperne, e che aveva sempre pregato Dio perchè, in mezzo a tante miserie umane, gli avesse almeno risparmiata l’umiliazione di vedersi fatto cavaliere.
E Dio parve disposto a contentarlo.
Passarono, difatti, dal 1859 in poi, centotrenta o centoquaranta ministeri (è difficile contarli tutti per bene), e fra questi ministeri non ve ne fu uno solo, che si ricordasse di Bruto Tanaglia, fabbricante di tessuti di canapa a Borgunto, Sotto-Prefettura rurale e capoluogo di circondario.
Intanto le croci piovevano a Borgunto, e, sbatacchiate dal vento di qua e di là, andavano a posarsi ora addosso al Sindaco, ora addosso agli assessori, ora sul berretto del farmacista, ora sul capo del medico-condotto, ora sulla giacchetta del caffettiere.
E in mezzo a questo acquazzone di croci, l’unico che, disgraziatamente rimanesse sempre asciutto, era il povero Bruto.
Il quale, in segreto, si mangiava l’anima dalla passione: ma in pubblico sorrideva olimpicamente, sfogandosi a dire e a ripetere a tutti che lui di gingilli cavallereschi non voleva saperne, e che aveva sempre pregato Dio perchè, in mezzo a tante miserie umane, gli avesse almeno risparmiata l’umiliazione di vedersi fatto cavaliere.
Intanto la moglie di Bruto, che era una donnetta simpatica, svelta e ammaestrata alla scuola del vivere in questo mondo, impensieritasi di vedere che il marito si struggeva a occhiate per una pena di cuore, fece come suol dirsi, un animo risoluto: e cogliendo un bel giorno l’occasione che il deputato di Borgunto era venuto in paese a far le vacanze di Pasqua, si vestì su per giù come la biblica Giuditta, quando partì per il campo di Oloferne, e con un velo fittissimo calato sugli occhi se ne andò diritta diritta a casa del Deputato.
Quel che gli dicesse, nessuno lo sa: ma deve avergli detto per largo e per lungo tutto quello che voleva dirgli; perchè i maligni e gli sfaccendati, che la videro entrare in casa, stettero apposta coll’orologio in mano, per poi cavarsi il gusto di concludere che si era trattenuta almeno una mezz’ora buona più del bisogno.
Fatto sta che, nel ritornarsene via, ella disse dentro di sè:
— Io l’ho fatto a fin di bene e per la felicità di mio marito! Iddio mi vede il cuore!... e sono sicura che mi perdonerà. —
E detto così, si sentì subito più consolata.
Venti giorni dopo io capitai in casa Tanaglia.
Mentre si stava lì facendo l’ora per andare a tavola (a Borgunto pranzano tutti a mezzogiorno), il mio buon amico Bruto mi ripeteva, senza avvedersene, per la quindicesima volta, che lui di gingilli cavallereschi non voleva saperne e che aveva sempre pregato Dio, perchè in mezzo a tante miserie umane, gli avesse almeno risparmiata l’umiliazione di vedersi fatto cavaliere.
Quand’ecco che la serva di casa entrò nella stanza e gli presentò un plico sigillato.
Appena aperto il plico, il viso di Bruto s’illuminò di un sorriso subitaneo e nervoso, e dalla sua bocca scoppiò un finalmente!... che parve proprio una pistolettata.
Ma poi rammentandosi che non era solo, si ricompose in un attimo; e pigliando l’atteggiamento accademico del Gladiatore morente, mugolò con voce cupa e tentennando il capo:
— Questa poi non me l’ero meritata!
— Che cosa t’è accaduto? — gli domandai.
— Mi hanno fatto cavaliere!
— Ci vuol pazienza, caro mio! È una disgrazia che può toccare a tutti. Non siamo sicuri neanche a letto.
— Che cosa mi consigli? debbo rimandarlo questo gingillo?
— Fa’ tu: ma ti avverto che quando le decorazioni sono diventate epidemiche, c’è più modestia a ritenerle che a mandarle indietro.
— Dimmi una cosa: come si costuma in queste disgraziatissime circostanze? Usa scrivere qualche parola di ringraziamento?
— Per il solito, sì.
— Ma io non rispondo nulla.
— Padronissimo!
— Tutt’al più, posso rispondere due versi, tanto per dire che ho ricevuto il plico.
— Basta e ne avanza. —
Bruto andò al tavolino, e preso un foglio di carta levigatissima e postosi in atto di scrivere, mi disse:
— Dettameli tu questi due versi: non ho mai avuto gamba a scrivere simili cortigianerie! —
Allora, senza farmi pregare, io cominciai a dettargli così:
— «Signor Ministro!»
— Signor Ministro?... — fece Bruto alzando il capo e guardandomi in viso. — Invece di Signor Ministro non sarebbe meglio di dargli un po’ d’Eccellenza?
— A me, piace più «signor Ministro». Ci si sente meglio il fare dell’uomo che se ne infischia.
— Verissimo: ma i ministri, credilo, ci tengono all’Eccellenza. Fa’ a modo mio: diamogli dell’Eccellenza!
— Dunque scrivi Eccellenza! Posso andare avanti?
— Va’ pure.
— «Sono sensibile all’onore....»
— Quel sensibile — disse Bruto, infilandosi la penna dietro l’orecchio — mi pare un po’ troppo corto: se si mettesse, invece, sensibilissimo?
— Allora scrivi «sono sensibilissimo all'onore.... ».
— Mi piacerebbe più «all’alto onore » — osservò l’amico.
— Perchè alto? quell’alto è un vocabolo esagerato.
— Non è vero: te lo provi che nelle lettere a qualche pezzo grosso si dice sempre alta stima e alta considerazione, anche quando s’ha l’intenzione di non dir nulla.
— Ebbene, — risposi io annoiato — scrivi un po’ come ti pare, e non se ne parli più. —
Scritta la lettera e sigillata, Bruto s’alzò, e presomi per tutte e due le mani, mi disse con accento basso e concitato:
— Ora ho bisogno da te di una prova di vera amicizia.
— Quale?
— Non devi raccontare a nessuno questa ragazzata della croce! A nessuno! Voglio che resti un segreto per tutti. Che vuoi che ti dica? Saranno sofisticherie; ma non mi so rassegnare a sentirmi dare del cavaliere.
— E io non lo racconterò a nessuno! Ma nemmeno a tua moglie?
— Dio te ne liberi! Sarebbe lo stesso che dirlo a tutto il paese. —
In quel momento apparve nella stanza la moglie: la quale, visto il marito in uno stato di profonda costernazione, gli domandò premurosamente:
— Che cos’hai? ti senti male?
— Una delle mie solite fortune! — replicò Bruto con accento d’infinita amarezza.
— Cioè?
— Leggi!... — E consegnò alla moglie il diploma del cavalierato.
— Oh! finalmente!... — gridò la signora Bianchina tutta contenta. — Sia ringraziato Dio!
— Ringrazialo tu. Quanto a me, l’unica cosa che mi fa piacere, in questo tristissimo quarto d’ora, gli è di sapere che la croce non l’ho chiesta come fanno tanti.... anzi come fanno tutti! Dunque, se l’ho avuta, l’ho avuta per merito tutto mio, per quel po’ di merito personale, che nessuno mi nega. —
A queste parole la signora Bianchina, sebbene fosse una donna di molto spirito, abbassò gli occhi e fu lì lì per arrossire; ma si riprese in tempo e disse dentro di sè:
— Io lo feci a fin di bene, e per la felicità di mio marito! Iddio mi vede il cuore! e sono sicura che mi perdonerà. —
E dopo si sentì subito più consolata.
Intanto Bruto suonò il campanello.
— Ha chiamato lei, signor Bruto? — disse la Rosa affacciandosi in sala.
— Brava Rosa! — gridò il mio amico. — Chiamami sempre il signor Bruto. Io mi chiamo così. Guai a te se una volta, una volta sola, ti scappasse detto, signor Cavaliere.
— Come, come? È stato fatto Cavaliere?
— Non ne so niente! Ti ripeto che io mi chiamo Bruto, e che in casa mia non conosco cavalieri! Hai capito, Rosa?
— Ho capito, signor Cavaliere.
— Da’ una corsa qui da Marcello e senti se potesse arrivare un mezzo minuto da me.
— Il signor Marcello sale in questo momento le scale. —
Marcello era il proprietario del biliardo pubblico di Borgunto. La sera segnava i punti ai giocatori di carambola, e nel giorno, non avendo da far nulla, compilava le notizie per il Foglio ufficiale della Sotto-prefettura, giornale che si pubblicava regolarmente due volte l’anno, e tre volte negli anni bisestili.
— Mi rallegro, ma proprio di cuore! — disse Marcello, stringendo la mano a Bruto.
— Quando l’hai saputo? — domandò l’altro, lisciandosi i baffi con tutte e due le mani, per nascondere un risolino d’infinita consolazione, che gli balenava sulle labbra.
— L’ho saputo mezz’ora fa dal Sotto-Prefetto. Domani mando fuori apposta un supplemento per annunziare la tua nomina.
— Per carità, non lo fare. Mi daresti un vero dolore.
— Perchè?
— Tu conosci i miei principj! Io non amo di dar pubblicità a queste ragazzate.
— Come c’entri tu?
— Ti ripeto, che mi daresti un vero dolore.... e mortificheresti un amico!...
— Quand’è così, ci rimedieremo.
— Come?
— Vado subito alla stamperia e faccio sospendere ogni cosa.
— Oramai lascia correre. Mi dispiacerebbe che, per causa mia, quei poveri stampatori dovessero perdere una giornata di lavoro. Pazienza! Bisogna rassegnarsi a bevere l’amaro calice fino in fondo! —
Intanto la Rosa venne a dire che la zuppa era in tavola.
— Andate e pranzate pure senza di me, — gridò Bruto pigliando il cappello e la mazza. — Io voglio arrivare qui dal parrucchiere per farmi tagliare i capelli. —
Quando Bruto entrò nella bottega del parrucchiere, il padrone e i suoi due garzoni cominciarono a strillare:
— Buon giorno, signor Cavaliere!
— Si accomodi, signor Cavaliere!
— Vuol farsi la barba, signor Cavaliere?
— Vuol tagliarsi i capelli, signor Cavaliere? —
In quel medesimo giorno, il mio amico Bruto tornò a farsi tagliare i capelli cinque volte.
Il parrucchiere, sebbene invecchiato nella professione, non aveva mai veduto il caso di una capigliatura, che avesse bisogno di essere tagliata ogni tre quarti d’ora: per cui non sapendosi spiegare questo fenomeno, finì col credere che la croce di cavaliere, fra le altre belle cose, fosse anche un cosmetico prodigioso per far crescere i capelli.
Che cosa sono i parrucchieri per certe ingenuità maligne!