Occhi e nasi/Scampolino
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Scampolino
Nacque figlio unico di un buon uomo e di una buona donna.
Quella buona donna era sua madre e quel buon uomo aveva un certo diritto a essere suo padre: ma il destino volle altrimenti!
Portato al fonte battesimale in un giorno di pioggia e di vento, vi beccò un’infreddatura e il nome di Aniceto.
Dell’infreddatura guarì: ma del nome non si guarisce mai. Oggi i suoi coetanei lo chiamano col soprannome di Scampolino, soprannome che gli torna a capello: perchè Aniceto, fra gli uomini di statura comune, è un vero scampolo, o come chi dicesse, un uomo fatto a miseria. Prova ne sia, che gli mancano quattro dita di gambe, tre dita di stomaco e due dita di cervello. In compenso la natura, sempre benigna, gli ha regalato un paio di piedi così abbondanti che, veduti di profilo, paiono due piedi e mezzo: triste regalo, che ha messo questo infelice nella dura necessità di doversi comprare gli stivali a un tanto il metro!
Scampolino fa il mestiere d’impiegato regio, e gode uno stipendio o, per dir meglio, soffre uno stipendio di sessanta lire al mese e lo soffre con molta rassegnazione.
Le sessanta lire mensili vengono ripartite così:
L. | 4,00 | di ritenuta. | |
» | 15,00 | per fitto della camera. | |
» | 0,20 | alla serva di casa, perciò gli rifaccia il letto una volta il mese, quando il mese è di trenta giorni, e due volte quando il mese per disgrazia è di trentuno. | |
» | 10,00 | al calzolaio, in diminuzione di un vecchio debito per cinquantaquattro metri di risolature fatte in diversi tempi. | |
» | 3,00 | per le colazioni, a 10 centesimi l’una (nei giorni di grasso, un pantondo coll’odore del salame; e nei giorni magri, un pezzo di pane strofinato leggermente a un barilotto di acciughe squisite). | |
» | 9,80 | al fornaio, in conto di tanto pane divorato con ansia febbrile in que’ giorni che stava aspettando il decreto di nomina.
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» | 5,00 | al sarto per avergli somministrato in altri tempi un cappotto da guardia nazionale, coi galloni da caporale e una tasca interna per le cartuccie e i lupini salati. | |
» | 10,00 | al trattore, per tanti desinari mangiati e digeriti con una imprudenza veramente imperdonabile. | |
» | 2,50 | per giocare al lotto una volta la settimana, e tenere così una finestra aperta alla fortuna, nel caso che la fortuna non volesse passare dalla porta. | |
» | 0,25 | centesimi per candele, fiammiferi e opere di beneficenza. | |
» | 0,05 | centesimi per sapone e altri oggetti di lusso. | |
» | 0,15 | centesimi per la lavandaia e la stiratora. | |
» | 0,05 | centesimi per un sigaro da sette centesimi, e qualche altro divertimento lecito ed onesto. | |
In tutto | L. | 60,00 |
Da questo conto buttato giù in punta di penna si rileva che, fatte tutte le spese e saldati i suoi impegni, rimangono a Scampolino più di cinquanta lire mensili di debito, nette da ogni ritenuta, per rivestirsi e per andare a pranzo.
La sua guardaroba è semplicissima: ha una camicia colle maniche, e due maniche senza camicia, per potersi cambiare.
Un soprabito solo gli serve per tutte le stagioni. Bisogna per altro sapere che questo soprabito è soppannato da una fodera che, invece di esser fissa, è amovibile a volontà, come la nostra magistratura.
Durante le brezze pungenti dell’inverno Scampolino, porta il soprabito foderato; ai primi tepori di maggio comincia a lasciare la fodera a casa; e nei solleoni, quando il sole scotta davvero, allora va all’Ufizio colla fodera sola, e gode di un frescolino così piacevole che, chiudendo gli occhi, gli par d’essere a Interlaken o in vetta all’Abetone.
Scampolino non pranza tutti i giorni, no; ma pranza qualche volta, ed è sempre molto, specie per no impiegato governativo come lui, che avrebbe tutto il diritto di non pranzare.
Quanto a cenare, il caso è diverso.
Scampolino cena una volta l’anno; la sera della festa dello Statuto. In codesta solenne ricorrenza, compra due soldi d’olio, e da quel buon impiegato governativo che è, attacca un lampioncino alla finestra: ma poi, per una di quelle dimenticanze naturalissime, che possono accadere a tutti, non l’accende mai.
Alle dieci di notte torna a casa, e coll’olio rimasto per caso nel lampioncino mette insieme una frittata, che divora con grandissimo raccoglimento, in segno di profondo omaggio a quel Patto fondamentale, che guarentisce ai cittadini del Regno tutti i diritti politici e civili, salvo beninteso, quel diritto volgarissimo e quasi inutile di levarsi la fame almeno una volta la settimana.
Mangiata la frittata, Scampolino entra a letto e gridando: Viva lo Statuto e fuori i lumi, spenge la candela.
Scampolino non ha vizj. Non beve vino, per rispetto ai precetti della santa Temperanza, la quale insegna che, non avendo mezzi per bevere il vino, l’uomo prudente deve dissetarsi coll’acqua.
Scampolino non piglia ai caffè: perchè il caffè gli tocca i nervi, segnatamente a doverlo pagare.
Se di tanto in tanto Scampolino fuma un mozzicone di sigaro, non lo fa per la vanagloria o per il piacere irresistibile di sciuparsi la bocca o lo stomaco, ma fuma unicamente per mitigare i bruciori dell’appetito. Quando la fame lo tormenta davvero, il povero diavolo non conosce un altro calmante più efficace di un sigaro della Regìa. Con cinque pani, cinque pesci e cinque sigari cattivi, Scampolino prenderebbe l’impegno di sfamare cinquemila persone, come dice il Vangelo.
Scampolino, è vero, non pranza tutti giorni; peraltro ogni giorno, dopo l’Ufizio si trattiene a girandolare in su e in giù lungo le strade più popolate, e prova una gioia ineffabile e serena nel poter dire e ripetere a quanti lo incontrano: — «Faccio l’ora del pranzo. Questa frase ambiziosa e succolenta gli riempie lo stomaco d’aria e di speranze, e lo culla nella dolce illusione che anche gli animali fienati e biadati a spese del Governo abbiano diritto di fare i loro pasti quotidiani, alla pari dei cani, dei gatti e di tutte le altre bestie domestiche, allevate e mantenute in famiglia.
Venuta l’ora del pranzo, Scampolino, secondo il consueto di tutti i giorni, s’incammina un passo dietro l’altro verso qualcuna di quelle tante trattorie a pian terreno, che hanno sulla strada una bella mostra, o come chi dicesse, una bella vetrina, nella quale si vedono esposti con civetteria molti piatti di porcellana, pieni di tortellini di Bologna da cuocere, di rigaglie di pollo, di costolette panate, di tartufi, di zamponi, di coteghini, di bondiole, di lodole, di tordi, di formaggi indigeni e forestieri e di mille altre ghiottonerie.
Arrivato difaccia a questa vetrina, Scampolino si ferma; e riconcentrato tutto in se stesso, come un egittologo davanti a una piramide medita dei primi Faraoni, medita lungamente su quei piatti di porcellana pieni d’ogni ben di Dio.
Poi figurandosi colla sua immaginazione di trovarsi seduto comodamente a una tavola della trattoria e d’avere lì presente il cameriere che aspetta i suoi ordini, Scampolino comincia fra sè e sè questo dialogo:
— Vuole una buona minestra sul brodo?
— No; l’ho presa anche ieri: oggi voglio qualche cosa di asciutto: ordinatemi una porzione di quei tortellini.
— Col sugo?
— No, col formaggio e burro; ma che siano conditi bene!
— Si lasci servire. —
Intanto la gente che passa per la strada, accorgendosi di quest’uomo, che discorre da sè solo davanti alla mostra di una trattoria, si volta a guardarlo, sorride e tira diritto.
Ma Scampolino non si cura dei curiosi che lo guardano; e seguitando a lavorare d’immaginazione, e figurandosi che il cameriere gli abbia messo sotto il naso un bel piatto di tortellini fumanti, cava fuori di tasca un pezzo di pane casalingo, e dopo averne preso una bella boccata, riattacca il dialogo con se medesimo, così:
— Ehi, cameriere! questi tortellini mi paiono poco conditi! (seguitando a masticare il pane).
— Ecco dell’altro parmigiano! E ora vanno meglio?
— (masticando sempre). Mi paiono gli stessi di prima.... È un parmigiano che non sa di nulla.... (pigliando un’altra boccata di pane). E dopo i tortellini, che cosa mi dài?
— Vuole un cibreino di rigaglie?
— Le rigaglie, caro mio, si digeriscono troppo presto, e io ho bisogno di roba che rimanga sullo stomaco almeno ventiquattr’ore, perchè.... non ho tempo per pranzare tutti i giorni!
— Vuole un paio di quelle costolette panate?
— Due sono poche: pigliamone tre, anzi pigliamone quattro..., ma oh! facciamo una cosina alla svelta, perchè ho un appetito da lupi!
E qui il dialogo rimane interrotto per qualche minuto, tanto che il cuoco (sempre nell’immaginazione di Scampolino) abbia il tempo di friggere le quattro costolette panate.
Appena Scampolino si figura che le quattro costolette siano in tavola, attacca un gran morso nella midolla del pane, e ripiglia mentalmente il filo del suo discorso col cameriere:
— (masticando la midolla). Queste costolette potrebbero essere migliori!
— Eppure è una carne squisita!
— E invece, al sapore, le paiono costolette di pane.... E dopo, che cosa mi dài?
— Vuole due tordi arrosto?
Ne prenderò quattro: tre per me, e uno lo regalerò al primo povero che incontro per la strada. Se tu sapessi, caro mio, che cos’è un tordo arrosto per tanta povera gente condannata tutto l’anno a mangiare pan solo! —
E il dialogo a questo punto rimane interrotto daccapo, perchè l’arrosto di tordi abbia tutto il tempo (sempre nell’immaginazione di Scampolino) di cuocere o di pigliare il colorino simpatico della nocciuola.
Appena l’arrosto è pronto, Scampolino mette in bocca un altro grosso pezzo di pane, e ricomincia mentalmente il suo dialogo così:
— Ahimè! Quest’arrosto di tordi ha un gran difetto! Sarebbe?...
— Mancano i tordi.... Io non ho trovato altro che i crostini di pane. Fammi il conto. —
E figurandosi che il cameriere gli risponda che il conto è già stato pagato, Scampolino dà un’ultima occhiata alla vetrina, e, un passo dietro l’altro, ritorna verso casa.
Giunto nella sua cameretta e prevedendo che un giorno o l’altro toccherà a morire anche a lui, e probabilmente di appetito rientrato (una brutta morte), Scampolino si prepara due righe di testamento, col quale lascia i suoi debiti ai poveri della Parrocchia e il suo ritratto in fotografia al Museo di Storia Naturale, perchè i posteri possano levarsi la curiosità di vedere come fossero ben nutriti quei poveri animali che, sotto il governo italiano, erano ingrassati alla famosa greppia dello Stato.