Occhi e nasi/Il ragazzo di strada
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Il ragazzo di strada
Una volta si chiamava birichino o sbarazzino.
Oggi questi due nomi sono ringentiliti. Oggi si trovano dei birichini, che hanno la giacchettina quasi nuova e le mani quasi pulite: oggi s’incontrano degli sbarazzini, che possono perdere il fazzoletto di tasca, ma rispettano il fazzoletto nelle tasche degli altri.
Il ragazzo di strada, non ha più che veder, nulla con loro. È una tinta più forte, un tipo più canaglia, uno scolare che bazzica unicamente la R. Scuola della Corte d’Assise.
Qual è il suo nome? Non lo sa: o non l’ebbe mai, o se l’è dimenticato. Tutti i suoi compagni lo chiamano con un soprannome, e lui si volta subito e risponde.
— Come vi chiamate? — gli domanda qualche volta il Pretore.
— Centopelle....
— Codesto è un soprannome.
— Nossignore! Questo è il mio nome; ma il babbo, quando pativa di tenerezze, mi chiamava anche col soprannome di Pietrino. —
Il ragazzo di strada, perchè possiate riconoscerlo alla prima e non sbagliarlo coi falsi ragazzi (ogni confraternita artista ha i suoi guastamestieri) presenta questi connotati, o segni particolari:
viso sudicio:
mani sudice:
tutto il resto sudicio.
Il sudiciume è la prima camicia del povero. Un povero col viso pulito sarebbe un mezzo signore e sciuperebbe la collezione.
Durante i calori estivi il ragazzo si tuffa nel fiume, che scorre in mezzo alla città, ma non lo fa per lavarsi. Lo fa unicamente perchè gli hanno detto che il bagnarsi alla vista di tutti senza la foglia di pampano, è severamente proibito dai Regolamenti municipali.
Una trasgressione ai Regolamenti municipali, per il ragazzo di strada, è sempre molto più igienica e rinfrescativa dell’acqua corrente.
*
I suoi capelli, ribelli a ogni piega, non soffrono altra pettinatura, che quella delle cinque dita della mano. È l’arte del parrucchiere ricondotta alla semplicità della sua prima origine.
I suoi calzoni crivellati da lunghi strappi e da larghissime feritoje, lasciano passare la luce anche là, dove l’ombra sarebbe di rigore: ma il ragazzo di strada non se ne dà pensiero. Figlio genuino della natura, dimostra con la sua cinica spensieratezza di non aver mai capito per quale uso siano stati inventati i calzoni. Se avesse letto la Storia, c’è da scommettere che vorrebbe esser nato fra i sudditi della Regina Pomaré, prima che Pritchard avesse introdotto in quel felicissimo Regno il doppio incomodo della Bibbia e dei calzoni all’europea.
Ha i piedi quasi sempre scalzi, o se non li ha scalzi, li mena a spasso smarriti dentro un pajo di scarpe o di stivali vecchi, che starebbero bene al Colosso di Rodi. Il ragazzo di strada odia la calzatura umana e la considera come una macchina tribbiatrice, che l’uomo ha inventato apposta, per pestare i piedi al suo simile e poi burlarlo colla stupida domanda — «Scusi, gli ho fatto male?».
Il piede scalzo gli permette in tempi di pioggia di misurare la profondità dei rigagnoli e di esplorare coscienziosamente il fango della pubblica via. I lenzuoli, dove la sera ripone i piedi fangosi e impillaccherati, lo aspettano impavidi e non cambiano di colore!
*
Quando la mattina si sveglia non ha che un solo pensiero; quello di trovare la sera. Come riuscirà a trovarla? Ecco un quesito, che non gli fa nè caldo nè freddo. L’imprevisto è il suo elemento: mangia quando trova da mangiare e dorme dove lo piglia il sonno.
Filosofo per indole e per educazione, due cose sole cerca di scansare: le carrozze e il lavoro. Fra le due cose, quella che gli fa meno paura sono le carrozze: e s’intende. La ruota di una carrozza può tutt’al più stroppiare un uomo: ma il lavoro lo abbrutisce.
L’uomo che lavora, dice il ragazzo di strada nella sua arguta ignoranza, non può esser fatto a immagine e similitudine di Dio: perchè Dio lavorò appena sette giorni e sono ormai seimila anni che si riposa.
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Tutti i ragazzi di strada si conoscono fra di loro, anche se non si sono mai visti nè conosciuti. La prima volta che si incontrano, si dànno del tu, si trattano male e diventano amici.
Nelle loro escursioni girovaghe camminano dinoccolati e cogli occhi in qua e in là, come tanti forestieri in cerca di monumenti. I monumenti, in generale, che più richiamano la loro attenzione sono le botteghe e le mostre delle trattorie di lusso. Dinanzi a codeste provocanti mostre, il ragazzo di strada si ferma e medita lungamente: e dopo aver meditato, sputa. È la protesta dell’appetito non soddisfatto.
Cosa singolare, ma vera! Il ragazzo di strada contempla con molta languidezza di stomaco il pollo, lo zampone e il pezzo del rosbiff; ma dove lascia veramente gli occhi egli è sulla paniera delle frutta primaticcie.
Le frutta! ecco una ghiottoneria poetica e quasi meritevole di perdono. Se il buon padre Adamo, invece di cedere alla tentazione di due bellissimi pomi, si fosse lasciato vincere dalla golosità volgare di una bistecca o di un cibreo di rigaglie, la Leggenda dell’Eden sarebbe stata una pagina di prosa nauseante, e forse lo stesso Milton avrebbe rinunziato a scrivere il «Paradiso perduto».
II.
Due pronomi possessivi hanno sempre tiranneggiato l’umanità: il Mio, e il Tuo.
Padrona l’umanità di farsi tiranneggiare, ma il ragazzo di strada guarda in faccia questi due possessivi e ride di pietà, come se fossero due pregiudizi. D’altra parte, la roba sua, da che è al mondo, non l’ha mai conosciuta, e la roba degli altri ha sempre sentito dire che bisogna rispettarla in un solo caso, quando, cioè non sia possibile di appropriarsela con disinvoltura e senza dare scandalo ai carabinieri o alle guardie di Pubblica Sicurezza.
Saldo in questi principj di libero scambio, ogni volta che gli capita la palla al balzo, allunga la mano e s’ingegna: ma non è un ladro volgare: è piuttosto un dilettante che promette bene! Tanto è vero che, quando racconta le sue prime prodezze, le racconta con una naturalezza e con un candore da innamorare:
— Sai, Stomachino, dove sono andato l’altro giorno? Sono andato a Pisa.
— E i quattrini per il viaggio chi te li ha dati?
— La fu una combinazione. Giravo in piazza del Duomo, per trovare un fiammifero da accendere la pipa e invece trovai un portafoglio con dentro cinquanta lire....
— E dove lo trovasti?
— Nella tasca di un reverendo che leggeva il giornale. Anzi nel tirar fuori il portafoglio, venne via anche il fazzoletto di seta, ma quella la fu una disgrazia. Guarda che bel fazzoletto!
— O perchè non lo vendi?
— Venderlo? Mi vergognerei! Lo voglio serbare più che posso, non foss’altro per avere una memoria di quel degno sacerdote. Credilo, Stomachino, se tutti i preti fossero a quel modo, le cose d’Italia le anderebbero molto meglio!... —
*
Nessuno è felice in questo mondo: nemmeno il ragazzo di strada. Anch’esso ha i suoi disinganni e le sue amarezze: anch’esso è vittima di mille persecuzioni e di mille ingiustizie.
Fra le tante ingiustizie di questo mondo, l’ingiustizia che non ha potuto mai inghiottire è quella di vedersi mettere in carcere almeno due volte il mese, mentre il Presidente del Tribunale non ce lo mettono mai! E poi si deve dire che la legge è eguale per tutti!
Nauseato da tanti soprusi, finisce qualche volta col prendere in uggia il paese natio, e dice ai sui compagni con accento di profondo sconforto:
— Voglio mutar aria....
— E il motivo?
— In questo paese un galantuomo non ci può più campare. Se giri per la strada, ti dicono che sei un vagabondo e t’arrestano, se stai a vedere chi passa, ti dicono che sei un ozioso e t’arrestano, se cammini col berretto sugli occhi, ti dicono che sei una persona sospetta e t’arrestano, se entri in Chiesa per dire un paternostro, si figurano che tu sia un borsajolo e t’arrestano, se campi del tuo senza chiedere nulla a nessuno, dicono che non giustifichi i mezzi di sussistenza e t’arrestano, se scansi le guardie di città inciampi nei questurini, se scansi i questurini inciampi nei carabinieri.... insomma, per un galantuomo, in questo vilissimo paese non c’è più verso di tirarsi avanti!...
— E dove vuoi andare?
— In qualche luogo anderò. Alla peggio, alla peggio anderò in Egitto.
— Che è lontano di molto?
— Un viaggio di quattro o cinque giorni. Io non ci sono mai stato, ma la strada me la figuro. Si piglia il biglietto alla stazione: quando si arriva al mare, tu svolti a mancina e poi tu cammini sempre diritto al naso. Il primo coccodrillo, o il primo cassiere scappato che incontri, quello lì è l’Egitto. —
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In politica il ragazzo di strada non ha opinioni nè convinzioni profonde. Per lui tutte le dimostrazioni di piazza sono legali, purchè si gridi Viva o Abbasso qualche nome o qualche cosa di facile declinazione.
I nomi bisbetici e difficili a pronunziarsi lo mettono di malumore, per la ragione che non gl’importa d’intendere quel che dice, ma gli basta di poterlo sillabare correntemente. In certe cose i ragazzi somigliano moltissimo agli uomini grandi.
Peraltro, se lo lasciate padrone di scegliere, preferisce sempre le dimostrazioni nelle quali si grida Abbasso.
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Il ragazzo di strada nasce pittore come Giotto: ma invece di disegnare una pecora, esordisce per il solito col fare su i muri bianchi delle case il ritratto di qualche soldato fantastico, che ha la testa voltata di faccia e due piedi, che camminano ognuno per conto proprio. Dai ritratti militari passa dopo pochi giorni a disegnare l’Anatomia pittorica, ossia le parti principali del corpo umano, beninteso, che queste parti le vede sempre in proporzioni molto più grandi del vero.
Se per caso i muri bianchi delle case e dei palazzi fanno pompa imprudentemente di fregi e di ornamenti modellati in gesso o in calcina, allora il ragazzo non si dà pace, fino a tanto che non abbia trovato un sasso, che possa servirgli da martello demolitore. Egli cova un’antipatia feroce e direi quasi un odio ereditario per i fregi e per gli ornamenti di materia friabile. Rispetta soltanto quelli di bronzo e di ferro battuto. Cane non mangia cane.
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Stando alle cronache del tempo, il greco Diogene girava per le vie della città con una lanterna in mano, cercando l’uomo; ma invece dell’uomo trovava sempre un mammifero, il quale credeva in buona fede di essere un animale ragionevole, per il solo motivo che il Creatore, lì per lì, si era dimenticato di fargli la coda come all’altre bestie.
Il ragazzo di strada, più modesto del filosofo greco, gira anch’esso di nottetempo con una lanterna accesa: ma si contenta di trovare delle cicche e dei mozziconi di sigaro. E dalla maggiore o minore lunghezza di questi mozziconi, giudica della miseria o della prosperità di un paese.
— Un popolo (dice lui ne’ suoi aforismi economici) che fuma i sigari fino in fondo, fino a bruciarsi i baffi e la lingua, è un popolo all’elemosina, ridotto a mangiar un po’ di pan secco e una fetta d’istruzione obbligatoria: cibo da polli!...
III.
Interrogato a quattr'occhi e in un momento di libero sfogo, il ragazzo di strada è capacissimo di raccontare le avventure della sua vita con parole che parrebbero umoristiche, se non fossero pronunziate con tutta la serietà di un biografo sincero.
— Mio padre e io (comincia per esempio a dire) siamo tutti una famiglia di martiri, ossia di quegli infelici, condannati fin che campano a essere perseguitati dall’infame destino e dai reali carabinieri.
Mio padre, un uomo innocente come l’acqua, ma astratto fin che ce n’entra, una sera andando a casa credette di mettere la chiave nell’uscio di casa sua, e invece era la casa d’un altro. La chiave di santa ragione non voleva aprire, motivo per cui mio padre, che aveva freddo a star fuori, si messe le mani in tasca e per fortuna ci trovò un grimaldello.... la cosa più naturale del mondo, ne conviene? Qual è quel galantuomo e quella persona prudente, che esce la mattina di casa, senza la precauzione di mettersi in tasca un grimaldello e una boccetta d'arnica, per tutte le disgrazie che possono avvenire? Il grimaldello, come è naturale, fece subito il suo dovere, e mio padre, sempre distratto, credendo di essere entrato in casa sua, accese un fiammifero e cominciò a girare per le stanze. Quand'ecco che inciampa per fortuna in un astuccio di posate d'argento. Fu allora che s’accòrse dello sbaglio, per cui in fretta e furia riprese la scatola dei fiammiferi che aveva lasciato sulla tavola, se la messe sotto il pastrano e venne via. Ma appena fu nella strada, incontrò i soliti questurini, che gli domandarono: — «Dove andate?» — e lui — «vado a casa» — e loro — «che cosa avete costì sotto il pastrano?» — e lui — «una scatola di fiammiferi» — e loro — «vediamola!...». Si figuri come rimase il mio povero babbo, quando si accòrse di aver preso per isbaglio l'astuccio delle posate, invece della scatola dei fiammiferi! Uno sbaglio può accadere a tutti, ne conviene? Ma il tribunale non volle intendere la ragione e condannò quell’innocente a tre anni di casa di forza. Lo vuol credere? il crepacuore e la disperazione del mio babbo fu così forte, che non potendo sopravvivere a tanta vergogna, fuggì di prigione e non s'è fatto più rivedere. —
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— Io poi (seguita a dire) fui vittima di un’altra disgrazia. Un giorno correvo a gambe per la strada e, nel correre, volle il maladettissimo destino che un bottone della mia giacchetta si attaccasse alla catena d’oro d’un signore, che passava per la via. Io senza avvedermene seguitavo a correre, e dietro a me correva la catena d'oro, e dietro alla catena d’oro si messe a correre anche l’orologio. Lei sa come son fatti gli orologi: quando cominciano a correre, non si fermano più! Allora fui menato dinanzi ai giudici, laddovechè raccontai ingenuamente la storia del bottone: ma i giudici, tutta gente di buon umore, si posero a ridere e mi condannarono a quarantacinque giorni d'inferriata. E fosse stata almeno l’ultima! Dopo quella prepotenza, ne ho dovute inghiottire in pochi anni altre diciotto. Loro le chiamano recidive, ma io le chiamo prepotenze, perchè privano il libero cittadino del più prezioso de' suoi diritti, che è quello di non andare in prigione.
Del resto, io che leggo anche i giornali e che vado tutti i giorni alla Corte d’Assise per istruirmi e per imparare a difendermi e a ragionare, ho detto sempre che è inutile parlare di libertà, fin tanto che in questo mondo ci saranno i carabinieri e i questurini. Bisogna addirittura abolirli. Una volta levato di mezzo questo scandalo, lo creda a me, finirebbe quell’odio di partito e quella guerra fraterna fra ladri e galantuomini, che è la vergogna de’ nostri tempi e la rovina d’Italia. Me ne appello ai Guelfi e ai Ghibellini.
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Discendente in linea retta dal genovese Balilla, per la ragione, come dice il poeta, che «i figli d’Italia son tutti Balilla», il ragazzo di strada maneggia i sassi con precisione e tira a segno nei cartelli di porcellana delle pubbliche vie, perchè così il municipio abbia modo di tenergli conto dei cartoni che fa.
Se invece di ferire il cartello di porcellana coglie nel cristallo di una finestra, o in una vetrina di qualche magazzino, allora si allontana subito con molta dignità per non entrare in pettegolezzi inutili e per protestare contro il feroce proverbio inventato dai proprietarj del «chi rompe, paga».
Negli spettacoli pubblici si arrampica su per i muri con una elasticità meravigliosa e sa mantenersi sospeso in aria, purchè trovi l’appoggio d’un chiodo, d’una foglia d’albero, d’un filo d’erba. Se i naturalisti lo studiassero a fondo, ne farebbero l’anello di congiunzione fra la lucertola e la capra.
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Quando c’è un corteo funebre di gala, il ragazzo di strada non manca mai a raccattare la colatura dei torcetti e delle candele; egli solo conosce l’arte di fare struggere un torcetto di quattro chili in due soli minuti. Una vera vocazione avuta in dono dal cielo!
Nei corsi del carnevale lo vedete ficcarsi fra le ruote delle carrozze signorili, per dare la caccia ai confetti e ai mazzi di fiori. Le gambe dei cavalli lo rispettano, le ruote delle carrozze gli passano su i piedi e non gli fanno male. Il ragazzo di strada, è più inviolabile dello Statuto.
Fuma, senza impallidire, la foglia infida del nostro sigaro, ride sul viso al Pretore come i primi cristiani ridevano in faccia a Nerone, conosce tutta la gamma del blasfema ereticale, e sul tema obbligato del nome santo di Dio eseguisce un concerto di variazioni infinite. È il Paganini della bestemmia.
Se letica co’ suoi compagni, apriti cielo! Qualifica i loro babbi e le loro mamme con una proprietà di epiteti, che rivelano uno studio profondo sulle miserie intime dell’alcova e del letto coniugale, e parla, all’occorrenza, anche la lingua preistorica del buon Lot, come se avesse fatto un corso di lingue in qualche Liceo a mezza strada fra Sodoma e Gomorra.
Quant’anni ha il ragazzo di strada? Nessuno può dirlo con esattezza, e, meno degli altri, lui. Per uomo, gli manca qualche cosa: — e per ragazzo, c’è qualche cosa più del bisogno.