Occhi e nasi/Un filosofo in erba
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Un filosofo in erba
A Firenze c’è una piazza che tutti la chiamano la piazza di San Marco.
Quella piazza ha nel mezzo un giardinetto, quel giardinetto ha una statua, e quella statua non ha cappello.
I Fiorentini dicono che quella statua è il generale Manfredo Fanti; e il generale li lascia dire. È così buono quel soldato di bronzo!
Quanto al giardinetto, pare un giardinetto vero e proprio; ma, invece, è una felice imitazione del vero. Pochi fiori artificiali, poche foglie metalliche tinte di un verde lussureggiante, pochi cespugli di mortella e di stecchini da denti, e basta.
In mezzo a questa vegetazione falsa e bugiarda, come la vecchia Mitologia, non c’è di vero che quel povero giardiniere municipale, che sta lì a far la guardia giorno e notte, aspettando i barbari di Brenno, che non arrivano mai. Un’oca senza Campidoglio.
Un bel giorno, che era appunto il giorno natalizio della nostra graziosa Regina, mentre me ne andavo bighellonando là là, dove le scarpe mi portavano, entrai senza avvedermene nel piccolo giardinetto della piazza San Marco, e lì vi trovai quattro giovinetti, fra gli otto e i dodici anni, che urlavano, ridevano e si rincorrevano, facendo fra di loro il giuoco della mosca-cieca, nobilissimo giuoco che risale all’età quasi preistorica, in cui i Greci d’Agamennone introdussero il governo costituzionale dentro le mura di Troja.
I quattro giovanetti erano guardati a vista una bella ragazza, e la bella ragazza era guardata a vista da un caporale dei bersaglieri.
Quando fu l’ora di andarsene, la fantesca gridò ai ragazzi:
— Ehi, signorini, si raffreschino un poco. Io non voglio ricondurli a casa così scalmanati! Sono rossi come gamberi. —
E i ragazzi, che non avevano più voglia di fare a mosca-cieca, ubbidirono subito, o vennero tutti e quattro a sedersi sopra una panchina accanto alla mia.
E uno di loro disse:
— Bisognerebbe che ogni giorno fosse il natalizio della Regina; almeno così sarebbe vacanza tutti i giorni!
— Fra poco ci tocca il natalizio del Re — soggiunse un altro, leccandosi i labbri dalla gran consolazione.
— Che bella cosa a esser re! — disse il maggiore dei quattro fratelli.
— Se io fossi re!... — disse il più biondo con un gran sospiro.
— Se tu fossi re, che cosa faresti? — gli domandarono i fratelli.
Il ragazzo prima di rispondere, ci pensò un poco, e poi disse:
— Se io fossi re, vorrei pigliare tutti i maestri e mandarli a scuola, perchè provassero anche loro il bel gusto che c’è a dovere studiare per forza!
— Bravo!
— Bene!
— Eccoti un bacio!
— Io poi se fossi re!... — soggiunse il più piccino di loro.
— Che cosa faresti?
— Vorrei pigliare tutte le mattine una bella tazza di caffè-e-latte, ma col permesso della mamma, di poterci mettere le dita dentro, per poter raccattare lo zucchero e i minuzzoli di pane rimasti in fondo!
— Scusa! codesta non è una cosa pulita! — osservarono gli altri.
— Lo dice anche la mamma: ma gua’, sono gusti: a me il caffè-e-latte mi piace più a beverlo colle mani che colla bocca.
— Io poi se fossi re!... — soggiunse il terzo.
— Icchè tu faresti?
— Vorrei comprare subito una grammatica nuova e cinque panini di cioccolata.
— Io comprerei piuttosto dieci panini di cioccolata. Alla grammatica ci pensa il babbo — osservò uno di loro.
— E te, Giannino, se tu fossi re, che cosa faresti?
— Se io fossi re — rispose Giannino — vorrei avere una bella corona....
— Per portarla in capo?
— No... per regalarla al mi’ Maestro, invece dei capponi del Ceppo. —
A queste parole mi voltai e, guardando quel ragazzetto, dissi dentro di me:
— Povero figliuolo, non puoi campare: tu hai troppo giudizio!... —